La Cina ricca
ed emergente
giova ai governi dei Paesi ricchi, perché li finanzia con
la forza
del suo surplus commerciale:
poco importa
che tragga il
grosso della sua competitività dal social-dumping.
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Il problema era stato posto appena un paio di mesi fa da Gerard
Lyons sul Financial Times: «Presto le tre parole più
comuni che leggeremo non saranno Made in China, ma Owned
by China: il Confezionato in Cina prima o poi
cederà il passo al Controllato dalla Cina».
Leconomista-capo della Standard Chartered vede nel capitalismo
di Stato della Cina, della Russia e del Vicino Oriente una forza
che può cambiare il mondo, se solo sposterà le sue
riserve dallinvestimento in titoli pubblici a quello in partecipazioni
azionarie. Lyons stima in 2.000 miliardi di dollari le risorse dei
fondi statali del Vicino Oriente, e in 3.300 quelle dei Paesi asiatici.
Morgan Stanley è più cauta e ritiene che i fondi gestiti
da società statali vicino-e-mediorientali, cinesi e russe,
arrivino a 2.500 miliardi. Comunque sia, su somme del genere si
può costruire una leva finanziaria che ne moltiplica per
cinque o sei volte limpatto. La Cina ha già provato
un primo assaggio investendo tre miliardi di dollari ai fondi di
private equity del Blackstone Group, poche settimane prima che questo
si quotasse a Wall Street. E da poche settimane a questa parte gioca
in proprio, affidando 200 miliardi di dollari, (un sesto delle sue
riserve), a un nuovo fondo statale di investimento in azioni e immobili
sui mercati esteri.
Immaginare che i titoli del debito pubblico occidentale, a partire
dai 4.600 miliardi di dollari di quello americano, perdano allimprovviso
il loro maggior sottoscrittore perché questi, come un gigantesco
private equity fund, si mette a dare lassalto alle Borse,
è unesagerazione. E tuttavia comincia a serpeggiare
un certo allarme. Lapertura dei mercati nazionali dei diritti
di proprietà vale a dire il frutto più maturo
della globalizzazione può consegnare parti rilevanti
delle economie dei Paesi democratici più o meno liberalizzati
a centri di potere finanziario controllati da governi che non danno
le stesse garanzie di democrazia politica e di libertà economica,
di rispetto dellambiente naturale e del lavoro e dei diritti
umani. Leconomia cinese, non dimentichiamolo, è tuttora
controllata dal governo comunista tramite istituzioni analoghe allIri.
Il Cremlino possiede le più grandi imprese russe e sceglie
gli oligarchi privati. Le potenze dellIslam aggiungono, agli
altri, anche i rischi della commistione degli affari con la religione.

È forse giunto il momento, per la cultura liberale europea,
di chiedersi se sia ancora attuale la teoria di Wimbledon, secondo
la quale conta che al torneo di tennis partecipino i migliori del
mondo e non che vi vinca un inglese. Ammesso e non concesso che
questa teoria fosse utile anche a soggetti diversi della City di
Londra, sta maturando lora delle contropartite, delle garanzie
di reciprocità nelle regole. E anche lora delle difese.
La Germania ha varato unagenzia che ha il compito di consigliare
il governo quando sia il caso di porre il veto alle acquisizioni
di aziende tedesche da parte di soggetti pubblici esteri. Il modello
è lUS Committee on Foreign Investments, che suggerisce
alla Casa Bianca quando si debbano bloccare gli investimenti esteri
minacciosi per la sicurezza nazionale. Ma lo spirito è quello
francese se Joseph Ackerman, leader della Deutsche Bank, chiede
di definire quali siano i settori dove la Germania non vuole perdere
il controllo. Sono i segni di unEuropa che rimane scissa tra
chi, come il Regno Unito, vuole libertà finanziaria ma non
integrazione politica, e chi, come la Germania, è stato il
motore dellintegrazione politica ma non rinuncia ad aggiungere
laggettivo sociale alleconomia di mercato. Forse perché,
per chi lucra commissioni miliardarie sul merger and acquisition
(ovvero tutte quelle operazioni di finanza straordinaria che portano
alla fusione di due o più società, N.d.R.), limportante
è che tutto si compri e si venda il più presto possibile,
non importa ad opera di quali spinte e in funzione di quali obiettivi,
mentre per tutti gli altri stakeholder la definizione degli interessi
è più articolata.

In Italia, la riflessione empirica sugli effetti attuali e prospettici
della finanziarizzazione dei grandi gruppi lascia troppo spesso
il posto a polemiche di principio, strumentali agli interessi di
breve periodo dei poteri forti e alla costruzione del
consenso sul mercato politico, che ha portato a illudersi su conversioni
anglicizzanti dei Sarkozy e delle Merkel. Da noi (casi Autostrade,
Edison, Telecom, Alitalia
) è prevalsa la politique
dabord, che nega la teoria di Wimbledon nei fatti, ma non
si assume la responsabilità di unalternativa trasparente;
che vorrebbe difendere una legge sullOpa più liberista
della direttiva comunitaria, ma poi lascia in piedi patti di sindacato
e piramidi societarie, con unindustria dei fondi che non ha
nemmeno il coraggio di intervenire nelle assemblee delle banche.
