Settembre 2007

Made in China sotto accusa

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L’Europa arroccata
Fabio Dallamano - Alberto Fragalà
 
 

 

 

 

 

La Cina ricca
ed emergente
giova ai governi dei Paesi ricchi, perché li finanzia con la forza
del suo surplus commerciale:
poco importa
che tragga il
grosso della sua competitività dal social-dumping.

 

Il problema era stato posto appena un paio di mesi fa da Gerard Lyons sul Financial Times: «Presto le tre parole più comuni che leggeremo non saranno “Made in China”, ma “Owned by China”: il “Confezionato in Cina” prima o poi cederà il passo al “Controllato dalla Cina”». L’economista-capo della Standard Chartered vede nel capitalismo di Stato della Cina, della Russia e del Vicino Oriente una forza che può cambiare il mondo, se solo sposterà le sue riserve dall’investimento in titoli pubblici a quello in partecipazioni azionarie. Lyons stima in 2.000 miliardi di dollari le risorse dei fondi statali del Vicino Oriente, e in 3.300 quelle dei Paesi asiatici.
Morgan Stanley è più cauta e ritiene che i fondi gestiti da società statali vicino-e-mediorientali, cinesi e russe, arrivino a 2.500 miliardi. Comunque sia, su somme del genere si può costruire una leva finanziaria che ne moltiplica per cinque o sei volte l’impatto. La Cina ha già provato un primo assaggio investendo tre miliardi di dollari ai fondi di private equity del Blackstone Group, poche settimane prima che questo si quotasse a Wall Street. E da poche settimane a questa parte gioca in proprio, affidando 200 miliardi di dollari, (un sesto delle sue riserve), a un nuovo fondo statale di investimento in azioni e immobili sui mercati esteri.
Immaginare che i titoli del debito pubblico occidentale, a partire dai 4.600 miliardi di dollari di quello americano, perdano all’improvviso il loro maggior sottoscrittore perché questi, come un gigantesco private equity fund, si mette a dare l’assalto alle Borse, è un’esagerazione. E tuttavia comincia a serpeggiare un certo allarme. L’apertura dei mercati nazionali dei diritti di proprietà – vale a dire il frutto più maturo della globalizzazione – può consegnare parti rilevanti delle economie dei Paesi democratici più o meno liberalizzati a centri di potere finanziario controllati da governi che non danno le stesse garanzie di democrazia politica e di libertà economica, di rispetto dell’ambiente naturale e del lavoro e dei diritti umani. L’economia cinese, non dimentichiamolo, è tuttora controllata dal governo comunista tramite istituzioni analoghe all’Iri. Il Cremlino possiede le più grandi imprese russe e sceglie gli oligarchi privati. Le potenze dell’Islam aggiungono, agli altri, anche i rischi della commistione degli affari con la religione.

È forse giunto il momento, per la cultura liberale europea, di chiedersi se sia ancora attuale la teoria di Wimbledon, secondo la quale conta che al torneo di tennis partecipino i migliori del mondo e non che vi vinca un inglese. Ammesso e non concesso che questa teoria fosse utile anche a soggetti diversi della City di Londra, sta maturando l’ora delle contropartite, delle garanzie di reciprocità nelle regole. E anche l’ora delle difese.
La Germania ha varato un’agenzia che ha il compito di consigliare il governo quando sia il caso di porre il veto alle acquisizioni di aziende tedesche da parte di soggetti pubblici esteri. Il modello è l’US Committee on Foreign Investments, che suggerisce alla Casa Bianca quando si debbano bloccare gli investimenti esteri minacciosi per la sicurezza nazionale. Ma lo spirito è quello francese se Joseph Ackerman, leader della Deutsche Bank, chiede di definire quali siano i settori dove la Germania non vuole perdere il controllo. Sono i segni di un’Europa che rimane scissa tra chi, come il Regno Unito, vuole libertà finanziaria ma non integrazione politica, e chi, come la Germania, è stato il motore dell’integrazione politica ma non rinuncia ad aggiungere l’aggettivo sociale all’economia di mercato. Forse perché, per chi lucra commissioni miliardarie sul merger and acquisition (ovvero tutte quelle operazioni di finanza straordinaria che portano alla fusione di due o più società, N.d.R.), l’importante è che tutto si compri e si venda il più presto possibile, non importa ad opera di quali spinte e in funzione di quali obiettivi, mentre per tutti gli altri stakeholder la definizione degli interessi è più articolata.

