Settembre 2007

L’Europa utile

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Danni ancora più seri
ma forse riparabili
Mario Pinzauti  
 
 

 

 

 

 

Una parte almeno dell’Europa
continua dunque
a procedere
con successo:
non possiamo ignorarlo, mentre prendiamo atto, con amarezza,
del tramonto del sogno dell’Europa politica.

 

«Lo tsunami è stato evitato ma il ciclone – anzi una serie di cicloni – purtroppo no». Le parole (nostre) riportate qui sopra tra virgolette e apparse su questa Rivista sembrano un appropriato commento a un fatto recente: il Consiglio europeo svoltosi a Bruxelles il 22 e il 23 giugno di quest’anno. Lo sembrano, ma non lo sono. Sono state pubblicate su Apulia due anni fa a proposito di fatti avvenuti tra il maggio e il giugno del 2005, quando lo tsunami dei risultati negativi dei referendum francese e olandese si abbatté sul progetto di Costituzione dell’Unione e un Consiglio europeo, prendendone atto, decise di aprire una pausa di riflessione auspicando che essa servisse prima a curare le ferite e poi a far rimarginare le cicatrici che si erano create nel fino ad allora complessivamente sano e robusto organismo dell’Europa integrata.
Trascorsi due anni, conclusa la pausa di riflessione, proprio nel momento culminante delle festose celebrazioni del primo mezzo secolo di vita dell’Unione europea, e proprio mentre un Eurobarometro annunciava il sì al progetto costituzionale di due su tre dei 483 milioni di cittadini dell’Europa comunitaria, lo tsunami è tornato improvvisamente a colpire. Lo ha fatto con i disastrosi risultati del vertice svoltosi a Bruxelles lo scorso giugno. Ecco perché il nostro commento del 2005 torna ad essere pienamente valido due anni dopo. Un ritocco è semmai opportuno solo per il titolo. Quello del 2005 fu “Danni seri ma non irreparabili”. Quello del 2007, con un pizzico di pessimismo in più, diventa invece, come avete visto, “Danni ancora più seri ma forse riparabili”.

