Il pericolo che la società italiana
finisca per
afflosciarsi
stanca, rassegnata o scettica è
uninsidia che
oggi sovrasta
il nostro Paese.
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Un ministro delle Finanze che, presentando il Documento di programmazione
economica e finanziaria, afferma esplicitamente che «se il
nostro Paese attuasse pienamente il piano di Lisbona (la strategia
di rilancio economico decisa nel 2000 dal Consiglio europeo), lItalia
potrebbe crescere a tassi vicini al 3 per cento annuo, piuttosto
che al di sotto del 2 per cento», è senza dubbio un
poeta. Ma a chi occorre dirlo perché il sogno si trasformi
in realtà?
Fino a poco tempo fa, a dire il vero, ritenevamo che fosse il governo
ad avere nelle mani gli strumenti normativi e finanziari per riavviare
il circolo virtuoso di una crescita competitiva e non inflazionistica,
tirandoci fuori da quelle condizioni di minorità che ci vedono
da molti anni negli ultimi posti fra i Paesi della zona euro per
tasso di sviluppo. Linvito leopardiano del ministro, invece,
ci lascia di sasso. A chi altri mai, se non più al governo,
dovremo rivolgerci perché tutto questo si realizzi? Ai capi
dei sindacati confederali, che meno iscritti hanno e più
vogliono concertare, oppure al capo della Confindustria, il quale
intanto, a scanso di equivoci, ha trasferito il suo fondo dinvestimento
Charme in Lussemburgo? Mistero. Così come misterioso
è il fatto che dopo la scorsa Finanziaria fatta di 350 pagine
di norme e di ben 1.350 commi, a giudizio dello stesso ministro
non siamo ancora riusciti a «riassorbire il nostro potenziale
di crescita bloccato dalle nostre inefficienze». Dovremo forse
scrivere unenciclopedia per rimuovere le cause che tengono
bloccato il nostro sviluppo economico?
Facciamo un discorso serio. Nel Documento è indicato come
esplosivo per la spesa corrente il settore del pubblico impiego,
dimenticando il rinnovo contrattuale che lo stesso governo ha sottoscritto
appena qualche mese prima. Per non parlare della sanità,
la cui spesa ha un tasso di crescita sempre più espansivo,
mentre settori come la sicurezza e la giustizia rischiano di non
avere i soldi per pagare la benzina o gli affitti o i nastri delle
stampanti.

Lannuncio dellinizio degli sgravi fiscali, poi, è
come è costume italiano confuso quanto basta.
Si dice che sarà ridotta lIci sulla prima casa, ma
per i redditi più bassi, notoriamente percepiti da molti
che non sono neanche proprietari di un appartamento. Si annuncia
una diminuzione della tassazione delle imprese (Iref) riducendo
laliquota ma aumentando la base imponibile: così come
detto, sembra un perverso gioco delle tre carte, con un saldo tributario
pressoché uguale, se non addirittura superiore, per il lavoro
autonomo e per le piccole e medie imprese.
Si parla di una verifica degli studi di settore, ma intanto restano
in vigore gli attuali indici di normalità economica che hanno
generato le proteste popolari del ceto produttivo. Si preferisce
parlare del tasso di disoccupazione in lieve discesa per ragioni
statistiche, ma si tace sul tasso di occupazione, il vero dato significativo,
che invece rallenta pericolosamente, rischiando di mettere una volta
per tutte con le spalle al muro il Sud. È così che
si deve parlare alla gente? Con i funambolismi verbali che mascherano
la realtà delle cose? DallUnione europea molti hanno
detto di no. In Italia tutti hanno finto di non sentire.
Affinché il nostro Paese possa attuare valide strategie di
sviluppo e dunque competere con successo sul mercato globale, è
necessaria una capacità di innovazione e di organizzazione
ben superiore a quella dispiegata negli ultimi decenni, dal momento
che la nostra industria è andata perdendo terreno nei settori
davanguardia e a più alto contenuto tecnologico. Né
è un dato confortante il fatto che il settore della formazione
superiore e della ricerca abbia subìto nel frattempo una
grave contrazione di risorse e di investimenti.
