Ma non si
troverà mai sui
teleschermi
italiani una Mika qualsiasi che inviti al dibattito
su questi temi.
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Non molto tempo fa Mika Brzezinski, conduttrice di un tg americano,
si è rifiutata di leggere la notizia della scarcerazione
di Miss Nulla, al secolo lereditiera Paris Hilton: la giornalista
strappò in diretta il dispaccio di agenzia, dichiarando che
nel giorno in cui in Iraq, negli Stati Uniti e nel resto del mondo
accadevano cose gravi, lei si rifiutava di aprire il tg con unidiozia.
Può darsi che si sia trattato di una trovata bella e buona,
cioè che Mika abbia ostentato il suo disappunto per divenire
famosa come la Hilton. Ma una volta tanto è bene pensare
positivo. Qualche settimana prima un ragazzo era annegato, in Sicilia,
per salvare cinque incoscienti che erano scesi in acqua malgrado
ci fosse la bandiera rossa: meritò appena due righe in cronaca
e una notiziola nel telegiornale, mentre le squallide peripezie
di persone senza talento, come le sciampiste televisive fotografate
dagli sgherri di Corona, invadevano senza sosta pagine di giornali
e palinsesti.
Non è vero che la gente è attratta solo dalle lordure
scintillanti. È stato scritto che le persone belle fanno
vendere, ma non devono più sottrarre spazio alle belle persone.
Oltre alla Hilton, alle veline, alle letterine, alle meteorine,
a una fauna sterminata di donzelle dalto e basso bordo e a
svariati plotoni di tombeurs de femmes, nullafacenti eppure velocemente
arricchiti, inaffidabili e cinici quanto basta, che imperversano
senza tregua, notte e giorno, in ogni punto cardinale del nostro
strambo Paese, al mondo esistono altre forme di vita, che meritano
un po di emulazione; e si verificano altre vicende, che meritano
un po di attenzione; e soprattutto altri problemi, che non
vanno elusi, magari occupando lo spazio-tempo di giornali e tg con
il vuoto pneumatico (tatticamente programmato? A sospettare si fa
peccato, ma alle volte
) che con lucidità sistematica
distrae dapprima, e poi addormenta i fruitori delle
non-notizie. E gli esempi, anche clamorosi, non mancano.

Capitava dalle nostre parti, tanto per dire, che un Capo degli
industriali chiamasse in causa gli indignatissimi sindacati «che
difendono i fannulloni». La battuta come venne definita:
ma battuta non era, era una chiamata in causa di complicità
denunciava il rischio grave che i sindacati italici si riducessero
a difendere soltanto i lavoratori diciamo così
meno produttivi, lasciando gli altri, di fatto, privi di rappresentanza.
Rischio corso soprattutto nel settore pubblico, dove la disponibilità
a una politica di differenziazione dei trattamenti in funzione dellefficienza
delle strutture amministrative e del merito individuale, genericamente
manifestata dai sindacati nel memorandum firmato col governo nel
gennaio 2007, è vistosamente contraddetta dal loro reale
comportamento non appena si tratta di passare alle misure concrete.
È memoria non esaltante il violentissimo fuoco di sbarramento
che le tre confederazioni aprirono contro la proposta governativa
di affidare a una commissione centrale indipendente il compito di
attivare e garantire gli strumenti di valutazione, controllo e trasparenza
in ciascun comparto dellimpiego pubblico.
