Settembre 2007

Il Paese incompiuto

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Un malessere “particulare”
Pierfranco Landi Valeri
 
 

 

 

 

 

Il pericolo che la società italiana
finisca per
afflosciarsi
stanca, rassegnata o scettica è
un’insidia che
oggi sovrasta
il nostro Paese.

 

Un ministro delle Finanze che, presentando il Documento di programmazione economica e finanziaria, afferma esplicitamente che «se il nostro Paese attuasse pienamente il piano di Lisbona (la strategia di rilancio economico decisa nel 2000 dal Consiglio europeo), l’Italia potrebbe crescere a tassi vicini al 3 per cento annuo, piuttosto che al di sotto del 2 per cento», è senza dubbio un poeta. Ma a chi occorre dirlo perché il sogno si trasformi in realtà?
Fino a poco tempo fa, a dire il vero, ritenevamo che fosse il governo ad avere nelle mani gli strumenti normativi e finanziari per riavviare il circolo virtuoso di una crescita competitiva e non inflazionistica, tirandoci fuori da quelle condizioni di minorità che ci vedono da molti anni negli ultimi posti fra i Paesi della zona euro per tasso di sviluppo. L’invito leopardiano del ministro, invece, ci lascia di sasso. A chi altri mai, se non più al governo, dovremo rivolgerci perché tutto questo si realizzi? Ai capi dei sindacati confederali, che meno iscritti hanno e più vogliono concertare, oppure al capo della Confindustria, il quale intanto, a scanso di equivoci, ha trasferito il suo fondo d’investimento “Charme” in Lussemburgo? Mistero. Così come misterioso è il fatto che dopo la scorsa Finanziaria fatta di 350 pagine di norme e di ben 1.350 commi, a giudizio dello stesso ministro non siamo ancora riusciti a «riassorbire il nostro potenziale di crescita bloccato dalle nostre inefficienze». Dovremo forse scrivere un’enciclopedia per rimuovere le cause che tengono bloccato il nostro sviluppo economico?
Facciamo un discorso serio. Nel Documento è indicato come esplosivo per la spesa corrente il settore del pubblico impiego, dimenticando il rinnovo contrattuale che lo stesso governo ha sottoscritto appena qualche mese prima. Per non parlare della sanità, la cui spesa ha un tasso di crescita sempre più espansivo, mentre settori come la sicurezza e la giustizia rischiano di non avere i soldi per pagare la benzina o gli affitti o i nastri delle stampanti.

L’annuncio dell’inizio degli sgravi fiscali, poi, è – come è costume italiano – confuso quanto basta. Si dice che sarà ridotta l’Ici sulla prima casa, ma per i redditi più bassi, notoriamente percepiti da molti che non sono neanche proprietari di un appartamento. Si annuncia una diminuzione della tassazione delle imprese (Iref) riducendo l’aliquota ma aumentando la base imponibile: così come detto, sembra un perverso gioco delle tre carte, con un saldo tributario pressoché uguale, se non addirittura superiore, per il lavoro autonomo e per le piccole e medie imprese.
Si parla di una verifica degli studi di settore, ma intanto restano in vigore gli attuali indici di normalità economica che hanno generato le proteste popolari del ceto produttivo. Si preferisce parlare del tasso di disoccupazione in lieve discesa per ragioni statistiche, ma si tace sul tasso di occupazione, il vero dato significativo, che invece rallenta pericolosamente, rischiando di mettere una volta per tutte con le spalle al muro il Sud. È così che si deve parlare alla gente? Con i funambolismi verbali che mascherano la realtà delle cose? Dall’Unione europea molti hanno detto di no. In Italia tutti hanno finto di non sentire.
Affinché il nostro Paese possa attuare valide strategie di sviluppo e dunque competere con successo sul mercato globale, è necessaria una capacità di innovazione e di organizzazione ben superiore a quella dispiegata negli ultimi decenni, dal momento che la nostra industria è andata perdendo terreno nei settori d’avanguardia e a più alto contenuto tecnologico. Né è un dato confortante il fatto che il settore della formazione superiore e della ricerca abbia subìto nel frattempo una grave contrazione di risorse e di investimenti.
È perciò una sfida quanto mai severa quella che attende l’industria italiana. In passato, essa ha dato prova in alcuni momenti di brillanti performance, in altri di robuste capacità di adattamento. E ora la nostra economia si trova ancora una volta a dipendere, per tanti versi, dall’efficacia e dalla tempestività con cui il sistema industriale saprà rispondere ai nuovi e più complessi problemi imposti dalle moderne frontiere dello sviluppo e della concorrenza internazionale.