In Italia, la riflessione empirica sugli effetti attuali e prospettici della finanziarizzazione dei grandi gruppi lascia troppo spesso il posto a polemiche di principio, strumentali agli interessi di breve periodo dei “poteri forti” e alla costruzione del consenso sul mercato politico, che ha portato a illudersi su conversioni anglicizzanti dei Sarkozy e delle Merkel. Da noi (casi Autostrade, Edison, Telecom, Alitalia…) è prevalsa la politique d’abord, che nega la teoria di Wimbledon nei fatti, ma non si assume la responsabilità di un’alternativa trasparente; che vorrebbe difendere una legge sull’Opa più liberista della direttiva comunitaria, ma poi lascia in piedi patti di sindacato e piramidi societarie, con un’industria dei fondi che non ha nemmeno il coraggio di intervenire nelle assemblee delle banche.
E ora scendiamo “per li rami”, trattando del made in Italy tra attacco e difesa. Premettendo con franchezza che la ripresa dell’industria italiana è stata robusta nel 2005-2006, al punto che persino alcuni tra i più convinti declinisti hanno cambiato parere, e sia pure con una buona dose di faccia tosta, ora tessono le lodi del made in Italy e dei Distretti. Eppure, per parecchio tempo si era mistificata la realtà dell’economia del nostro Paese, accusando le imprese di scarse capacità di crescita dimensionale, internazionalizzazione e innovazione.
Ci si accorge adesso che non è stato così, e appare evidente che mentre molti sui mass media e ai convegni predicavano male, le imprese facevano in silenzio il loro dovere e sul campo razzolavano bene: infatti Pmi e Distretti hanno puntato su prodotti a più alto valore aggiunto e le quote di mercato del made in Italy appaiono oggi più solide di quanto si pensasse; inoltre, per numero di brevetti di design comunitari depositati nel 2006 e per capacità di export nei mercati emergenti del mondo, l’Italia si colloca, tra i Paesi europei, seconda solo alla Germania. Infine, gli studi di Mediobanca-Unioncamere hanno messo in evidenza che non esiste un problema di “declino da nanismo”, e che anzi il cosiddetto “quarto capitalismo” manifatturiero italiano (fatto da 4.000 medie imprese e da poche centinaia di grandi imprese fino a 2 miliardi di euro di fatturato) ormai produce da solo un Pil superiore a quello dell’intera industria svedese.
I Distretti industriali, dal canto loro, appaiono globalmente in recupero e il loro export aggregato lo scorso anno è arrivato a toccare un nuovo massimo storico. In moltissimi casi, le vendite all’estero hanno fatto registrare tassi di crescita a due cifre. Infine, in una conferenza tenutasi ad Arezzo ad inizio anno, è stato sottolineato il contributo fondamentale allo sviluppo del territorio italiano offerto dalle Banche Popolari. Dopo tanto pessimismo, sarebbe dunque facile concludere che tutto è bene quel che finisce bene. Ma le cose non stanno così.
Nonostante i successi, occorre essere consapevoli che ci sarà ancora da soffrire non poco sui mercati internazionali, perché la competizione globale è durissima. Va bene giocare in attacco, ma non va trascurata la difesa. E soprattutto è vitale non abbassare la guardia in presenza di minacce molto gravi per l’industria manifatturiera italiana (e non per questa soltanto), quali la concorrenza sleale e la contraffazione.
Tre episodi, di varia natura ma dalle conseguenze ugualmente preoccupanti, sembrano emblematici. Il primo: forse pochi sanno che sul sito della Commissione europea da qualche tempo è comparso un Libro Verde intitolato “Gli strumenti europei di difesa commerciale in un’economia globale in mutamento”. Datato 6 dicembre 2006, il testo la dice lunga sulla grande forza hobbistica esercitata sugli ambienti della Commissione dagli importatori del Nord Europa e dalle grandi multinazionali che hanno pesantemente delocalizzato all’estero. Infatti nel Libro si pretende di dimostrare che il vero interesse del Vecchio Continente non è più quello dei produttori europei, ma di chi – appunto – ha delocalizzato, e che quindi non sarebbe più giusto applicare sanzioni e dazi antidumping contro Paesi che pure ci fanno concorrenza sleale, perché così si rischierebbe di danneggiare anche aziende europee.
Dal momento che il documento è articolato sotto forma di questionario, ci sembra importante che dal governo italiano e dalle imprese si reagisca con fermezza, presso le sedi comunitarie, contro questi approcci sfacciatamente “antimanufatturieri” che danneggerebbero fortemente il nostro Paese. Infatti, non dovrebbero esserci dubbi su quello che è il primario interesse dell’Europa e soprattutto dell’Italia, un Paese che nei settori tipici del made in Italy realizza ogni anno un surplus commerciale di 100 miliardi di dollari, evidentemente fatto da imprese che producono, che creano posti di lavoro e che pagano le tasse entro i confini nazionali, e non all’estero.
