Settembre 2007

Il cammino verso il libero mercato

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La forza della concorrenza
John Vickers Docente Università di Oxford
 
 

 

 

 

 

 

 

In Europa le
politiche antitrust sono già state
fortemente
influenzate
dalla moderna economia della concorrenza.

 

Quali sono le regole da applicare ai comportamenti delle aziende in posizione dominante? Questo interrogativo attualmente è al centro di un grande dibattito lanciato dalla Commissione europea, un dibattito che riveste una rilevante importanza per le imprese, per i consumatori e per l’andamento futuro dell’economia europea.
L’argomento in discussione è il ruolo della scienza economica nel diritto della concorrenza, che fornisce regole che sono tra i fondamenti dell’economia di mercato. Nel corso dell’ultimo decennio, specialmente quando Mario Monti ha ricoperto la carica di commissario alla Concorrenza nella Commissione europea, abbiamo assistito a importanti riforme su due dei tre principali elementi del diritto della concorrenza.
Innanzitutto, a partire dalla fine degli anni Novanta, è stata adottata una linea nei confronti degli accordi lesivi della concorrenza più attenta ai dettami della scienza economica, con azioni più incisive contro gli accordi di cartello e meccanismi di clemenza per incoraggiare le aziende a rivelare questi accordi alle autorità.
Queste politiche hanno registrato ottimi risultati contro il “male supremo” della collusione tra aziende a danno degli interessi dei consumatori. Contemporaneamente, i policymaker hanno riconosciuto che molti accordi stipulati in precedenza per fronteggiare il problema dell’incertezza giuridica in materia di concorrenza erano innocui: ad esempio, tranne qualche eccezione, gli accordi tra produttori e commercianti al dettaglio in settori con un buon livello di concorrenza.

Il passo successivo è stata la riforma, spronata anche dalle sentenze del Tribunale del Lussemburgo nel 2002, della normativa sulle fusioni nell’Unione europea. Anche in questo caso, nel 2004, è stata adottata una linea più attenta ai dettami della scienza economica. Adesso l’approccio alle fusioni, in termini di politica della concorrenza, è in gran parte omogeneo sulle due rive dell’Atlantico e nel resto del mondo.
La Commissione europea ha successivamente lanciato un dibattito di ampio respiro sul terzo elemento principale del diritto e della politica della concorrenza, la normativa contro l’abuso di posizione dominante (di recente, il caso più importante in questo ambito è stato quello di Microsoft).
Questo dibattito ruota attorno a un interrogativo di fondo: qual è il punto oltre il quale il comportamento commerciale di una società che gode di potere di mercato cessa di essere concorrenza aggressiva e diviene lesivo della concorrenza? Ad esempio, qual è il punto oltre il quale occorre intervenire, fermando e sanzionando l’azienda dominante che vende i suoi prodotti a prezzi bassi o che offre sconti a quei clienti che comprano grandi quantità di prodotto? Altri importanti interrogativi al riguardo sono quelli relativi ai criteri per definire “dominante” un’azienda. Ad esempio, una quota di mercato del 40 per cento rappresenta una posizione dominante, e, ancora più a monte, in che modo dev’essere definito un “mercato”?
A uno degli estremi della gamma di possibili approcci all’interrogativo su quali siano le condizioni che permettono di parlare di abuso di posizione dominante c’è la visione formale, secondo la quale un determinato tipo di comportamento, se praticato da una società che dispone di una sostanziosa quota di mercato, (per esempio, dal 40 per cento in su), è da giudicarsi illecito. Può rientrare in questo tipo di comportamenti l’offerta di sconti ai clienti che acquistano quantità di prodotti superiori a una determinata soglia, in base al principio che si tratta di strategie “fidelizzanti”, e pertanto intrinsecamente lesive della concorrenza.
I sostenitori della visione economica affermano che è un errore affidarsi alla forma del comportamento come criterio dirimente per stabilire se si tratti di comportamento lecito o meno. Osserviamo che una determinata forma o tipologia di comportamento può favorire o danneggiare la concorrenza a seconda delle circostanze di mercato, e quelle circostanze devono essere adeguatamente valutate dal punto di vista economico, (sottolineiamo anche i rischi di trarre conclusioni troppo affrettate sull’effettivo potere di mercato di un’azienda, basandosi sulle cifre delle “quote di mercato”).
Ma quali dovrebbero essere i princìpi di base per questa valutazione economica? Sarebbe assurdo adottare una politica che, deliberatamente o accidentalmente, prendesse come parametro per individuare un comportamento lesivo della concorrenza il danno arrecato ai concorrenti, perché una concorrenza sana, auspicabile, a vantaggio dei consumatori spesso va contro gli interessi delle aziende rivali, e può determinare l’esclusione di alcune di queste aziende dal mercato. Dobbiamo tracciare il confine tra “concorrenza nel merito” e comportamento lesivo della concorrenza, in modo da non compromettere l’incentivo per le aziende a competere in modo aggressivo per offrire ai consumatori condizioni più vantaggiose.