Tuttavia, la possibilità per l’Italia di continuare a far parte delle società più avanzate è strettamente legata anche alle modalità di governo del Paese. A oltre una decina di anni dal crollo del vecchio sistema (travolto dalle inchieste giudiziarie sulle connessioni tra politica, economia e pubblica amministrazione), l’Italia continua a vivere una complessa fase di transizione. Non esiste ancora fra i due schieramenti “polari” alcun patrimonio condiviso di regole e di garanzie. E, ovviamente, non sono queste le condizioni ideali perché si possano creare o ravvivare nel Paese quei sentimenti di coesione civile e sociale, quei motivi di solidarietà e di cooperazione, necessari a un impegno collettivo e a un progetto di sviluppo comune. Inoltre, mentre è divenuta sempre più rilevante la dimensione internazionale rispetto a quella statuale nazionale, c’è da dubitare che la nostra classe politica, con le sue inclinazioni per lo più domestiche e autoreferenziali, possieda la caratura e lo spessore necessari per esercitare un ruolo più efficace nell’ambito dell’Unione europea.
Ma non ci troviamo solo a scontare i retaggi di certe vecchie malattie, come un massimalismo tribunizio e un antagonismo altrettanto radicale che dottrinario. Permangono anche, diffusi a vari livelli, una scarsa propensione al cambiamento e un abito mentale improntato a un sostanziale conservatorismo. Si tratta di un atteggiamento che tende a sacrificare qualsiasi innovazione concreta sull’altare di una difesa tenace quanto miope dell’esistente, a copertura di determinati interessi corporativi o di particolari rendite di posizione.
Per di più, c’è il rischio che si diffonda una sorta di malattia del languore, vale a dire un miscuglio di apatia e di disincanto, di fatalismo e di frustrazione, che ha cominciato a serpeggiare al fondo della società italiana e rischia di paralizzarla. Beninteso, non è che altre società avanzate dell’Occidente siano immuni da manifestazioni di disagio e di spaesamento di fronte ai mutamenti in corso con la globalizzazione. Ma da noi questi sintomi di malessere e disorientamento sono più pronunciati.
Di fatto, il pericolo che la società italiana finisca per afflosciarsi – stanca, rassegnata o scettica – è un’insidia che oggi sovrasta il nostro Paese. Ed è un’ipoteca che risulterebbe alla lunga micidiale. In passato, in alcuni tornanti cruciali, abbiamo saputo puntare i piedi, dando prova di singolari capacità di recupero. È pur vero che la molla è stata quasi sempre o una situazione d’emergenza o la pressione di vincoli esterni imprescindibili. Oggi però ci troviamo alle prese non con uno solo, ma con entrambi questi dilemmi. E non ci sono più possibilità di “ripescaggio” o di prove d’appello, e tanto meno di espedienti di sorta.
Si spiega pertanto come sia essenziale che la classe politica metta da parte polemiche sterili e calcoli strumentali di piccolo cabotaggio, per lasciare il posto a un confronto costruttivo e responsabile che valga a sciogliere i nodi di fondo che imbrigliano e logorano l’economia italiana.
Lo aveva detto Machiavelli: l’Italia e gli italiani sono rovinati da quel tarlo che lui chiamò «il particulare»: che è come dire l’interesse di parte, di corporazione, di vicolo, di associazione, di abitanti del villaggio, di professionisti di una o dell’altra professione, di cosca o di carboneria, insomma di corporazioni pronte a manovrare tessere, consensi e dissensi, e a offrire i propri voti in blocco a qualsiasi partito che prometta di tutelare i privilegi acquisiti. Quel che conta in circostanze come queste, dunque, è la conservazione del particulare, che non è cosa da poco, perché è proprio (anche) il particulare che rende l’Italia e gli italiani diversi e unici rispetto al resto del mondo.