E ora scendiamo per li rami, trattando del made in Italy
tra attacco e difesa. Premettendo con franchezza che la ripresa
dellindustria italiana è stata robusta nel 2005-2006,
al punto che persino alcuni tra i più convinti declinisti
hanno cambiato parere, e sia pure con una buona dose di faccia tosta,
ora tessono le lodi del made in Italy e dei Distretti. Eppure, per
parecchio tempo si era mistificata la realtà delleconomia
del nostro Paese, accusando le imprese di scarse capacità
di crescita dimensionale, internazionalizzazione e innovazione.
Ci si accorge adesso che non è stato così, e appare
evidente che mentre molti sui mass media e ai convegni predicavano
male, le imprese facevano in silenzio il loro dovere e sul campo
razzolavano bene: infatti Pmi e Distretti hanno puntato su prodotti
a più alto valore aggiunto e le quote di mercato del made
in Italy appaiono oggi più solide di quanto si pensasse;
inoltre, per numero di brevetti di design comunitari depositati
nel 2006 e per capacità di export nei mercati emergenti del
mondo, lItalia si colloca, tra i Paesi europei, seconda solo
alla Germania. Infine, gli studi di Mediobanca-Unioncamere hanno
messo in evidenza che non esiste un problema di declino da
nanismo, e che anzi il cosiddetto quarto capitalismo
manifatturiero italiano (fatto da 4.000 medie imprese e da poche
centinaia di grandi imprese fino a 2 miliardi di euro di fatturato)
ormai produce da solo un Pil superiore a quello dellintera
industria svedese.
I Distretti industriali, dal canto loro, appaiono globalmente in
recupero e il loro export aggregato lo scorso anno è arrivato
a toccare un nuovo massimo storico. In moltissimi casi, le vendite
allestero hanno fatto registrare tassi di crescita a due cifre.
Infine, in una conferenza tenutasi ad Arezzo ad inizio anno, è
stato sottolineato il contributo fondamentale allo sviluppo del
territorio italiano offerto dalle Banche Popolari. Dopo tanto pessimismo,
sarebbe dunque facile concludere che tutto è bene quel che
finisce bene. Ma le cose non stanno così.
Nonostante i successi, occorre essere consapevoli che ci sarà
ancora da soffrire non poco sui mercati internazionali, perché
la competizione globale è durissima. Va bene giocare in attacco,
ma non va trascurata la difesa. E soprattutto è vitale non
abbassare la guardia in presenza di minacce molto gravi per lindustria
manifatturiera italiana (e non per questa soltanto), quali la concorrenza
sleale e la contraffazione.
Tre episodi, di varia natura ma dalle conseguenze ugualmente preoccupanti,
sembrano emblematici. Il primo: forse pochi sanno che sul sito della
Commissione europea da qualche tempo è comparso un Libro
Verde intitolato Gli strumenti europei di difesa commerciale
in uneconomia globale in mutamento. Datato 6 dicembre
2006, il testo la dice lunga sulla grande forza hobbistica esercitata
sugli ambienti della Commissione dagli importatori del Nord Europa
e dalle grandi multinazionali che hanno pesantemente delocalizzato
allestero. Infatti nel Libro si pretende di dimostrare che
il vero interesse del Vecchio Continente non è più
quello dei produttori europei, ma di chi appunto ha
delocalizzato, e che quindi non sarebbe più giusto applicare
sanzioni e dazi antidumping contro Paesi che pure ci fanno concorrenza
sleale, perché così si rischierebbe di danneggiare
anche aziende europee.
Dal momento che il documento è articolato sotto forma di
questionario, ci sembra importante che dal governo italiano e dalle
imprese si reagisca con fermezza, presso le sedi comunitarie, contro
questi approcci sfacciatamente antimanufatturieri che
danneggerebbero fortemente il nostro Paese. Infatti, non dovrebbero
esserci dubbi su quello che è il primario interesse dellEuropa
e soprattutto dellItalia, un Paese che nei settori tipici
del made in Italy realizza ogni anno un surplus commerciale di 100
miliardi di dollari, evidentemente fatto da imprese che producono,
che creano posti di lavoro e che pagano le tasse entro i confini
nazionali, e non allestero.