Ma quello di privilegiare troppo i fannulloni è
un rischio che sia pure in misura minore il sindacato
corre anche nel settore privato. Quando dal lavoro manuale si passa
a quello impiegatizio, è tipico e in qualche misura fatale
che siano più propensi a impegnarsi nella militanza sindacale
i lavoratori meno assorbiti dal proprio lavoro, quelli che da esso
traggono minori soddisfazioni; e quindi anche il fatto che le iscrizioni
si addensino nella parte più debole degli appartenenti a
ciascuna categoria. Questo fenomeno, però, sconfina nella
patologia quando accade addirittura e ciò si verifica
con una frequenza davvero eccessiva, al punto da essere considerato
normale da chi si occupa professionalmente di gestione delle risorse
umane che il sindacato entri per la prima volta in unazienda
per iniziativa di un lavoratore che ha commesso una grave mancanza
e che si fa nominare rappresentante sindacale per ottenere una protezione
impropria contro il probabile licenziamento; o comunque che il sindacato
offra con grande facilità i galloni di r.s.a. al lavoratore
cui è stata appena notificata (o sta per esserlo) la contestazione
disciplinare; oppure a un lavoratore che usa permessi e aspettative
sindacali per i propri comodi privati. Quando la rappresentanza
in azienda si costituisce su queste basi, è il Dna del sindacato
a subire una degenerazione; e la sua missione effettiva viene percepita
dalla generalità dei lavoratori non come quella di proteggere
i più deboli, ma come quella di abbassare il livello minimo
dovuto di correttezza e di impegno produttivo. Qui cè
un evidente conflitto di interessi; e il sindacato dovrebbe
per il proprio buon nome, prima di tutto darsi un codice
etico che individui esplicitamente quel possibile conflitto e impedisca
il diffondersi del fenomeno.
Più in generale, il sindacato deve curare con attenzione
molto maggiore di quanto non faccia oggi che il proprio naturale
e doveroso impegno nella difesa della parte più debole dei
lavoratori si coniughi con il riconoscimento e la difesa anche dellinteresse
della parte più forte professionalmente e più produttiva.
Altrimenti, prima o poi questultima si ribella. È già
accaduto nel 1980 con la marcia dei 40.000. Gli errori
del sindacato che generarono quella rivolta non sono molto diversi
da quelli cui assistiamo oggi, soprattutto nel settore pubblico,
dove il sindacato è più forte e cerca di imporre la
propria legge.
Qual è il ruolo del sindacato? Leconomista francese
Bertrand Lamennicier, riflettendo su vincitori e perdenti dellalta
tassazione, segnala come nelle democrazie contemporanee una delle
forze più potenti che spinge per lintermediazione politica
del reddito sia il sindacato. Le antiche Trade Unions sono diventate
il partito della spesa. Ne sanno qualcosa i governi (ideologicamente
contrapposti) di queste ultime due legislature. Ricordate il tragico
assassinio di Marco Biagi, nel marzo 2002? Allora, il governo era
impegnato, insieme con gli industriali capeggiati da Antonio DAmato,
in una battaglia contro larticolo 18 dello Statuto dei lavoratori,
uno dei più stretti colli di bottiglia che frenano la crescita
delle nostre imprese.
Fu una battaglia persa, nonostante il sacrificio di Biagi. Si perdette
perché il sindacato riuscì con una vigorosa
manifestazione di piazza, organizzata a Roma da quello stesso Sergio
Cofferati che ora è inviso ai suoi stessi compagni di partito
come sindaco tutto legge e ordine di Bologna
a ribaltare la storia, a negare la sua involontaria ma sostanziale
linea ideologica nellagguato brigatista a Biagi, a fare apparire
ogni possibile riforma uno schiaffo ai lavoratori. Le cose stavano
veramente così?
La flessibilità a metà della legge Biagi ha permesso
grandi risultati, a livello occupazionale, come ci ricordano i dati
Istat. Fosse stata completata, (non solo flessibilità in
entrata, ma anche in uscita, e ovviamente con tutti gli ammortizzatori
sociali del caso), avrebbe prodotto un miracolo ancora più
eclatante.
È un Paese normale, questo nostro, in cui si verificano fatti
del genere? A me sembra più che altro un Paese che spreca
fior di opportunità, e lo fa perché il sindacato
proprio quando la sua presa sui lavoratori è sempre minore
sceglie non di offrire servizi al mondo del lavoro, ma piuttosto
di muoversi come attore politico. Infatti, sembra ormai impossibile
immaginare in Italia un sindacato leggero, riformista, capace di
diventare un erogatore di servizi a vantaggio dei suoi iscritti,
anziché un grimaldello politico.
La concertazione che Francesco Forte ha definito
«il mercato delle vacche, fra governo e categorie da esso
privilegiate» è un termine che la lingua inglese
non conosce, tranne che per la musica. È uninvenzione
del fascismo corporativo, ed esiste soltanto nei governi con nostalgie
corporativiste, che inseriscono i sindacati a loro graditi nel potere
dello Stato. È un «istituto da buttare, in quanto incompatibile
con lo Stato di diritto, in cui il governo non può privilegiare
gli interessi particolari, dando loro un potere di cogestione della
cosa pubblica a spese del resto dei cittadini».
