Settembre 2007

La borsa che parlò francese e ora si allea con la city

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Vecchie e nuove grida
Alain Mansfield  
 
 

 

 

 

 

 

 

La nuova holding
che controlla
la City e Piazza
Affari rappresenta
il primo mercato borsistico in
Europa per il
comparto azionario.

 

Il mercato globale sembra quasi divertito: Piazza Affari in riva al Tamigi, con la City londinese? Niente male, per una Borsa nata “francese”, due secoli fa, con decreto napoleonico del Viceré d’Italia Eugenio di Beauharnais, e che per tutti e duecento gli anni ha parlato come in riva alla Senna, a Parigi: corbeilles, parterre... Niente male anche perché a un veterano frequentatore di Palazzo Mezzanotte è subito venuto in mente di chiedersi: – Ma i titoli saranno quotati in euro, oppure in sterline? –.
Grande è stata la parabola, nel corso della quale è cambiato il mondo, e le corbeilles, i recinti degli affari, sono state sostituite ovunque (tranne che a Wall Street) dal network dei computer, le grida si sono affievolite e poi spente, e fisicità, personaggi, storie e suggestioni sono scomparsi con il big bang della telematica.
Certo che quel mondo ha resistito molto a lungo, Milano ci ha girato intorno (anche con ristoranti come il “Savini” o il “Furio”, oppure con il “Bar della Borsa”, noto come l’ “Insider”), fino a quando tutto si è dissolto nella finanza pervasiva delle investment bank, dell’asset management e degli hedge fund.
I luoghi, per la città, sono importanti. Piazza Affari non nasce in Piazza Affari. Il primo ospite nel 1808 è il Monte di Pietà. Poi trasloca nel Fabbricato della piazza dei Tribunali, quindi nel Palazzo dei Giureconsulti, e perfino, fra il 1887 e il 1890, nel Ridotto della Scala. Con il nuovo secolo, il Re inaugura la sede in Piazza Cordusio. Finché il passaggio definitivo avviene nel 1928, quando Paolo Mezzanotte imbrocca il disegno giusto e nasce la Borsa che comprende il suo nome. Sostiene Urbano Aletti, agente di cambio “storico”, attivo dal 1946 al 1982: «Un monumento, niente praticità. Che cosa si poteva chiedere a un architetto che costruiva chiese?». Di fronte all’edificio c’erano vecchie case. Ma ci pensò Mussolini a fare spazio: nel 1932 entrò nel palazzo da via Meravigli e uscì in Piazza Affari. Disse al prefetto di buttar giù tutto quel che c’era davanti. E così fu.

Nel gran salone delle corbeilles, dove gli affari non li aveva fermati la guerra ma qualche finta bomba negli anni del terrorismo e un paio di scioperi, ogni giorno – per decenni – si è ripetuto il rito degli ordini gridati e dei gesti bizzarri: vuoi le Toro? Fai le corna. Generali? Saluto militare. Per le Pirelli, una mano al petto. Per le Fiat si simulava il volante o un clacson. Le Italgas si chiamavano turandosi il naso. Un mondo che lavorava “sulla parola”, che non ammetteva fraintendimenti. Lo spiega un agente che racconta il suo “primo giorno”: «Non riuscivo a capire la differenza fra denaro e lettera. Prima mi dicono: – Vendi? –, e poi: – Paghi? –. Alla fine mi son trovato in mano i titoli che dovevo vendere, più quelli che non volevo acquistare». Un mondo dove gli affari si concludevano con una “firma” particolare: «Quando si dava lo “stabene”, era fatta. E chi mancava alla parola solo una volta era messo per sempre al bando».
Detto tutto questo, fissato un bon ton condiviso anche con il mercato dei bovini della Piazza di Lodi, la vita alle grida restava per tanti anni quasi del tutto simile al Far West. Praticamente senza controlli. E in questo territorio spadroneggiavano personaggi come Michelangelo Virgillito, con gli assalti alla Liquigas e Lanerossi, ma anche con la sua devozione per la Madonna e con il rito della beneficenza. Oppure Giulio Brusadelli, che si scontrava con Giulio Riva. E soprattutto il “mitico” Aldo Ravelli. Raccontano ancora oggi che «lui era il “capo” dei ribassisti. E ogni giorno chiedeva: che cosa fa il “pericolo giallo”?, vale a dire Luigi Palermo, capo dell’Ufficio Borsa del Credit, l’operatore di Enrico Cuccia, detto il “fuochista” perché rialzista forsennato e chiamato con quel soprannome perché di colore giallo era il distintivo all’occhiello dei signori di banca».
Erano anche gli anni delle scorribande della “Signora della Finanza”, Anna Bonomi Bolchini; di Michele Sindona, che lanciò anche la prima Opa, sulla Bastogi; e di Roberto Calvi. Anni che vedevano la stampa anglosassone accorgersi di Piazza Affari soltanto per chiamare “Lady Speculation” una signora che dal “parco buoi”, (la balaustra al primo piano che accoglieva un pubblico da sala corse), si esibiva nel lancio di guide telefoniche, arrabbiatissima.

