Settembre 2007

L’innovazione penalizzata

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Gli incentivi discriminanti
Mabel  
 
 

 

 

Tutta la strategia di intervento
pubblico è
stolidamente
distorta in favore dei settori maturi a discapito di quelli innovativi
in cui il capitale umano assume
un ruolo
fondamentale.

 

Sul fatto che l’Italia, ed Eurolandia in generale, registrino un ritardo preoccupante nello sviluppo tecnologico e nella capacità di innovazione, pochi dissentono. Quanto ai rimedi, sussiste una disparità di vedute e di ricette che finora non ha certo aiutato a definire un quadro di interventi efficace. Anzi, l’Agenda di Lisbona solennemente sottoscritta dai governi dell’Unione europea è stata finora un vistoso fallimento. Si parlava di rendere l’Unione europea l’economia più competitiva del mondo, in chiara concorrenza con gli Stati Uniti: impegni rimasti sulla carta e nella memoria di pochi eurocrati. Tanto per rimanere nel cortile di casa, qualcuno ha sentito più parlare dell’Istituto italiano di Tecnologia? Eppure era stato lanciato con progetti ambiziosi, una sigla Iit che vagheggiava il mitico Mit, tanti fondi (almeno, a parole), l’obiettivo di far ritornare i cervelli, il legame con l’industria. Tutto sparito dallo schermo radar.
Forse, più che su progetti faraonici, sarebbe meglio concentrarsi su questioni pratiche e sulla rimozione di alcuni ostacoli palesi. Senza la pretesa di suggerire rimedi miracolosi, vogliamo sottolineare l’aspetto di un problema completamente trascurato, ma che, dal nostro punto di vista, produce un fenomeno di crowding out per gli investimenti nei settori innovativi e nella ricerca di punta in Italia e nel resto d’Europa. Per di più, si tratta di una distorsione che può essere rimossa senza costi e in tempi brevi, soprattutto se a livello di Ue si riconosce l’errore strategico commesso sia pure in nome delle migliori intenzioni.

Per chiarire, ricorriamo a un esempio. Se un imprenditore vuole aprire uno stabilimento tessile (o qualsiasi altra impresa manifatturiera), ha a disposizione diverse leggi e provvedimenti per ottenere sussidi, agevolazioni, contributi statali o locali (in conto capitale o in conto interesse), a condizione però che siano utilizzati prevalentemente per l’acquisizione di capitale fisico, vale a dire di macchinari e di immobili.
Al contrario, un imprenditore che voglia creare un’azienda di software, che necessita soprattutto di capitale umano, cioè di programmatori, non ha accesso ad alcun sostegno pubblico significativo: al più, riesce a ottenere qualche spicciolo per acquistare l’hardware e un po’ di software, che comunque diverrebbero obsoleti molto prima che la burocrazia esamini il progetto e sborsi i fondi. In altre parole, se un imprenditore vuole investire in macchinari e in immobili, lo Stato contribuisce al finanziamento, se invece ha bisogno di un programmatore, non offre alcuna agevolazione. Per riassumere: l’intervento pubblico si concentra sul capitale fisico e trascura quasi del tutto il capitale umano.
Ed è appunto questo il nocciolo del problema: i settori innovativi e ad alto valore aggiunto oggi sono settori ad alta intensità di capitale umano. I settori ad alta intensità di capitale fisico sono quelli tradizionali e a più basso valore aggiunto. Quindi, tutta la strategia di intervento pubblico volta a favorire lo sviluppo è stolidamente distorta in favore dei settori maturi (e senza futuro nei Paesi dell’Ocse), a discapito di quelli innovativi in cui il capitale umano assume un ruolo fondamentale.
Com’è possibile? Questa distorsione è figlia di una concezione ottocentesca dell’economia, sposata in modo acritico a livello Ue. Cercando di semplificare il discorso, secondo questa concezione la crescita economica dipende dalla dotazione di capitale fisico dell’economia. Maggiore è la dotazione di capitale fisico, maggiore è la produttività del fattore lavoro. Il capitale umano è indifferenziato, anzi, per essere espliciti, è poco più che mera forza di braccia. Ne consegue che gli incentivi pubblici alle attività economiche sono giustificati soltanto se diretti all’acquisto di macchinari, di impianti e di immobili, perché aumenterebbero la produttività e quindi lo sviluppo, mentre debbono essere vietati se utilizzati per remunerare il capitale umano sotto forma di salario. In altri termini, le direttive europee considerano gli stipendi un costo di gestione, e come tale vietano in sostanza agli Stati membri di sussidiarli, altrimenti si violerebbe il principio di concorrenza.
Questa strategia di sviluppo economico ricorda molto da vicino i Gosplan e il Grande Balzo in avanti, e presenta le stesse possibilità di successo. Poteva avere un senso durante le fasi iniziali della Rivoluzione industriale del XIX secolo, ma oggi è il patetico residuo di un mondo scomparso.

