Settembre 2007

Strategie di sviluppo

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Zone franche per il Sud
M.B. - D.M.B.  
 
 

 

 

Sta di fatto
che la “questione meridionale”
rimane tuttora più che mai aperta
e il dualismo si
è a mano a mano trasformato in un nodo strutturale persistente nel
nostro Paese.

 

Quindici “Zfu”, Zone franche urbane, da istituire nelle regioni del Sud; un credito d’imposta sulle nuove assunzioni a tempo indeterminato; detassazione per un quinquennio dei redditi d’impresa: questo progetto complessivo segna decisamente una cesura rispetto ai vecchi meccanismi d’incentivazione, a fondo perduto o con mutui agevolati, invalsi nel passato anche recente. Peraltro, la principale novità di un pacchetto di provvedimenti di questo tipo è tratta pari pari dall’esperienza francese, che dal 1997 in poi ha creato 85 Zone franche urbane in altrettanti centri che registravano una disoccupazione nettamente superiore rispetto alla media nazionale. E ciò, con il nulla osta da parte dell’Unione europea, altrimenti contraria ad aiuti di Stato distorsivi della concorrenza.
Ma in questo modo si riuscirà ad assecondare un processo di sviluppo autopropulsivo e un incremento dell’occupazione nelle regioni del nostro Mezzogiorno? Da più di mezzo secolo a questa parte, infatti, si è tentato di tutto per conseguire questo duplice obiettivo, e i risultati si sono rivelati ogni volta inferiori alle aspettative.
A non contare quanto si era già compiuto in passato, dato che nell’Italia liberale si erano impegnati a questo fine alcuni dei più insigni politici e intellettuali: da Giustino Fortunato ad Antonio De Viti De Marco, da Gaetano Salvemini a Francesco Saverio Nitti, da Luigi Sturzo a Guido Dorso, da Antonio Gramsci ad Alcide De Gasperi, a Domenico Menichella, a Vittore Fiore. Solo durante il Ventennio il problema del Sud era stato rimosso, sia per motivi di prestigio nazionale sia perché Mussolini intendeva risolverlo con la conquista coloniale di un “posto al sole” dove trasferire braccianti senza terra e manovali disoccupati.

Sta di fatto che la “questione meridionale” rimane tuttora più che mai aperta e il dualismo tra il Mezzogiorno e il Centro-Nord si è a mano a mano trasformato in un nodo strutturale persistente nel nostro Paese. Tant’è che si è diffuso il convincimento in larghi settori dell’opinione pubblica che non ci sia ormai più nulla da fare, e che per questo motivo non sia più il caso di interessarsi delle regioni del Sud.
Eppure, negli anni Settanta sembrava che ci si fosse messi sulla buona strada, se non per colmare del tutto il “fossato”, cioè le distanze tra i due territori della Penisola, almeno per ridurle in modo tale da raggiungere prima o poi la meta che si inseguiva dalla costituzione dell’Italia in uno Stato nazionale unitario: vale a dire l’unificazione economica dopo quella politica, per dirla con Pasquale Saraceno e la nuova pattuglia di meridionalisti attivi nelle file della Svimez e raccoltisi attorno alla rivista Nord e Sud di Francesco Compagna e di Manlio Rossi Doria.
In effetti, alcuni importanti mutamenti di scenario erano avvenuti nel corso degli anni, e ciò grazie ad alcune iniziative assunte, dapprima, dai Governi degasperiani di centro, e in seguito da quelli di centro-sinistra. La riforma agraria, sebbene si fosse praticamente risolta in una redistribuzione delle terre del latifondo in appezzamenti troppo minuti, e per di più privi di strade, di acqua, di energia rurale, aveva comunque incrinato il potere della vecchia oligarchia baronale parassitaria e di una borghesia redditiera e speculativa.
A sua volta, la Cassa per il Mezzogiorno, istituita in quello stesso anno su modelli americani del New Deal, aveva promosso una serie di bonifiche e di infrastrutture, quali requisiti di base per la nascita o il rafforzamento di attività produttive. Successivamente, sulla scia prima del Piano Vanoni e poi della “Nota Aggiuntiva” al Bilancio del 1962, stesa da Ugo La Malfa agli esordi della politica di programmazione, si era puntato sull’industrializzazione quale strategia preminente per lo sviluppo economico e sociale delle regioni meridionali. E ciò, mediante l’impianto di grandi complessi (in modo particolare nella siderurgia e nella chimica, oltre che in qualche settore manifatturiero), per opera soprattutto delle imprese a partecipazione statale.
Sennonché, proprio la svolta industrialista nella politica di intervento straordinario per il Sud, che avrebbe dovuto avviare una crescita in forze, insieme con la modernizzazione dell’economia locale, risultò tra gli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso in gran parte inefficace, e tale, anzi, da compromettere in alcuni casi gli sforzi sino allora compiuti e, in altri, il proseguimento dell’intervento speciale in favore del Mezzogiorno.
Beninteso: non è che si potesse far conto, per il riscatto del Sud, soltanto sul rilancio dell’agricoltura, sulla dotazione di capitale fisso e sulla diffusione dell’energia elettrica. Ma gli stabilimenti industriali promossi dalla mano pubblica non erano per lo più tali, per la loro tipologia, da assorbire consistenti nuclei di manodopera né da determinare la diffusione di attività complementari e quindi di piccole e medie imprese.
Tanto che essi finirono per apparire “cattedrali nel deserto”, quando non dei “cimiteri”, (dato che il fallito Quinto centro siderurgico di Gioia Tauro non fu l’unico caso del genere). In ultima analisi, l’edilizia, l’apparato statale e quello degli enti locali avevano infoltito, più di ogni altro settore, i loro effettivi.

