Settembre 2007

Difendere i “fannulloni”?

Indietro
Il codice etico che non c’è
Flavio Albini  
 
 

 

 

 

Ma non si
troverà mai sui
teleschermi
italiani una Mika qualsiasi che inviti al dibattito
su questi temi.

 

Non molto tempo fa Mika Brzezinski, conduttrice di un tg americano, si è rifiutata di leggere la notizia della scarcerazione di Miss Nulla, al secolo l’ereditiera Paris Hilton: la giornalista strappò in diretta il dispaccio di agenzia, dichiarando che nel giorno in cui in Iraq, negli Stati Uniti e nel resto del mondo accadevano cose gravi, lei si rifiutava di aprire il tg con un’idiozia. Può darsi che si sia trattato di una trovata bella e buona, cioè che Mika abbia ostentato il suo disappunto per divenire famosa come la Hilton. Ma una volta tanto è bene pensare positivo. Qualche settimana prima un ragazzo era annegato, in Sicilia, per salvare cinque incoscienti che erano scesi in acqua malgrado ci fosse la bandiera rossa: meritò appena due righe in cronaca e una notiziola nel telegiornale, mentre le squallide peripezie di persone senza talento, come le sciampiste televisive fotografate dagli sgherri di Corona, invadevano senza sosta pagine di giornali e palinsesti.
Non è vero che la gente è attratta solo dalle lordure scintillanti. È stato scritto che le persone belle fanno vendere, ma non devono più sottrarre spazio alle belle persone. Oltre alla Hilton, alle veline, alle letterine, alle meteorine, a una fauna sterminata di donzelle d’alto e basso bordo e a svariati plotoni di tombeurs de femmes, nullafacenti eppure velocemente arricchiti, inaffidabili e cinici quanto basta, che imperversano senza tregua, notte e giorno, in ogni punto cardinale del nostro strambo Paese, al mondo esistono altre forme di vita, che meritano un po’ di emulazione; e si verificano altre vicende, che meritano un po’ di attenzione; e soprattutto altri problemi, che non vanno elusi, magari occupando lo spazio-tempo di giornali e tg con il vuoto pneumatico (tatticamente programmato? A sospettare si fa peccato, ma alle volte…) che con lucidità sistematica “distrae” dapprima, e poi addormenta i fruitori delle non-notizie. E gli esempi, anche clamorosi, non mancano.

Capitava dalle nostre parti, tanto per dire, che un Capo degli industriali chiamasse in causa gli indignatissimi sindacati «che difendono i fannulloni». La battuta – come venne definita: ma battuta non era, era una chiamata in causa di complicità – denunciava il rischio grave che i sindacati italici si riducessero a difendere soltanto i lavoratori – diciamo così – meno produttivi, lasciando gli altri, di fatto, privi di rappresentanza. Rischio corso soprattutto nel settore pubblico, dove la disponibilità a una politica di differenziazione dei trattamenti in funzione dell’efficienza delle strutture amministrative e del merito individuale, genericamente manifestata dai sindacati nel memorandum firmato col governo nel gennaio 2007, è vistosamente contraddetta dal loro reale comportamento non appena si tratta di passare alle misure concrete. È memoria non esaltante il violentissimo fuoco di sbarramento che le tre confederazioni aprirono contro la proposta governativa di affidare a una commissione centrale indipendente il compito di attivare e garantire gli strumenti di valutazione, controllo e trasparenza in ciascun comparto dell’impiego pubblico.
Ma quello di privilegiare troppo i “fannulloni” è un rischio che – sia pure in misura minore – il sindacato corre anche nel settore privato. Quando dal lavoro manuale si passa a quello impiegatizio, è tipico e in qualche misura fatale che siano più propensi a impegnarsi nella militanza sindacale i lavoratori meno assorbiti dal proprio lavoro, quelli che da esso traggono minori soddisfazioni; e quindi anche il fatto che le iscrizioni si addensino nella parte più debole degli appartenenti a ciascuna categoria. Questo fenomeno, però, sconfina nella patologia quando accade addirittura – e ciò si verifica con una frequenza davvero eccessiva, al punto da essere considerato normale da chi si occupa professionalmente di gestione delle risorse umane – che il sindacato entri per la prima volta in un’azienda per iniziativa di un lavoratore che ha commesso una grave mancanza e che si fa nominare rappresentante sindacale per ottenere una protezione impropria contro il probabile licenziamento; o comunque che il sindacato offra con grande facilità i galloni di r.s.a. al lavoratore cui è stata appena notificata (o sta per esserlo) la contestazione disciplinare; oppure a un lavoratore che usa permessi e aspettative sindacali per i propri comodi privati. Quando la rappresentanza in azienda si costituisce su queste basi, è il Dna del sindacato a subire una degenerazione; e la sua missione effettiva viene percepita dalla generalità dei lavoratori non come quella di proteggere i più deboli, ma come quella di abbassare il livello minimo dovuto di correttezza e di impegno produttivo. Qui c’è un evidente conflitto di interessi; e il sindacato dovrebbe – per il proprio buon nome, prima di tutto – darsi un codice etico che individui esplicitamente quel possibile conflitto e impedisca il diffondersi del fenomeno.
Più in generale, il sindacato deve curare – con attenzione molto maggiore di quanto non faccia oggi – che il proprio naturale e doveroso impegno nella difesa della parte più debole dei lavoratori si coniughi con il riconoscimento e la difesa anche dell’interesse della parte più forte professionalmente e più produttiva. Altrimenti, prima o poi quest’ultima si ribella. È già accaduto nel 1980 con la “marcia dei 40.000”. Gli errori del sindacato che generarono quella rivolta non sono molto diversi da quelli cui assistiamo oggi, soprattutto nel settore pubblico, dove il sindacato è più forte e cerca di imporre la propria legge.