A parziale giustificazione, vale la pena di osservare che esiste un motivo fondato per questo atteggiamento anacronistico: troppo spesso in passato i governi hanno tenuto in piedi aziende decotte attraverso sussidi più o meno espliciti all’occupazione, con la debole riprovazione di Bruxelles. Dunque, il divieto di finanziare i costi di gestione fu imposto con l’intento di limitare gli interventi impropri dello Stato in economia. Ma la concorrenza viene distorta sia che lo Stato agevoli le aziende per l’acquisto del capitale fisico sia che paghi parte degli stipendi. Essendo il denaro fungibile è irrilevante, per esempio, che lo Stato fornisca a una compagnia di bandiera i soldi per comprare gli aerei o per pagare le hostess (Alitalia docet). La distinzione tra costo del capitale e costo di gestione è del tutto artificiale e priva di senso, figlia appunto della logica da Gosplan.
Allora non è questo il punto fondamentale. Quel punto è che, o si vietano tutti i sussidi di qualsivoglia natura, oppure – se si accetta il principio che lo Stato possa incentivare le attività economiche per stimolare lo sviluppo – si dovrebbe farlo con l’obiettivo di finanziare progetti che abbiano il rendimento più alto, o quanto meno le maggiori probabilità di successo. Dal nostro punto di vista, sarebbe meglio che lo Stato abolisse tutte le forme di sussidi e lasciasse al sistema finanziario e al mercato dei capitali in generale il compito di valutare, finanziare e rischiare sui progetti. Ma anni di dirigismo, di invadenza statale e di regolamentazioni hanno lobotomizzato queste capacità nell’Europa continentale. E a maggior ragione crediamo sia inutile illudersi che in Italia il sistema finanziario riesca a sviluppare in tempi brevi iniziative di venture capital che possano rilanciare la crescita.
Sia pure come second best, potrebbe quindi avere un senso che il settore pubblico lanci iniziative per supplire alla mancanza di venture capital. Meglio sarebbe che i governi incentivassero l’attività di venture capital del settore finanziario, invece che affidare la valutazione dei progetti e l’allocazione di fondi ai burocrati. In altre parole, che i fondi, anche se pubblici, fossero gestiti da professionisti.
Ma l’aspetto rilevante da sottolineare è che il venture capital deve finanziare idee e progetti sulla base della redditività, senza preoccuparsi se essi richiedano capitale umano o fisico. Se questo principio fosse applicato anche alle iniziative pubbliche di sostegno allo sviluppo, eliminando l’anacronistica e assurda distinzione tra costi di capitale e costi di gestione imposta dall’Ue, si potrebbe generare un forte stimolo agli investimenti in settori ad alta tecnologia e alla ricerca applicata. Ad esempio, per dare impulso alle biotecnologie è cruciale attirare i ricercatori di punta. E una volta che la ricerca abbia dato frutti, è indispensabile pagare coloro i quali la devono tradurre in applicazioni e successivamente coloro i quali ne prepareranno il lancio sul mercato e convinceranno i consumatori a comprarle. Sono tutte attività che richiedono competenze professionali molto specifiche e sofisticate, e, in proporzione, relativamente poco capitale fisico.
Su questa impostazione le politiche di sviluppo in Europa sono molto indietro. E indietro rimarranno finché prevarrà la visione ottocentesca di un modello di sviluppo basato sul capitale fisico anziché su quello umano. Peggio, si bruceranno inutilmente risorse, nel vano tentativo di competere oggi con le manifatture cinesi e domani con quelle africane.

 

   
   
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