È perciò una sfida quanto mai severa quella che attende
lindustria italiana. In passato, essa ha dato prova in alcuni
momenti di brillanti performance, in altri di robuste capacità
di adattamento. E ora la nostra economia si trova ancora una volta
a dipendere, per tanti versi, dallefficacia e dalla tempestività
con cui il sistema industriale saprà rispondere ai nuovi
e più complessi problemi imposti dalle moderne frontiere
dello sviluppo e della concorrenza internazionale.

Tuttavia, la possibilità per lItalia di continuare
a far parte delle società più avanzate è strettamente
legata anche alle modalità di governo del Paese. A oltre
una decina di anni dal crollo del vecchio sistema (travolto dalle
inchieste giudiziarie sulle connessioni tra politica, economia e
pubblica amministrazione), lItalia continua a vivere una complessa
fase di transizione. Non esiste ancora fra i due schieramenti polari
alcun patrimonio condiviso di regole e di garanzie. E, ovviamente,
non sono queste le condizioni ideali perché si possano creare
o ravvivare nel Paese quei sentimenti di coesione civile e sociale,
quei motivi di solidarietà e di cooperazione, necessari a
un impegno collettivo e a un progetto di sviluppo comune. Inoltre,
mentre è divenuta sempre più rilevante la dimensione
internazionale rispetto a quella statuale nazionale, cè
da dubitare che la nostra classe politica, con le sue inclinazioni
per lo più domestiche e autoreferenziali, possieda la caratura
e lo spessore necessari per esercitare un ruolo più efficace
nellambito dellUnione europea.
Ma non ci troviamo solo a scontare i retaggi di certe vecchie malattie,
come un massimalismo tribunizio e un antagonismo altrettanto radicale
che dottrinario. Permangono anche, diffusi a vari livelli, una scarsa
propensione al cambiamento e un abito mentale improntato a un sostanziale
conservatorismo. Si tratta di un atteggiamento che tende a sacrificare
qualsiasi innovazione concreta sullaltare di una difesa tenace
quanto miope dellesistente, a copertura di determinati interessi
corporativi o di particolari rendite di posizione.
Per di più, cè il rischio che si diffonda una
sorta di malattia del languore, vale a dire un miscuglio di apatia
e di disincanto, di fatalismo e di frustrazione, che ha cominciato
a serpeggiare al fondo della società italiana e rischia di
paralizzarla. Beninteso, non è che altre società avanzate
dellOccidente siano immuni da manifestazioni di disagio e
di spaesamento di fronte ai mutamenti in corso con la globalizzazione.
Ma da noi questi sintomi di malessere e disorientamento sono più
pronunciati.
Di fatto, il pericolo che la società italiana finisca per
afflosciarsi stanca, rassegnata o scettica è
uninsidia che oggi sovrasta il nostro Paese. Ed è unipoteca
che risulterebbe alla lunga micidiale. In passato, in alcuni tornanti
cruciali, abbiamo saputo puntare i piedi, dando prova di singolari
capacità di recupero. È pur vero che la molla è
stata quasi sempre o una situazione demergenza o la pressione
di vincoli esterni imprescindibili. Oggi però ci troviamo
alle prese non con uno solo, ma con entrambi questi dilemmi. E non
ci sono più possibilità di ripescaggio
o di prove dappello, e tanto meno di espedienti di sorta.
Si spiega pertanto come sia essenziale che la classe politica metta
da parte polemiche sterili e calcoli strumentali di piccolo cabotaggio,
per lasciare il posto a un confronto costruttivo e responsabile
che valga a sciogliere i nodi di fondo che imbrigliano e logorano
leconomia italiana.
