Settembre 2007

Grandangolo

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Navigando a vista
Mario Deaglio Docente Politecnico di Torino
 
 

 

 

 

 

Troppo spesso
si scommette su una ripresa che non si realizza. Nell’ultimo
decennio, quasi tutti i Dpef sono stati costruiti
su previsioni
rivelatesi errate.

 

Alla base dei confronti politico-sociali che hanno condotto alla messa a punto di un sofferto Dpef (Documento di programmazione economica e finanziaria) c’è una crescente e generalizzata mancanza di conoscenza della realtà economico-sociale del Paese. Lo dimostra chiaramente il dibattito recente: il sindacato è in allarme per la caduta del reddito di fasce consistenti di lavoratori dipendenti che non ce la fanno ad arrivare alla fine del mese, e le organizzazioni dei lavoratori autonomi denunciano lo scivolamento verso il basso del potere d’acquisto di un numero rilevante dei loro aderenti e l’iniquità degli studi di settore, alla base della tassazione del loro reddito.
Si tratta di situazioni gravi che richiederebbero azioni incisive e mirate sul piano della tassazione, ma è molto difficile, quasi impossibile, passare dal racconto di casi singoli alla stima complessiva dei fenomeni.
E non si può non rimanere perplessi quando si confrontano questi segnali di impoverimento con le notizie di milioni di automobilisti in marcia, in andata e in ritorno dalle vacanze, o con le centinaia di migliaia di imbarcazioni da diporto ormeggiate nei porticcioli turistici italiani. Una mancanza di conoscenza ancora maggiore riguarda la situazione effettiva dell’economia sommersa e dell’evasione fiscale.

In altre parole, il quadro economico-sociale sul quale si dovrebbe basare il Dpef è così pieno di incoerenze e di zone d’ombra, che i suoi estensori sono costretti a lavorare quasi al buio. Le forze politiche non conoscono più il Paese, e il Paese non conosce più se stesso. Non si ha alcuna chiara nozione di quanti e quali italiani abbiano sensibilmente migliorato o peggiorato il proprio reddito negli ultimi anni, e questa ignoranza è alla base delle sorprese elettorali. In queste condizioni, risulta difficile mettere a punto programmi politici che non siano semplici collezioni di buone intenzioni, e ancor più difficile redigere un Dpef, documento che si vorrebbe pensato e meditato per mesi e che assomiglia invece sempre più a una lavagna sulla quale si scrive e si cancella affannosamente fino all’ultimo minuto.
Il buio del Documento non riguarda soltanto l’ambiente economico interno, ma anche quello esterno: troppo spesso si scommette su una ripresa internazionale che non si realizza, oppure svanisce. Nell’ultimo decennio, quasi tutti i Dpef (come i corrispondenti documenti di previsione e di programmazione degli altri Paesi) sono stati costruiti su previsioni rivelatesi errate, a cominciare da quando, nel giugno 2001, si puntò su una forte ripresa nel 2002, poi travolta dagli attentati dell’11 settembre alle Torri Gemelle, fino al Dpef del 2006, che ha significativamente sottostimato la ripresa in corso.
Il quadro laboriosamente tracciato per arrivare puntualmente alla scadenza di fine giugno viene quindi spesso sconvolto e reso inutile dal carattere non assestato della congiuntura internazionale. Precisamente l’instabilità internazionale rende vano il carattere programmatorio del Documento, che forse andrebbe sostituito con una sorta di “dichiarazione di intenzioni” o di “linee guida”, e con l’indicazione, più realistica, di priorità e di alternative da seguire alla mutevolezza della situazione corrente.
A queste difficoltà strutturali, il 2007 ha aggiunto l’insolita presenza del cosiddetto “tesoretto”, derivante dalla sottostima della crescita e del gettito fiscale nel Dpef precedente. L’imprevista intensità della crescita europea e mondiale ha spinto all’insù, ben oltre le previsioni, anche la crescita italiana e quest’effetto internazionale, combinato con una politica fiscale più severa di quella del governo precedente, ha dato vita non già ad un avanzo – come si sarebbe portati a credere – bensì a un minor disavanzo. Il dibattito su come spendere il “tesoretto”, che ha assorbito quasi tutte le energie che i partiti e le parti sociali avevano dedicato alla politica economica, è stato in realtà un dibattito su come riportare il disavanzo alla quota prevista e concordata a livello europeo; si è trattato sempre di spendere qualcosa che non si ha.
In questo dibattito si è tranquillamente ipotizzato che le tendenze che hanno dato origine al “tesoretto” continuino nei prossimi anni, e che quindi se ne possa disporre a piacimento con riduzioni fiscali e/o con aumenti di spesa destinati a permanere nel tempo.
Questa tranquillità è fuori posto: il “tesoretto” potrebbe essere stato una specie di “una tantum”, ossia un bonus irripetibile che una congiuntura mondiale capricciosa ha regalato a un’Italia di recente tartassata dalla malasorte. Non vi è alcuna garanzia che si ripresenti puntualmente nel 2008 o nel 2009. Alcuni, sia pur piccoli segnali di stanchezza della congiuntura europea e americana, comparsi negli ultimi tempi, dovrebbero indurre a una certa prudenza. Vi è invece il pericolo che a fronte di vantaggi temporanei si siano stabiliti oneri permanenti, che il bilancio pubblico faticherà poi a sopportare; questo pericolo è stato colto anche da varie organizzazioni internazionali, a cominciare dall’Unione europea.
Nella migliore delle ipotesi, questo Documento di programmazione economica e finanziaria lascia invariato il quadro globale della finanza pubblica e dell’economia italiana. Non è stato affrontato il problema principale della finanza pubblica italiana, che è quello di ridurre la spesa, a cominciare dalle pensioni, e questo perché la spesa pubblica non può essere ridotta senza una riorganizzazione dell’amministrazione pubblica, che è politicamente molto scomoda. Non si avverte, alle sue spalle, alcun grande disegno di cambiamento, alcuna vera progettualità; potrà rivelarsi, al massimo, l’opera di un diligente timoniere, costretto a navigare a vista, alla guida di un’imbarcazione vecchiotta, attempata, nella speranza che non arrivi nessuna tempesta.

 

   
   
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