Secondo episodio. A metà gennaio, il blocco della vendita
in Cina di parecchi prodotti griffati, tra cui quelli di grandi
aziende italiane come Armani, Zegna, Max Mara
, perché
ritenuti non conformi alle normative cinesi sulla salute, ligiene
e la sicurezza. Davvero incredibile, anche se si pensa con quanta
leggerezza invece lEuropa tolleri lingresso nellUe
di prodotti di origine cinese non solo in palese dumping, ma anche
non del tutto, o in minima parte rispondenti agli standard europei,
grazie allinfluenza interessata, esercitata su Bruxelles dai
soliti noti, vale a dire i Paesi del Nord Europa.
Terzo episodio. Una media impresa di Novara, una delle 4.000 censite
da Mediobanca-Unioncamere, sta lottando da sola in Perù contro
limport selvaggio dalla Cina di valvole e rubinetti contraffatti.
In quel Paese lo scorso anno sono arrivati circa un milione di pezzi.
Pochi gli aiuti che questa azienda ha ottenuto dallItalia,
mentre una diplomazia cinese sempre più tracotante e minacciosa
ha fatto sentire il suo peso. Ciò nonostante questa nostra
impresa, che in Perù è da anni leader del mercato,
non si è persa danimo, e da anni spende risorse in
processi: ha fatto bloccare merci e containers alle dogane, è
riuscita a tutelare in varie occasioni il proprio marchio. Nulla
però ha potuto contro la pretesa di aziende cinesi di registrare
in Perù marchi contenenti la parola Italia o
Italy, per esempio Walitaly. Col rischio
che in futuro non solo questa azienda, ma anche altre imprese italiane
si trovino paradossalmente a non poter più utilizzare il
marchio made in Italy sui mercati sudamericani.
Made in China e contraffazioni a 360 gradi. Spaghetti rivestiti
di batteri, (i noodle, in scatola, pronti per luso:
unicona nazionale). Pesce secco insaporito con lubrificanti.
Insalate bagnate con coloranti. Pane ammorbidito con residui di
plastica. Oltre ai giocattoli dipinti con vernici tossiche, il menu
cinese a tavola offre un campionario di veleni abbastanza corposo.
Negli Stati Uniti è stato ritirato dai negozi, perché
tossico, non solo il cibo per animali; è stata bloccata anche
limportazione di anguille, gamberi, capesante e pesci-gatto
perché presentavano consistenti tracce di medicinali e di
varie altre sostanze chimiche. In Spagna, negli Stati Uniti, in
Canada e in Nicaragua i ministeri della Salute hanno sequestrato
le confezioni di un dentifricio-killer, il Dentamint, contenente
una sostanza pesticida e il glicolo dietilenico, detto glicerina
della morte, un solvente per macchinari di pulizia, ma anche
un prodotto che i cinesi miscelano in diverse medicine, fra cui
gli antipiretici per la febbre, che hanno causato una cinquantina
di morti ufficiali.
Nella stessa Cina, e nei Paesi in cui si esportano, ci sono 26 categorie
di prodotti ad alto rischio, dallacqua imbottigliata alla
frutta in scatola, dai tessuti trattati e macchiati
con elementi chimici tossici ai medicinali grossolanamente riprodotti,
senza alcuna concessione delle case-madri farmaceutiche, e alla
carne di maiale destinata ai mercati internazionali, appesantita
con iniezioni di liquame prima del macello
Oltre tutto, soltanto adesso lOccidente si accorge che il
regime cinese è schiavista e sanguinario. Solo ora lHerald
Tribune edizione del week end del 16 e 17 giugno apre
la prima pagina con le storie atroci dei bambini schiavi nelle fabbriche
del merchandising per le Olimpiadi di Pechino 2008. Adesso i benpensanti
liberal dei governi progressisti dei Paesi ricchi si
ricordano che lattuale regime cinese è erede diretto
legittimo della sanguinaria repressione della rivolta di Tien An
Men. Adesso rammentano che ogni anno, censurate dai media locali,
avvengono da quelle parti almeno centomila sommosse; che per la
diga delle Tre Gole sono stati deportati 200 mila civili, senza
indennizzi per gli espropri; che la pena di morte cè,
e che secondo i dati di Amnesty International il 90 per cento (ben
3.400) delle esecuzioni eseguite nel mondo nel 2004 (ultimi dati
planetari completi disponibili) sono avvenute laggiù.
La Cina ricca ed emergente giova ai governi dei Paesi ricchi, perché
li finanzia con la forza del suo surplus commerciale. Poco importa
che poi inondi lOccidente con prodotti fabbricati sulla pelle
di bambini-schiavi, o con i suoi falsi. Poco importa che tragga
il grosso della sua competitività dal social-dumping. Ci
sarebbe da riflettere, soprattutto per una certa opinione pubblica
radical-chic occidentale. Anche se ormai è tardi: la Cina
non è vicina, è già qui. Era forse impensabile
fermarla, ma si poteva gestirne diversamente lavvicinamento.
Sennonché il renmimbi non olet. Serviva in fretta. E fa molto
comodo.
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