D’altra parte, se i redditi e i consumi al Sud erano cresciuti, anche se non nelle stesse proporzioni di quelli del Centro e del Nord, lo si doveva più alle risorse distribuite dai rubinetti della spesa pubblica che a quelle prodotte dall’economia meridionale. Con l’andar del tempo la politica per il Mezzogiorno si era tradotta infatti in una serie di misure in prevalenza di tipo erogatorio, con flussi di denaro a pioggia ripartiti di volta in volta a seconda delle capacità di pressione sui palazzi romani esercitate da notabili politici, da consorterie municipali, da gruppi d’interesse e da organizzazioni sindacali.
Di fatto, la spesa destinata agli investimenti di tipo produttivo costituì anche negli anni successivi una quota sempre più marginale sul totale della spesa ordinaria e straordinaria per il Mezzogiorno, nell’ambito della quale cresceva invece quella destinata, oltre ai fini di ammortizzazione sociale, ad alimentare il clientelismo elettorale e certe rendite di posizione, quando a non finire preda del malaffare.
Il modo con cui vennero gestiti gli stanziamenti per la ricostruzione dell’Irpinia, devastata dal terremoto del 1980, segnò il punto più basso dell’intervento pubblico nel Sud, e portò a un ripensamento della politica meridionalistica, la cui impostazione concettuale aveva risentito sino ad allora della vecchia querelle sulla “colonizzazione” nordista del Sud e sulle inadempienze del Governo centrale, che avevano finito col perpetuare in gran parte delle classi dirigenti del Mezzogiorno un atteggiamento vittimistico e rivendicativo, controproducente agli effetti della creazione di un ambiente sociale e di una cultura civica favorevoli a un cambiamento di mentalità e alla responsabilizzazione delle istituzioni locali.
Dall’uscita di scena nel 1992 dell’Agensud, vale a dire di quel che ancora restava della Cassa per il Mezzogiorno (abolita otto anni prima), sensibili progressi si sono verificati nel Meridione, grazie soprattutto all’espansione di varie iniziative imprenditoriali private e alla creazione di alcuni distretti industriali. E ciò ha fatto del Mezzogiorno una realtà più articolata e differenziata al suo interno, con diverse aree emergenti. È pur vero tuttavia che l’intero Meridione produce meno del valore aggiunto della Lombardia e del Veneto, che il suo contributo al nostro interscambio non supera il 12 per cento, e che tutte le province meridionali occupano costantemente gli ultimi posti della classifica nella graduatoria del reddito nazionale.
Perciò il divario tra il Sud e il resto della Penisola è rimasto un tratto distintivo permanente del sistema italiano. E se tale frattura può risultare meno accentuata di quanto ci dica la contabilità ufficiale, data la maggiore presenza del sommerso nelle regioni meridionali, è anche vero che questo fenomeno, in quanto include (oltre al lavoro nero e all’evasione fiscale) anche attività connesse ai vari cartelli del crimine, riflette una realtà in cui trovano pur sempre forti difficoltà a crescere sia le imprese sane e competitive sia gli investimenti esteri.

 

   
   
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