Ripensiamo alle Finanziarie, compresa l’ultima, che prometteva faville e che ha fatto praticamente la fine di tutte quelle che l’hanno preceduta: nel momento in cui si apre il dibattito parlamentare, gli eserciti sotterranei del particulare, come file di formiche, scavano tunnel sotto la chiarezza e il programma (qualsiasi programma), e di volta in volta stravolgono, patteggiano, comperano, diffidano.
Si dirà: è così in tutto il mondo, basta guardare alle lobbies in America. È vero, ma il lobbismo americano non è un fenomeno carsico, buio, obliquo: è un mondo aperto, duro, di scontro fra poteri e di rappresentanza politica convinta. La democrazia americana vive anche di lobbies. Queste sono la nervatura della società, come del resto i sindacati statunitensi, che difendono a viso aperto e con una forza pari alla loro influenza reale non gretti interessi economici soltanto, ma soprattutto lo spirito della democrazia competitiva. Esse sono concorrenti e si battono a martellate sui denti, alla luce del sole. Il particulare, invece, è viscido, anche se vuol sembrare vellutato; è notturno e ipocrita; usa il pugnale intinto nel veleno; non si pone mai la questione di ciò che è meglio per la società. È rimasto famoso quel che disse Charles E. Wilson, da presidente della General Motors: «Quel che va bene per la GM va bene per l’America, quel che va bene per l’America va bene per la GM». Per molti anni l’avvocato Giovanni Agnelli, senza citare l’autore, ha predicato e praticato in Italia l’essenza di questo motto, fondendo e confondendo il destino della Fiat con quello del Paese, così come aveva fatto anche suo nonno.
Il particolarismo di casa nostra sta all’autentico lobbismo (che può essere arrogante, magari, ma che si manifesta e vive all’aperto) come il fondo melmoso sta al mare. Esso gioca partite trasversali, non ha il coraggio di assumere una posizione politica globale che consenta di dire che non ci si batte solo per i propri interessi, ma nell’interesse del Paese. E questo è un danno genetico per la democrazia, perché essa vive di due livelli di scontro, quello degli interessi di parte e quello del bene comune.
Gli interessi di parte sono legittime fonti di vita, ma se non possono emergere sotto forma di interesse collettivo e generale, restano melma che riaffiora come sabbia mobile, in tempi di complessi dibattiti economici, con fastidiosi e micidiali cortei di tafani. Questo è un nodo gordiano che nessuna forza politica italiana è riuscita a sciogliere, e se per caso o per avventura qualcuno ha affrontato il problema, nello spazio di un mattino è stato costretto a innestare la retromarcia.
Ora, come correre ai ripari? Visto che la repressione è stata velleitaria o nulla, si cominci a pensare positivo, considerando, sì, il particulare alla stregua di melma, ma questa la si immagini piena di perle e di pietre preziose, ritenendo che di particulare sono intrisi il successo italiano, l’arte, l’ingegno: la creatività, però, non la modernità.
Le forze politiche serie, allora, dovrebbero promuovere un’assemblea generale dei particulari e redigere insieme con essi la road map del loro superamento, stabilendo modi e tempi rigorosi. Per far questo, tuttavia, è necessaria una democrazia stabile, serve uno Stato autorevole, si richiede spirito di collaborazione e di responsabilità. E forse è il caso di sperare nella metempsicosi.

 

   
   
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