Lo aveva detto Machiavelli: lItalia e gli italiani sono rovinati
da quel tarlo che lui chiamò «il particulare»:
che è come dire linteresse di parte, di corporazione,
di vicolo, di associazione, di abitanti del villaggio, di professionisti
di una o dellaltra professione, di cosca o di carboneria,
insomma di corporazioni pronte a manovrare tessere, consensi e dissensi,
e a offrire i propri voti in blocco a qualsiasi partito che prometta
di tutelare i privilegi acquisiti. Quel che conta in circostanze
come queste, dunque, è la conservazione del particulare,
che non è cosa da poco, perché è proprio (anche)
il particulare che rende lItalia e gli italiani diversi e
unici rispetto al resto del mondo.
Ripensiamo alle Finanziarie, compresa lultima, che prometteva
faville e che ha fatto praticamente la fine di tutte quelle che
lhanno preceduta: nel momento in cui si apre il dibattito
parlamentare, gli eserciti sotterranei del particulare, come file
di formiche, scavano tunnel sotto la chiarezza e il programma (qualsiasi
programma), e di volta in volta stravolgono, patteggiano, comperano,
diffidano.
Si dirà: è così in tutto il mondo, basta guardare
alle lobbies in America. È vero, ma il lobbismo americano
non è un fenomeno carsico, buio, obliquo: è un mondo
aperto, duro, di scontro fra poteri e di rappresentanza politica
convinta. La democrazia americana vive anche di lobbies. Queste
sono la nervatura della società, come del resto i sindacati
statunitensi, che difendono a viso aperto e con una forza pari alla
loro influenza reale non gretti interessi economici soltanto, ma
soprattutto lo spirito della democrazia competitiva. Esse sono concorrenti
e si battono a martellate sui denti, alla luce del sole. Il particulare,
invece, è viscido, anche se vuol sembrare vellutato; è
notturno e ipocrita; usa il pugnale intinto nel veleno; non si pone
mai la questione di ciò che è meglio per la società.
È rimasto famoso quel che disse Charles E. Wilson, da presidente
della General Motors: «Quel che va bene per la GM va bene
per lAmerica, quel che va bene per lAmerica va bene
per la GM». Per molti anni lavvocato Giovanni Agnelli,
senza citare lautore, ha predicato e praticato in Italia lessenza
di questo motto, fondendo e confondendo il destino della Fiat con
quello del Paese, così come aveva fatto anche suo nonno.
Il particolarismo di casa nostra sta allautentico lobbismo
(che può essere arrogante, magari, ma che si manifesta e
vive allaperto) come il fondo melmoso sta al mare. Esso gioca
partite trasversali, non ha il coraggio di assumere una posizione
politica globale che consenta di dire che non ci si batte solo per
i propri interessi, ma nellinteresse del Paese. E questo è
un danno genetico per la democrazia, perché essa vive di
due livelli di scontro, quello degli interessi di parte e quello
del bene comune.
Gli interessi di parte sono legittime fonti di vita, ma se non possono
emergere sotto forma di interesse collettivo e generale, restano
melma che riaffiora come sabbia mobile, in tempi di complessi dibattiti
economici, con fastidiosi e micidiali cortei di tafani. Questo è
un nodo gordiano che nessuna forza politica italiana è riuscita
a sciogliere, e se per caso o per avventura qualcuno ha affrontato
il problema, nello spazio di un mattino è stato costretto
a innestare la retromarcia.
Ora, come correre ai ripari? Visto che la repressione è stata
velleitaria o nulla, si cominci a pensare positivo, considerando,
sì, il particulare alla stregua di melma, ma questa la si
immagini piena di perle e di pietre preziose, ritenendo che di particulare
sono intrisi il successo italiano, larte, lingegno:
la creatività, però, non la modernità.
Le forze politiche serie, allora, dovrebbero promuovere unassemblea
generale dei particulari e redigere insieme con essi la road map
del loro superamento, stabilendo modi e tempi rigorosi. Per far
questo, tuttavia, è necessaria una democrazia stabile, serve
uno Stato autorevole, si richiede spirito di collaborazione e di
responsabilità. E forse è il caso di sperare nella
metempsicosi.
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