Settembre 2007

I forzieri di Bankitalia

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Storie d’oro
Romano De Mitri  
 
 

 

 

 

 

 

Il nostro Paese
è il più grande
trasformatore
di oro al mondo: 450-500 tonnellate lavorate ogni
anno dagli orafi più raffinati del pianeta.

 

Una volta era il Gold Standard: il regime che fino al 1914 imponeva agli Stati di garantire la convertibilità in oro delle banconote emesse. Sospeso in via provvisoria in seguito al primo conflitto mondiale, il regime venne poi abbandonato definitivamente dopo la grande crisi del ‘29. E gli accordi di Bretton Woods del 1944, secondo i quali doveva essere convertibile in oro almeno il dollaro, saltarono a loro volta nel 1971.
Da allora, l’oro ha perduto per strada importanza, tant’è che tra il 1999 e il 2004 ben 2.000 tonnellate sono state immesse sul mercato dalle Banche centrali della Gran Bretagna, dell’Olanda, dell’Austria, della Germania, del Portogallo, della Svizzera (soprattutto per finanziare i rimborsi per i beni ebraici incamerati durante il nazismo). Poi, soprattutto dopo i recenti rincari delle materie prime, il trend è nuovamente cambiato.
Come percentuale sulle riserve complessive, noi siamo quarti al mondo (col 66 per cento), dopo l’80,5 per cento della Grecia (che però corrispondono a sole 112 tonnellate, trentesimo posto in assoluto), il 77,4 per cento del Portogallo (382,6 tonnellate, tredicesimo posto), e il 76,1 per cento degli Stati Uniti. A loro volta, però, le 30.374 tonnellate d’oro di tutte le riserve auree sono poco più di un terzo di tutto lo stock di oro del mondo, arricchito ogni anno da una produzione di 2.200 tonnellate. Gli altri due terzi sono infatti trasformati in gioielli, oppure vengono utilizzati nell’industria elettronica, spaziale e medica. In particolare, l’8 per cento dell’oro mondiale finisce in protesi dentarie. La nazione più ricca di oro al mondo è l’India: appena 357,7 tonnellate di riserva aurea ufficiale, ma 13.000 tonnellate possedute dai privati, visto che il metallo pregiato in questo Paese è un tradizionale strumento di accantonamento dei risparmi.
L’alta posizione in classifica delle nostre riserve auree può apparire tanto più sorprendente se si pensa che nel passaggio dal Regno alla Repubblica erano state drasticamente decurtate. Nel ‘44 le SS di Kappler misero infatti le mani sulle riserve di Bankitalia, e anche su quelle di Belgrado, trasferite anch’esse in un sotterraneo di Via Nazionale, dopo che il regio esercito era riuscito a impadronirsene nel 1941, al momento del crollo jugoslavo. E di almeno una quarantina di tonnellate non si conosce la fine, così come sono pure scomparse le altre riserve che i tedeschi avevano già trafugato in Polonia, in Danimarca, in Norvegia, in Belgio, in Olanda, in Lussemburgo, in Grecia: si favoleggia che siano state occultate in depositi segreti sparsi tra la Corsica, i laghi austriaci e il Monte Soratte.


L’avidità di oro non è stata comunque soltanto una caratteristica dei nazisti. Già prima della guerra l’Unione Sovietica si era fatta dare il tesoro della Repubblica Spagnola, per sottrarlo a Franco: mai più restituito. Dopo il 1945 il governo inglese avrebbe incamerato l’oro delle annesse all’Urss Estonia, Lettonia e Lituania custodito a Londra, per indennizzare i propri cittadini vittime degli espropri subiti ad opera del regime comunista.
L’Italia non ha quasi produzione di oro: non più di cinque chili all’anno, provenienti in genere da miniere prima sfruttate e poi abbandonate dai Romani in territorio alpino, particolarmente nell’area della Valsesia. I primi produttori sono invece il Sudafrica (oltre 700 tonnellate), gli Stati Uniti (circa 300 tonnellate), l’Australia (248 tonnellate), la Russia (230 tonnellate). Le riserve auree russe sono però appena dodicesime, con 401,7 tonnellate (due anni di produzione nazionale), anche perché nel 1992 Mosca fu costretta a svendere a man bassa per far fronte a una crisi di liquidità; e l’Australia è trentaquattresima, con 79,8 tonnellate.
Il nostro Paese, tuttavia, è il più grande trasformatore di oro al mondo: 450-500 tonnellate lavorate ogni anno, metà ad Arezzo, e il resto per lo più tra Valenza Po e Vicenza, dagli orafi più raffinati del pianeta. E ciò spiega l’arcano.