Secondo episodio. A metà gennaio, il blocco della vendita in Cina di parecchi prodotti griffati, tra cui quelli di grandi aziende italiane come Armani, Zegna, Max Mara…, perché ritenuti non conformi alle normative cinesi sulla salute, l’igiene e la sicurezza. Davvero incredibile, anche se si pensa con quanta leggerezza invece l’Europa tolleri l’ingresso nell’Ue di prodotti di origine cinese non solo in palese dumping, ma anche non del tutto, o in minima parte rispondenti agli standard europei, grazie all’influenza interessata, esercitata su Bruxelles dai soliti noti, vale a dire i Paesi del Nord Europa.
Terzo episodio. Una media impresa di Novara, una delle 4.000 censite da Mediobanca-Unioncamere, sta lottando da sola in Perù contro l’import selvaggio dalla Cina di valvole e rubinetti contraffatti. In quel Paese lo scorso anno sono arrivati circa un milione di pezzi. Pochi gli aiuti che questa azienda ha ottenuto dall’Italia, mentre una diplomazia cinese sempre più tracotante e minacciosa ha fatto sentire il suo peso. Ciò nonostante questa nostra impresa, che in Perù è da anni leader del mercato, non si è persa d’animo, e da anni spende risorse in processi: ha fatto bloccare merci e containers alle dogane, è riuscita a tutelare in varie occasioni il proprio marchio. Nulla però ha potuto contro la pretesa di aziende cinesi di registrare in Perù marchi contenenti la parola “Italia” o “Italy”, per esempio “Walitaly”. Col rischio che in futuro non solo questa azienda, ma anche altre imprese italiane si trovino paradossalmente a non poter più utilizzare il marchio “made in Italy” sui mercati sudamericani.
Made in China e contraffazioni a 360 gradi. Spaghetti rivestiti di batteri, (i “noodle”, in scatola, pronti per l’uso: un’icona nazionale). Pesce secco insaporito con lubrificanti. Insalate bagnate con coloranti. Pane ammorbidito con residui di plastica. Oltre ai giocattoli dipinti con vernici tossiche, il menu cinese a tavola offre un campionario di veleni abbastanza corposo. Negli Stati Uniti è stato ritirato dai negozi, perché tossico, non solo il cibo per animali; è stata bloccata anche l’importazione di anguille, gamberi, capesante e pesci-gatto perché presentavano consistenti tracce di medicinali e di varie altre sostanze chimiche. In Spagna, negli Stati Uniti, in Canada e in Nicaragua i ministeri della Salute hanno sequestrato le confezioni di un dentifricio-killer, il Dentamint, contenente una sostanza pesticida e il glicolo dietilenico, detto “glicerina della morte”, un solvente per macchinari di pulizia, ma anche un prodotto che i cinesi miscelano in diverse medicine, fra cui gli antipiretici per la febbre, che hanno causato una cinquantina di morti ufficiali.
Nella stessa Cina, e nei Paesi in cui si esportano, ci sono 26 categorie di prodotti ad alto rischio, dall’acqua imbottigliata alla frutta in scatola, dai tessuti trattati e “macchiati” con elementi chimici tossici ai medicinali grossolanamente riprodotti, senza alcuna concessione delle case-madri farmaceutiche, e alla carne di maiale destinata ai mercati internazionali, appesantita con iniezioni di liquame prima del macello…
Oltre tutto, soltanto adesso l’Occidente si accorge che il regime cinese è schiavista e sanguinario. Solo ora l’Herald Tribune – edizione del week end del 16 e 17 giugno – apre la prima pagina con le storie atroci dei bambini schiavi nelle fabbriche del merchandising per le Olimpiadi di Pechino 2008. Adesso i benpensanti “liberal” dei governi progressisti dei Paesi ricchi si ricordano che l’attuale regime cinese è erede diretto legittimo della sanguinaria repressione della rivolta di Tien An Men. Adesso rammentano che ogni anno, censurate dai media locali, avvengono da quelle parti almeno centomila sommosse; che per la diga delle Tre Gole sono stati deportati 200 mila civili, senza indennizzi per gli espropri; che la pena di morte c’è, e che secondo i dati di Amnesty International il 90 per cento (ben 3.400) delle esecuzioni eseguite nel mondo nel 2004 (ultimi dati planetari completi disponibili) sono avvenute laggiù.
La Cina ricca ed emergente giova ai governi dei Paesi ricchi, perché li finanzia con la forza del suo surplus commerciale. Poco importa che poi inondi l’Occidente con prodotti fabbricati sulla pelle di bambini-schiavi, o con i suoi falsi. Poco importa che tragga il grosso della sua competitività dal social-dumping. Ci sarebbe da riflettere, soprattutto per una certa opinione pubblica radical-chic occidentale. Anche se ormai è tardi: la Cina non è vicina, è già qui. Era forse impensabile fermarla, ma si poteva gestirne diversamente l’avvicinamento. Sennonché il renmimbi non olet. Serviva in fretta. E fa molto comodo.

 

   
   
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