Qual è il ruolo del sindacato? L’economista francese Bertrand Lamennicier, riflettendo su vincitori e perdenti dell’alta tassazione, segnala come nelle democrazie contemporanee una delle forze più potenti che spinge per l’intermediazione politica del reddito sia il sindacato. Le antiche Trade Unions sono diventate il partito della spesa. Ne sanno qualcosa i governi (ideologicamente contrapposti) di queste ultime due legislature. Ricordate il tragico assassinio di Marco Biagi, nel marzo 2002? Allora, il governo era impegnato, insieme con gli industriali capeggiati da Antonio D’Amato, in una battaglia contro l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, uno dei più stretti colli di bottiglia che frenano la crescita delle nostre imprese.
Fu una battaglia persa, nonostante il sacrificio di Biagi. Si perdette perché il sindacato riuscì – con una vigorosa manifestazione di piazza, organizzata a Roma da quello stesso Sergio Cofferati che ora è inviso ai suoi stessi compagni di partito come sindaco tutto “legge e ordine” di Bologna – a ribaltare la storia, a negare la sua involontaria ma sostanziale linea ideologica nell’agguato brigatista a Biagi, a fare apparire ogni possibile riforma uno schiaffo ai lavoratori. Le cose stavano veramente così?

La flessibilità a metà della legge Biagi ha permesso grandi risultati, a livello occupazionale, come ci ricordano i dati Istat. Fosse stata completata, (non solo flessibilità in entrata, ma anche in uscita, e ovviamente con tutti gli ammortizzatori sociali del caso), avrebbe prodotto un miracolo ancora più eclatante.
È un Paese normale, questo nostro, in cui si verificano fatti del genere? A me sembra più che altro un Paese che spreca fior di opportunità, e lo fa perché il sindacato – proprio quando la sua presa sui lavoratori è sempre minore – sceglie non di offrire servizi al mondo del lavoro, ma piuttosto di muoversi come attore politico. Infatti, sembra ormai impossibile immaginare in Italia un sindacato leggero, riformista, capace di diventare un erogatore di servizi a vantaggio dei suoi iscritti, anziché un grimaldello politico.
La “concertazione” – che Francesco Forte ha definito «il mercato delle vacche, fra governo e categorie da esso privilegiate» – è un termine che la lingua inglese non conosce, tranne che per la musica. È un’invenzione del fascismo corporativo, ed esiste soltanto nei governi con nostalgie corporativiste, che inseriscono i sindacati a loro graditi nel potere dello Stato. È un «istituto da buttare, in quanto incompatibile con lo Stato di diritto, in cui il governo non può privilegiare gli interessi particolari, dando loro un potere di cogestione della cosa pubblica a spese del resto dei cittadini».
Se qualche volta la cogestione è servita a frenare i salari nelle grandi imprese, ciò è accaduto gonfiando, in cambio, la spesa pubblica, e quindi l’onere per il contribuente e il deficit pubblico.