Se qualche volta la cogestione è servita a frenare i salari
nelle grandi imprese, ciò è accaduto gonfiando, in
cambio, la spesa pubblica, e quindi lonere per il contribuente
e il deficit pubblico.
Si badi bene. Non tutti i sindacati entrano nella stanza dei bottoni.
Ci entrano soltanto quelli che sono amici (una volta si diceva cinghie
di trasmissione) di certi partiti. Accade così che
non si applichi il metodo della concertazione quando si fanno le
liberalizzazioni, perché il governo non riconosce i sindacati
dei professionisti. Né si adotta la concertazione quando
si redigono le tabelle dei ricavi e dei redditi presunti, per i
cosiddetti studi di settore, (che sono anchessi
uninvenzione del fascismo corporativo, che li denominava contingenti
di studio), perché ritiene che le categorie interessate
non abbiano votato abbastanza per i partiti sui quali lesecutivo
si regge. Né il governo fa ricorso al metodo concertativo
quando escogita nuove norme per la tassazione a catasto degli immobili,
attribuendo ai Comuni il potere di stimare le rendite catastali,
potere che appartiene per sua natura allo Stato. Non applica la
concertazione ai proprietari di immobili perché non riconosce
il loro sindacato: infatti, chi possiede una casa (peggio ancora
se ne possiede anche una seconda) è considerato un parassita
sociale, in quanto percettore di rendite.
Gli unici sindacati ammessi a concertare, cioè a spartire
il potere, con ministri, viceministri e sottosegretari sono quelli
della triade confederale. In qualche occasione, è ammessa
la Confindustria. Dunque, la concertazione, nello Stato neo-corporativo
al quale la sinistra prossima, media ed estrema crede, (e che sembra
appartenere anche al modello del futuribile Partito democratico),
si fa con i rappresentanti delle categorie che esso riconosce. Il
metodo è poco diverso da quello del fascismo. Con la differenza
che allora comandavano di più i sindacati padronali, mentre
ora comandano di più quelli che sono espressione dei pensionati,
dei pensionandi e dei pubblici impiegati, (al cui interno si annidano
inossidabili gruppi di fannulloni), che rappresentano
la stragrande maggioranza degli iscritti alla triade.
Il metodo corporativo fascista generò la compressione dei
salari, quello attuale genera lespansione di pensioni non
basate sui contributi versati, e quella delle retribuzioni pubbliche
non basate sullefficienza dei servizi resi. Ma non si troverà
mai sui teleschermi italiani una Mika qualsiasi che inviti al dibattito
su questi temi. Saremo perciò costretti a sorbirci i paranoici
gossip delle solite note (e di qualche ignota che vuol bruciare
le tappe per diventare, appunto, nota), mentre magari 13 sindacati
che si spartiscono i diecimila dipendenti Alitalia, (sono 32 le
sigle sindacali dellintero settore del trasporto aereo: cifre
da Guinnes dei primati), divisi per categoria e per una babele di
appartenenze, continueranno a spadroneggiare in unazienda
i cui dirigenti vanno a casa con un mucchio di miliardi di liquidazione,
invece di presentare i libri contabili in Tribunale, per dichiarare
un fallimento che ci farebbe risparmiare, secondo le ultime notizie,
due milioni di euro di perdite al giorno, e per ricominciare con
una società nuova, con uomini nuovi, e magari con un bel
po di fannulloni in meno.
(Ha raccontato scritto e firmato Antonio Galdo, direttore
del quotidiano Indipendente, che unassemblea degli iscritti
a un sindacato autonomo di controllori di volo si era svolta a casa
del presidente, al cospetto di un piatto di bucatini allamatriciana
e di uninsalata di puntarelle: mai ricevuta una smentita,
mai avuta una richiesta di rettifica, meno che mai aperta uninchiesta
giornalistica, se non giudiziaria; sindacale, se non politica. Se
questi non sono sepolcri imbiancati! Se questa non è pura
follia made only in Italy!).
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