E speriamo di non sbagliare: dato che non si può, davanti al giugno di Bruxelles e ai suoi immediati sviluppi, evitare di chiedersi se i danni che ci troviamo a registrare siano davvero ancora riparabili dopo che il Consiglio europeo, cedendo, nonostante le resistenze di alcuni Paesi (tra cui l’Italia), al fuoco anticomunitario della Gran Bretagna e della Polonia, ha seppellito il progetto di Costituzione, sostituendolo con un progetto di trattato in cui si rinuncia alla bandiera con le dodici stelle, all’Inno alla Gioia, a un motto che era una sintesi di uno dei più esaltanti impegni politici dell’Unione (“Unità nella diversità”) e in cui, inoltre, si rinvia al 2014 (e per la Polonia addirittura al 2017) l’adozione del sistema della doppia maggioranza (55% degli Stati membri e 65% dei cittadini rappresentati) ideato per liberare le decisioni legislative del Consiglio dei Ministri dal cappio paralizzante del possibile ricorso al diritto di veto anche da parte di un solo Paese.
C’è chi crede, o almeno spera, che i danni siano ancora riparabili. E chi invece vede un nero totale nel futuro di un’Europa comunitaria che, come tante imprese e avventure politiche del passato, potrebbe essere entrata in un processo di autodistruzione dovuto sia a un’eccessiva crescita delle sue dimensioni (è passata in cinquant’anni da sei a ventisette Stati membri) sia alle contraddizioni e ai contrasti tra Paesi che sono entrati nell’Unione partendo da esperienze politiche e condizioni economiche molto diverse le une dalle altre.
I mesi che ci dividono dalla fine dell’anno, dunque dagli esiti della conferenza intergovernativa incaricata di preparare la bozza del nuovo trattato, daranno più forza all’una o all’altra posizione. È un fatto che – come ha sottolineato il nostro Presidente della Repubblica a Vienna, all’indomani del Consiglio europeo del 22-23 giugno – ormai sono scontati un «impoverimento e una frammentazione» del testo solennemente approvato il 29 ottobre 2004 dai capi di Stato e di governo dell’Unione riuniti a Roma nella sala degli Orazi e Curiazi del Campidoglio, nella stessa sede in cui, nel 1957, furono firmati i trattati che istituirono la Comunità europea.
Resta da vedere se le perdite di forma e di contenuto subite a Bruxelles in giugno si aggraveranno ulteriormente. La Polonia dei gemelli Lech e Jaroslav Kaczynski ha già preannunciato nuove richieste. Di fronte a queste e ad altre uscite Prodi ha sostenuto che molti, in seno allo stesso vertice dei capi di Stato e di governo dell’Unione, «hanno perduto lo spirito europeo». Neppure nella versione molto riveduta e ancor più corretta proposta dal vertice di giugno a Bruxelles il nuovo trattato dell’Unione promette dunque di avere vita facile. Con la conseguenza che altre brutte sorprese non possono essere escluse a priori.
In attesa di vedere come andrà a finire, cresce la convinzione in una buona parte sia della classe politica sia degli stessi cittadini che si stiano creando, anzi siano in parte già operanti, le premesse per una svolta radicale nel processo d’integrazione europea.
A nostro parere la svolta alla quale da Bruxelles è stato dato l’avvio sta ricacciando inesorabilmente verso l’utopia delle lontane origini il sogno degli Stati Uniti d’Europa, cioè di un’Unione federale, che con il Mercato Unico, la partenza dell’euro, alcuni traguardi raggiunti dal processo di allargamento (forse il più importante fu l’Europa dei quindici) era sembrata realizzabile, anzi a portata di mano. Altiero Spinelli, Ernesto Rossi, Eugenio Colorni si rivolteranno nella tomba e i milioni di uomini e donne che hanno fatto proprie le idee di questi e altri padri fondatori del progetto di Europa Unita si sentiranno parte di un esercito di sconfitti e saranno esposti alla tentazione di gettare la spugna, anche se in una parte almeno di loro potrà sopravvivere la speranza di un miracoloso rilancio dei progetti federali.
Alla fine di giugno, a Roma, abbiamo avuto occasione di partecipare a una riunione del Consiglio Italiano del Movimento Europeo (all’organizzazione aderiscono in Italia e negli altri Paesi dell’Unione tutte le maggiori associazioni che partecipano alla battaglia europeistica) e siamo stati testimoni della nascita di un impegno corale per salvare prima e rilanciare poi la prospettiva dell’Europa federale. E manifestazioni di questo genere durante l’estate si sono moltiplicate su tutto il territorio dell’Unione gettando tra l’altro le basi per un coinvolgimento dell’opinione pubblica attraverso referendum, raccolta di firme, manifesti.
L’europeismo è dunque seriamente ferito, ma non sottoscrive ancora l’atto di resa. E tuttavia è impressione nostra – e purtroppo anche di molti altri – che esso non disponga di forze sufficienti per impedire il successo della svolta di cui i referendum del 2005 hanno creato le premesse seguite, con il Consiglio europeo di questa estate, dalla partenza di un’operazione che giorno dopo giorno si fa sempre più inarrestabile.
Questa svolta ora, dopo il vertice di giugno, procede a viso aperto, senza più nascondere, o solo mimetizzare, le sue intenzioni e i suoi obiettivi. Accantona il progetto degli Stati Uniti d’Europa, vale a dire di un’Europa federale, ma punta a realizzare la più grande area di collaborazione economica, sociale e culturale esistente al mondo e a stabilire, parallelamente, con le cooperazioni rafforzate, una più piccola alleanza politica che potrà, se funzionerà, avere peso e influenza sul piano internazionale, contribuendo tra l’altro alla salvaguardia mondiale della pace.
La prospettiva che ne esce è diversa, diversissima da quella disegnata dal “Manifesto di Ventotene”, dai progetti di Jean Monnet, dai confronti tra Adenauer e Schuman. Si capisce dunque che essa, a primo impatto, possa far inorridire e soffrire molti europeisti. Ma è davvero tutta da buttare nel cestino o presenta aspetti degni di attenzione, di riflessione e, specie se interverrà la collaborazione degli europeisti, anche di approvazione?

Noi crediamo che la risposta a questo interrogativo richieda una spassionata riflessione in cui si mettano a confronto i vari aspetti, negativi e positivi, del problema. Crediamo anche che le scelte e i giudizi che saranno la conseguenza di tale risposta non potranno prescindere da una realistica valutazione di quanto tutti noi, 483 milioni di cittadini dell’Unione europea, abbiamo ottenuto dal processo d’integrazione e salvo forme di cataclisma politico, economico, naturale oggi assolutamente imprevedibili, dovremmo riuscire a mantenere. Ovunque ci porti la svolta, comunque funzionino quelle che, con il tempo, potranno diventare due Europe, la più grande, quella economica e la più piccola, quella politica, è inimmaginabile che il territorio occupato dall’Unione dei 27 Paesi possa cessare di essere la più grande area di pace e di democrazia esistente al mondo, la sede della maggiore potenza commerciale internazionale e delle più generose donazioni ai Paesi sottosviluppati, un luogo dove la salute, l’alimentazione, l’ambiente godono di protezioni non esistenti in altri continenti, un laboratorio di iniziative per favorire la crescita economica e l’inclusione sociale delle classi più povere, dei disabili, dei giovani, degli anziani.