Le riserve di Bankitalia

Le riserve auree della Banca d’Italia ammontano a 2.452 tonnellate (38 miliardi di euro), pari al 66 per cento del totale delle riserve ufficiali, che tra oro e valute raggiungono un valore di mercato attorno ai 60 miliardi di euro. Nel caveau al numero 91 di Via Nazionale a Roma, in due grandi stanze, (ipotizzando un peso tra i 13 e i 14 chili), ci sarebbero circa 182 mila lingotti di forme diverse. Si tratta della maggior parte dei lingotti posseduti dall’Italia; altri, infatti, si trovano nelle cantine blindate della Federal Reserve di New York; altri ancora sono a Basilea, nelle casseforti della Banca dei Regolamenti Internazionali. Nello storico Palazzo Koch della capitale, oltre all’oro, si trovano anche i gioielli della Corona, congelati nel passaggio del 1946 dalla Monarchia alla Repubblica, insieme con 800 mila monete d’oro, per la maggior parte molto antiche.
Ma quante volte il tesoro di Via Nazionale è uscito dai forzieri della Banca centrale? Uno dei viaggi più recenti dell’oro italiano è stato quello della primavera del 1976, quando 54 tonnellate di metallo prezioso traslocarono sui libri contabili di Via Quattro Fontane, dalle parti della Fontana di Trevi, entrando nella sede dell’Ufficio italiano cambi. L’Italia era in grave crisi valutaria e il suo creditore, la Germania, chiedeva garanzie: l’oro, appunto. Il metallo non fu spostato, ma la distanza, percorsa contabilmente verso la Bundesbank, rimase ampia fino al 1997, quando finalmente l’oro tornò a casa e venne trasferito dal bilancio dell’Uic a Bankitalia. Governatore era Guido Carli. Il prestito ottenuto da Bonn (allora capitale della Repubblica federale tedesca) era stato pari a due miliardi di dollari. E lo stesso Carli ha poi ricordato quanto fosse nella «memoria di tutti l’emozione dell’opinione pubblica, l’umiliazione che essa fu convinta di subire» con questa operazione, di cui peraltro il banchiere fu «strenuo sostenitore» perché convinto che consentisse «di mobilizzare una risorsa altrimenti inutilizzabile».
Molti più chilometri avevano percorso i lingotti (questa volta fisicamente) durante il periodo dell’occupazione nazista, quando la Repubblica di Salò pose le nostre riserve alla mercé dei tedeschi. Nel 1943 fu il maresciallo Badoglio a consigliare al governatore Vincenzo Azzolini di trasferire le riserve auree in Piemonte, oppure in Sardegna. Azzolini non seguì il suggerimento, e dopo aver costruito un muro per nascondere il tesoro, ne ordinò l’abbattimento dopo che un informatore aveva avvertito il comando tedesco. Le circa 117 tonnellate d’oro vennero prelevate dai tedeschi e trasferite dapprima a Milano, su treni scortati da truppe del Terzo Reich, e in seguito a Fortezza (Bolzano) su dodici vagoni, a due passi dal valico del Brennero. Da qui, un altro viaggio verso la Svizzera, quando una quota delle risorse venne usata per saldare alcuni debiti dell’Italia con la Banca dei regolamenti internazionali (Bri) e con un consorzio di banche elvetiche. Un’altra quota del metallo prezioso si spostò anche verso Berlino, nella sede della Reichsbank, per tornare, dopo molte peripezie, nei forzieri di Via Nazionale. Non tutto, però.
Dopo l’8 settembre ‘43, Azzolini, accusato di aver ceduto le riserve al nemico, sfuggì per un soffio al plotone d’esecuzione, venne condannato, assolto e poi riabilitato.
Negli anni repubblicani, a più riprese qualche governante ha cercato di puntare l’attenzione sui lingotti. Lo stesso Prodi, nel suo precedente governo, aveva accennato all’ipotesi, bollata dal governatore Antonio Fazio come «un’idea balzana». Si capisce come i banchieri centrali siano gelosi dei loro lingotti e restii ad assecondare le mire dei politici: «C’è del metodo in questa follia», così sempre Fazio liquidò con Shakespeare le tentazioni del premier.
Del resto, nella scorsa legislatura a quel tesoro aveva pensato anche l’allora ministro dell’economia Tremonti, e ancora una volta Fazio spiegò che le riserve non si potevano toccare perché «a presidio della stabilità dell’euro».
Nella storia ormai centenaria della Banca d’Italia, le riserve (nell’accezione più ampia: di valuta e/o di metallo pregiato) sono anche un’arma potente, o una corazza non facilmente perforabile. Si trovò a intaccarle l’allora governatore Carlo Azeglio Ciampi, per difendere la lira dai terribili attacchi speculativi del 1992. «Munizioni», le definì non a caso il futuro capo dello Stato per spiegare certe sue scelte.
Ma è anche capitato che Bankitalia abbia rivalutato il suo tesoro, e che lo abbia persino incrementato, come quando comprò oro dall’Ufficio italiano cambi, dieci anni fa: su questa vendita, peraltro, l’Uic ottenne una plusvalenza sulla quale pagò tasse pari allo 0,15 per cento.

 

   
   
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