Ciò suggerisce che l’elemento-chiave per definire un reale comportamento lesivo della concorrenza dovrebbe essere il danno arrecato al consumatore. Alcuni sostengono che non si può parlare di abuso se non viene dimostrata la plausibilità di un danno di questo tipo. Un’opinione strettamente collegata a queste è che ci si dovrebbe preoccupare dell’“esclusione” di rivali dal mercato solo quando ad essere escluse sono aziende altrettanto efficienti, o più efficienti, in termini di servizi offerti ai clienti, dell’azienda dominante. Parte della giurisprudenza esistente concorda con questo concetto. Ad esempio, il test-chiave per determinare se si è in presenza di pratiche di predatory pricing consiste nello stabilire se il prezzo praticato è inferiore al costo variabile dell’azienda dominante, e il principale test per individuare pratiche di “compressione dei margini” da parte di aziende dominanti con integrazione verticale consiste nell’appurare se aziende rivali con lo stesso grado di efficienza rischiano di essere estromesse dal mercato.
Come fare per mettere in pratica questi princìpi? Negli anni Settanta, gli approcci tradizionali in materia di diritto della concorrenza negli Stati Uniti furono oggetto di violente critiche da parte di esponenti della “Scuola di Chicago”, come Bork e Posner. Da allora, l’economia della concorrenza, partendo dagli sviluppi della teoria dei giochi e della teoria dei contratti, ha fatto grandi passi in avanti. Alcuni elementi delle critiche avanzate dalla Scuola di Chicago sono stati accettati, e nello stesso tempo ne sono stati messi in luce i limiti. Ora siamo arrivati, nell’analisi economica, a quella che è stata definita una “sintesi post-Chicago”: in parole povere, una nuova “economia dell’anticoncorrenza”.
Di per sé, questa teoria economica non è in grado di dirimere i singoli casi, perché le decisioni vanno prese basandosi sui fatti. Ma può servire a mettere in luce le problematiche più rilevanti. Ad esempio, se il presupposto è che gli sconti su acquisti di elevati volumi di prodotto influenzano il mercato in senso contrario alla concorrenza, l’analisi economica può contribuire a individuare in quali condizioni di mercato sconti del genere sono effettivamente suscettibili di estromettere rivali più efficienti, e in quali condizioni invece questi sconti sono efficienti e favoriscono i consumatori.
In Europa le politiche antitrust su accordi e fusioni lesivi della concorrenza sono già state fortemente influenzate – in bene – dalla moderna economia della concorrenza. Se lo stesso succederà nel caso delle leggi e delle politiche nei confronti dell’abuso di posizione dominante è cosa che ancora resta da vedere, (su questa stessa materia è in corso un acceso dibattito politico negli Usa, con una controversia legale arrivata fino alla Corte Suprema). A Bruxelles, la Commissione europea, fortemente incoraggiata da una serie di Autorità antitrust nazionali per la concorrenza, sta rivedendo la sua politica in quest’area, e le decisioni che prenderà sui casi in esame negli anni a venire la metteranno nelle migliori condizioni per fare da leader. Queste decisioni saranno naturalmente soggette a revisione da parte delle Corti di Giustizia europee, di cui si attende ansiosamente la sentenza su diverse decisioni importanti prese in passato.
Per concludere, non è sufficiente usare il pugno di ferro contro gli abusi (correttamente individuati) di posizione dominante. I Governi devono saper usare il pugno di ferro anche nei confronti di quelle condizioni non necessarie che determinano situazioni di potere di mercato, come il protezionismo e i sussidi in favore di operatori esistenti. L’apertura dei mercati europei alla concorrenza e alla libertà di scelta dei consumatori è stata realizzata pienamente in alcuni settori e in alcuni Stati membri, ma certamente non in tutti. E i Governi, perciò, oltre ad applicare un’efficace politica della concorrenza contro gli abusi di posizione dominante, non dovranno mancare di eliminare i vincoli alla concorrenza, permettendo alla libertà di scelta del consumatore di dispiegare tutta la sua forza.

 

   
   
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