Si badi bene. Non tutti i sindacati entrano nella stanza dei bottoni. Ci entrano soltanto quelli che sono amici (una volta si diceva “cinghie di trasmissione”) di certi partiti. Accade così che non si applichi il metodo della concertazione quando si fanno le liberalizzazioni, perché il governo non riconosce i sindacati dei professionisti. Né si adotta la concertazione quando si redigono le tabelle dei ricavi e dei redditi presunti, per i cosiddetti “studi di settore”, (che sono anch’essi un’invenzione del fascismo corporativo, che li denominava “contingenti di studio”), perché ritiene che le categorie interessate non abbiano votato abbastanza per i partiti sui quali l’esecutivo si regge. Né il governo fa ricorso al metodo concertativo quando escogita nuove norme per la tassazione a catasto degli immobili, attribuendo ai Comuni il potere di stimare le rendite catastali, potere che appartiene per sua natura allo Stato. Non applica la concertazione ai proprietari di immobili perché non riconosce il loro sindacato: infatti, chi possiede una casa (peggio ancora se ne possiede anche una seconda) è considerato un parassita sociale, in quanto percettore di “rendite”.
Gli unici sindacati ammessi a concertare, cioè a spartire il potere, con ministri, viceministri e sottosegretari sono quelli della triade confederale. In qualche occasione, è ammessa la Confindustria. Dunque, la concertazione, nello Stato neo-corporativo al quale la sinistra prossima, media ed estrema crede, (e che sembra appartenere anche al modello del futuribile Partito democratico), si fa con i rappresentanti delle categorie che esso riconosce. Il metodo è poco diverso da quello del fascismo. Con la differenza che allora comandavano di più i sindacati padronali, mentre ora comandano di più quelli che sono espressione dei pensionati, dei pensionandi e dei pubblici impiegati, (al cui interno si annidano inossidabili gruppi di “fannulloni”), che rappresentano la stragrande maggioranza degli iscritti alla triade.
Il metodo corporativo fascista generò la compressione dei salari, quello attuale genera l’espansione di pensioni non basate sui contributi versati, e quella delle retribuzioni pubbliche non basate sull’efficienza dei servizi resi. Ma non si troverà mai sui teleschermi italiani una Mika qualsiasi che inviti al dibattito su questi temi. Saremo perciò costretti a sorbirci i paranoici gossip delle solite note (e di qualche ignota che vuol bruciare le tappe per diventare, appunto, nota), mentre magari 13 sindacati che si spartiscono i diecimila dipendenti Alitalia, (sono 32 le sigle sindacali dell’intero settore del trasporto aereo: cifre da Guinnes dei primati), divisi per categoria e per una babele di appartenenze, continueranno a spadroneggiare in un’azienda i cui dirigenti vanno a casa con un mucchio di miliardi di liquidazione, invece di presentare i libri contabili in Tribunale, per dichiarare un fallimento che ci farebbe risparmiare, secondo le ultime notizie, due milioni di euro di perdite al giorno, e per ricominciare con una società nuova, con uomini nuovi, e magari con un bel po’ di “fannulloni” in meno.
(Ha raccontato – scritto e firmato – Antonio Galdo, direttore del quotidiano Indipendente, che un’assemblea degli iscritti a un sindacato autonomo di controllori di volo si era svolta a casa del presidente, al cospetto di un piatto di bucatini all’amatriciana e di un’insalata di puntarelle: mai ricevuta una smentita, mai avuta una richiesta di rettifica, meno che mai aperta un’inchiesta giornalistica, se non giudiziaria; sindacale, se non politica. Se questi non sono sepolcri imbiancati! Se questa non è pura follia made only in Italy!).

 

   
   
Indietro
     

Banca Popolare Pugliese
Tutti i diritti riservati © 2007