Le cose cambiarono negli anni Ottanta. Nacque la Consob, nacquero e fecero immediatamente boom i fondi comuni, che portarono in Borsa un cast diversificato. Le star, guru per tutti, trascolorarono. Il mercato-pozzanghera si allargò a dismisura e nessuno, o quasi, si accorse di chi scalava, ad esempio, la Bi-Invest e vendeva a Mario Schimberni, che subito dopo conquistava anche Fondiaria. Poi, il trasloco nel gabbiotto, perché Palazzo Mezzanotte andava restaurato. Ma chi brindava, sapeva che in quell’edificio non si sarebbe tornati più. E in effetti, così è stato. Nel ‘94 si chiusero le ultime grida e si passò al telematico. Era la fine di un mondo, del resto ampiamente annunciata. Esattamente in una cena a Parigi, nell’ottobre 1987. Al ristorante Grand Defour. Gli agenti di cambio dei mercati latini sedevano agli stessi tavoli che avevano ospitato anche Robespierre. Il presidente del listino di Parigi, Xavier Dupont, disse: – Il club è finito –. Probabilmente, molto probabilmente cominciò proprio lì il tempo delle super-Borse.
È una corazzata, la “santa alleanza” fra Londra e Milano. Almeno a giudicare dai numeri: la nuova holding che controlla la City e Piazza Affari ed è quotata anche a Milano rappresenta il primo mercato borsistico in Europa per il comparto azionario, con il 48 per cento della capitalizzazione dei titoli presenti nell’indice FtsEurofirst 100. Ha la supremazia negli scambi sugli Etf, i derivati e, tramite Mts, il Mercato dei titoli di Stato, nel reddito fisso. Inoltre, è il mercato più liquido d’Europa, con evidenti vantaggi per i titoli quotati anche a Milano, nonostante l’autonomia gestionale.
Il valore del nuovo gruppo, ai prezzi dell’operazione, è di 5,777 miliardi di euro. L’offerta pubblica di acquisto e scambio lanciata dalla Lse londinese prevede un pagamento cash per un massimo di 519 milioni di euro. In sostanza, l’opzione consentirà ai soci minoritari, se lo riterranno opportuno, di uscire dal nuovo gruppo che a cose fatte sarà controllato per il 28 per cento dalle banche italiane, e per il restante 72 per cento dagli azionisti della City. Tra questi c’è anche il Nasdaq, il listino tecnologico americano, che aveva già tentato un fallito attacco alla City e che potrebbe ritentare dopo i dodici mesi di congelamento previsti dalle regole difensive londinesi.
Le nozze Borsa Italiana-Lse (London Stock Exchange) offrono un buon esempio di come attualmente si gioca nell’industria finanziaria globale dove non ci sono alleanze o egemonie precostituite. Basti pensare che le quattro Borse principali di Eurolandia hanno quattro diverse collocazioni: Francoforte e Madrid da sole, Milano con Londra, Parigi e le altre di Euronext integrate con il New York Stock Exchange.
Lse valuta Borsa Italiana 1,63 miliardi, ventisette volte l’utile e 5,7 volte il patrimonio netto. Nel 1997 il Tesoro la privatizzò, a fatica, per 25 milioni di euro. Da allora, tenuto conto dei dividendi e dell’aumento di capitale del 2002, l’investimento degli acquirenti si è rivalutato 62 volte, in linea con l’esplosione dell’industria finanziaria. Partita quasi da zero, Borsa Italiana ora vanta ricavi per 274 milioni, un risultato operativo di 106 milioni e un utile netto di 59 milioni.
Dal punto di vista societario, è Lse che acquisisce Borsa Italiana, tanto è vero che dei dodici membri del board sette sono inglesi. Dal punto di vista azionario, invece, l’equilibrio è più complesso. Lse emette nuovi titoli che danno alla compagine di Borsa Italiana il 29 per cento del capitale. Il resto rimane frazionato tra i piccoli soci e il Nasdaq, diluito dal 30 al 22 per cento. Le banche italiane, dunque, rappresentano il baluardo contro un’eventuale seconda aggressione di Nasdaq. Baluardo, in riva al Tamigi, non vuol dire blocco formalizzato in un patto di sindacato: un simile assetto farebbe venir meno la public company e il conseguente potere del management. Qui è gradito un azionariato stabile.
Il forte interesse degli americani per le Borse europee è spiegato dalla maggior generazione di affari che si registra nel Vecchio Continente e nel Vicino Oriente. L’accordo anglo-italiano conserva al di qua dell’Atlantico il controllo su una piattaforma che, al tempo stesso, costituisce un ponte verso l’Estremo Oriente, dove Londra vanta legami storici. L’autonomia delle due Borse prima o poi dovrà cedere il passo all’integrazione, che senza dubbio esalterà l’efficienza meneghina, ma farà emergere anche le contraddizioni del suo azionariato e della politica italiana. I bassi prezzi dei servizi di Piazza Affari, logici per una proprietà consortile come l’attuale, lo saranno meno in una public company votata al profitto. Continueranno ad aver senso per le specialità che attirano i nuovi clienti (le Ipo, per esempio), non per quelle (pagamenti, compensazioni, custodia) dove il margine ricavato dalla clientela finale, concorrenza tra le piazze finanziarie permettendo, potrebbe essere ripartito tra la società di Borsa e le banche azioniste in modo meno sbilanciato verso le seconde.
Più in generale, l’integrazione Londra-Milano offrirà una nuova opportunità di sviluppo all’industria italiana della gestione del risparmio, che può contare su un giacimento domestico tra i maggiori del mondo. Ma per coglierla, il governo dovrà armonizzare il trattamento fiscale dei fondi a quello dei Paesi concorrenti e le banche dovranno decidersi a rendere autonomo l’asset management, come richiede la Banca d’Italia per consentirgli lo sviluppo che non ha avuto finora.

 

   
   
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