Riteniamo che a questo punto sia facilmente prevedibile il punto d’arrivo del giudizio nostro e, speriamo, di molti altri. Abbiamo molte ragioni per sentirci delusi dal tramonto, ormai quasi certamente inevitabile, dei progetti di Spinelli, Schuman, De Gasperi, Adenauer, Monnet e anche dei giovani tedeschi e francesi che nel 1945 insieme abbatterono i paletti di frontiera dei ponti del Reno e insieme applaudirono alla nascita di una fratellanza europea. L’Europa politicamente unita in una federazione non è nata e ha poche possibilità di nascere nel vicino e forse anche lontano futuro. I prossimi allargamenti ai Paesi dell’area balcanica, forse anche alla Turchia, non faciliteranno una maggiore coesione politica. Potrebbero addirittura renderla impossibile. Tutto questo però non impedirà il progresso e il rafforzamento di quella che Altiero Spinelli aveva definito “l’Europa dei mercanti” e che sempre di più si sta però caratterizzando, per il suo lavoro, come “l’Europa dei cittadini”, cioè una collaborazione di Stati (oggi 27, domani forse 30, anche di più) volta a migliorare le condizioni di esistenza delle centinaia di milioni di uomini e donne che la popolano. I prevedibili nuovi insuccessi politici cioè non basteranno a oscurare o solo offuscare il successo di quella che noi da sempre, su questa Rivista, abbiamo chiamato l’Europa utile, forse, anzi, le daranno addirittura la possibilità di agire finalmente sotto la luce dei riflettori, di diventare protagonista delle prime pagine dei giornali.
La svolta ci sta in definitiva imponendo una doppia Europa: quella più grande, e probabilmente destinata a ingrandirsi ulteriormente, dei vantaggi per tutti i cittadini; e quella politicamente impegnata e influente cui darà un concorso attivo solo un gruppo di Paesi. Non c’è dubbio che, rispetto agli anni della partenza, il processo d’integrazione ha già subìto e continua a subire, nella forma, perdite rilevanti. In compenso, ci ha già dato e continua a dare una crescente quantità di benefici. E altri li promette per il futuro.

Pochi giorni prima del disastroso vertice di giugno, la Commissione europea ha annunciato una direttiva che potrebbe dare un notevole contributo alla soluzione del problema dell’immigrazione clandestina, un fenomeno che ogni anno coinvolge, nell’Unione, poco meno di mezzo milione di disperati provenienti dalle zone più povere del mondo. Per frenare questo flusso – che annualmente è causa di 3-4.000 morti e rende possibili forme di vero e proprio sfruttamento schiavistico (ci sono immigrati irregolari che lavorano per 12-16 al giorno per un salario di trenta euro e senza le più elementari garanzie nel campo della sicurezza) – la Direttiva sta predisponendo norme che renderanno obbligatorie severe forme di controllo sulle imprese che traggono profitto da questa vera e propria tratta di esseri umani. Secondo il Vicepresidente della Commissione europea, Frattini, se l’iniziativa darà buoni risultati, come si hanno serie ragioni per sperare, si otterrà anche di favorire un incremento dell’immigrazione regolare, di cui l’Europa, per la sua crisi demografica, cioè il notevole aumento delle persone anziane, ha urgente bisogno.
Ecco un’importante, bella novità sui benefici che l’Europa utile continua a dare ai suoi cittadini. E altre l’hanno seguita proprio mentre stavamo prendendo atto, con rammarico, della catastrofe politica di Bruxelles. “Erasmus”, il programma per soggiorni di studio in tutti i Paesi dell’Unione di universitari e docenti, ha festeggiato il ventesimo anno di esistenza e lo ha fatto mettendo sulla torta di compleanno un numero di tutto rispetto: 1 milione e mezzo di partecipanti solo tra gli studenti. E ad essi, come a tutti coloro che, per studio, lavoro, anche turismo, hanno necessità di soggiornare per periodi più o meno lunghi in un Paese dell’Unione diverso da quello di normale residenza, l’Europa utile ha fatto un regalo: l’istituzione della tariffa europea per le telefonate da cellulari, con la conseguenza di una sensibile riduzione dei costi, contenuti in un massimo di 0,49 euro al minuto (più Iva) per le chiamate verso un altro Paese europeo e di 0,24 euro al minuto (più Iva) per chi riceve le telefonate.
Tanto altro è contemporaneamente annunciato o è già in arrivo con le iniziative previste nel quadro dell’Anno europeo delle pari opportunità (che è il 2007), con le nuove misure a garanzia della qualità dei cibi, con la “lista nera” che, a tutela della sicurezza dei viaggiatori, vieta a una serie di compagnie aeree di varie parti del mondo (tra cui tutte quelle indonesiane, che sono ben 51) di operare nell’Unione europea. Eccetera.
Una parte almeno dell’Europa, quella che direttamente favorisce gli interessi dei cittadini, continua dunque a procedere con successo. Non possiamo ignorarlo mentre prendiamo atto, con amarezza, del tramonto (o addirittura crepuscolo?) del sogno dell’Europa politica. Quel sogno non si è realizzato, probabilmente mai si realizzerà, ma ha favorito e continua a favorire il miglioramento della condizione di vita di centinaia di milioni di persone. Si può perciò affermare che non è stato inutile; e che lascia, comunque la si pensi, risultati importanti.

 

   
   
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