Settembre 2007

Finanze internazionali

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Liberi capitali
in libero mercato
Kenneth Rogoff Docente Università di Harvard
 
 

 

 

 

Questi sistemi
finanziari obsoleti sono una delle principali ragioni del flusso
di denaro che
si riversa negli
Stati Uniti dai Paesi poveri.

 

ile deficit commerciale statunitense, o le disfunzioni finanziarie presenti in molti mercati emergenti.
È una paralisi a tre livelli. Innanzitutto, i Paesi ricchi sono profondamente riluttanti ad accettare un piano d’azione collettivo che rischi di interferire con le politiche portate avanti a livello nazionale. Il principale imputato, in questo caso, sono gli Stati Uniti. I segretari del Tesoro amano da sempre impartire lezioni ai colleghi stranieri sulla perfezione economica dell’America e sui motivi per i quali qualsiasi Paese dovrebbe sforzarsi di emularli.
E pazienza se i nodi stanno per tornare al pettine, insieme al mercato immobiliare americano: il segretario del Tesoro di Washington continuerà a professare questa logica. Tuttavia non si può certo sostenere che il fatto che in questo momento gli Stati Uniti sembrino avviati a prendere in prestito dal resto del mondo circa 900 miliardi di dollari costituisca un segnale di forza da parte degli americani e di debolezza da parte degli altri.
È difficile riassumere in modo altrettanto succinto la cacofonia di voci presenti in Europa. I francesi hanno un atteggiamento fortemente ambiguo nei confronti della globalizzazione, la vedono come se si trattasse di un esercito invasore. L’atteggiamento britannico è praticamente l’opposto. Sia come sia, in generale gli europei sono d’accordo sul fatto che il loro sistema sia quello che garantisce il migliore stile di vita, anche se le loro economie sono meno efficienti di quella americana, in senso darwiniano. Anche i ministri delle Finanze europei, dunque, non hanno tutta questa voglia di riconoscere che c’è la necessità, per poter gestire i rischi della globalizzazione finanziaria, di apportare importanti correzioni alle politiche adottate.

I giapponesi, al solito, cercano di tenere un profilo basso. Essendo tra quelli che maggiormente beneficiano della globalizzazione, cercano di evitare critiche alle loro politiche commerciali e finanziarie, che restano assai più protezionistiche di quelle degli altri Paesi ricchi. E sicuramente non vogliono doversi giustificare per gli oltre 800 miliardi di dollari accumulati per contrastare l’apprezzamento dello yen, che tengono in ostaggio nelle loro riserve.
Anche i Paesi in via di sviluppo hanno le loro colpe. Troppi politici sono ancora convinti che le aperture ai flussi di capitale internazionali, imposte dall’esterno, siano state le principali responsabili delle crisi finanziarie degli anni Novanta: un’idea che purtroppo ha ricevuto un certo credito intellettuale, grazie a qualche economista “progressista” che l’ha sottoscritta.
E poco importa se quasi tutte queste crisi avrebbero potuto essere evitate, o quantomeno fortemente attenuate, se i Governi avessero lasciato le loro valute libere di fluttuare rispetto al dollaro, invece di adottare cambi rigidi. Lo spauracchio della globalizzazione finanziaria è usato come scusa per continuare a tenersi stretti sistemi finanziari interni inefficienti e monopolistici. Questi sistemi finanziari obsoleti, incapaci di allocare gli investimenti in modo efficiente, sono una delle principali ragioni del flusso di denaro che si riversa negli Stati Uniti dai Paesi poveri.
Last but not least: il Fondo monetario internazionale, essendo l’organismo internazionale incaricato di mantenere la stabilità finanziaria globale, dovrebbe essere quello che assume il ruolo guida principale. Anzi, è probabilmente l’unico attore dotato di un’universale legittimità politico-intellettuale, sufficiente a indicare una via d’azione collettiva per affrontare la globalizzazione finanziaria.
Il Fondo monetario, purtroppo, è paralizzato dalla necessità di fare i conti con certi problemi di governance interna, il maggiore dei quali è la mancanza di un metodo sensato per ricalcolare il sistema di voti ponderati dei diversi Paesi, compatibilmente con il loro accresciuto o diminuito peso, relativo all’economia mondiale. È quanto mai urgente, in modo particolare, dare un maggior peso decisionale all’Asia.

Che cosa dovrebbero fare, allora, i ministri che si riuniscono periodicamente? La prima cosa è la litania consueta delle politiche necessarie per gestire gli squilibri commerciali mondiali. Tra queste politiche: maggiore disciplina di bilancio negli Stati Uniti; maggiore affidamento sulla domanda in Europa e nell’Asia; tassi di cambi più flessibili in Asia.
Ma è tempo di andare oltre e di cominciare ad esercitare pressioni decise per accelerare la liberalizzazione finanziaria nei Paesi in via di sviluppo. La maggior parte degli studi indica che questi Paesi dovrebbero far precedere qualsiasi apertura accentuata ai mercati finanziari internazionali dalla liberalizzazione degli scambi. È fondamentale anche la presenza di politiche macroeconomiche volte alla stabilità, mentre sono da evitare il più possibile i tassi di cambio fissi.
Numerosi Paesi in via di sviluppo, però, sono molto vicini a raggiungere queste precondizioni. Ironicamente, il ricordo negativo del primo, prematuro tentativo del Fondo monetario internazionale di promuovere una liberalizzazione dei mercati dei capitali a lungo termine rimane ancora oggi un ostacolo. Il tentativo del Fondo di inserire nel proprio statuto la liberalizzazione dei mercati dei capitali, avvenuto nel mezzo della crisi finanziaria asiatica degli anni Novanta, fu una mossa disastrosa, sotto il profilo delle pubbliche relazioni. Ora è arrivato il momento di riesaminare quell’idea, magari in una forma modificata, più sfumata. I sistemi finanziari deboli presenti nei mercati emergenti rappresentano un importante ostacolo a uno sviluppo equilibrato, e sono anche uno dei principali fattori alla base degli squilibri commerciali globali.
Premere per un’ulteriore liberalizzazione dei mercati di capitale dopo la débâcle degli anni Novanta sarebbe visto con diffidenza. Ma l’essenza di quell’idea era valida allora ed è valida adesso. In assenza di meccanismi più efficienti per allocare i capitali, la crescita globale in questo nuovo secolo rallenterà molto più in fretta del dovuto. I politici non potranno sfuggire in eterno a questa realtà.

 

   
   
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