Sta di fatto
che la questione meridionale
rimane tuttora più che mai aperta
e il dualismo si
è a mano a mano trasformato in un nodo strutturale persistente
nel
nostro Paese.
|
|
Quindici Zfu, Zone franche urbane, da istituire nelle
regioni del Sud; un credito dimposta sulle nuove assunzioni
a tempo indeterminato; detassazione per un quinquennio dei redditi
dimpresa: questo progetto complessivo segna decisamente una
cesura rispetto ai vecchi meccanismi dincentivazione, a fondo
perduto o con mutui agevolati, invalsi nel passato anche recente.
Peraltro, la principale novità di un pacchetto di provvedimenti
di questo tipo è tratta pari pari dallesperienza francese,
che dal 1997 in poi ha creato 85 Zone franche urbane in altrettanti
centri che registravano una disoccupazione nettamente superiore
rispetto alla media nazionale. E ciò, con il nulla osta da
parte dellUnione europea, altrimenti contraria ad aiuti di
Stato distorsivi della concorrenza.
Ma in questo modo si riuscirà ad assecondare un processo
di sviluppo autopropulsivo e un incremento delloccupazione
nelle regioni del nostro Mezzogiorno? Da più di mezzo secolo
a questa parte, infatti, si è tentato di tutto per conseguire
questo duplice obiettivo, e i risultati si sono rivelati ogni volta
inferiori alle aspettative.
A non contare quanto si era già compiuto in passato, dato
che nellItalia liberale si erano impegnati a questo fine alcuni
dei più insigni politici e intellettuali: da Giustino Fortunato
ad Antonio De Viti De Marco, da Gaetano Salvemini a Francesco Saverio
Nitti, da Luigi Sturzo a Guido Dorso, da Antonio Gramsci ad Alcide
De Gasperi, a Domenico Menichella, a Vittore Fiore. Solo durante
il Ventennio il problema del Sud era stato rimosso, sia per motivi
di prestigio nazionale sia perché Mussolini intendeva risolverlo
con la conquista coloniale di un posto al sole dove
trasferire braccianti senza terra e manovali disoccupati.

Sta di fatto che la questione meridionale rimane tuttora
più che mai aperta e il dualismo tra il Mezzogiorno e il
Centro-Nord si è a mano a mano trasformato in un nodo strutturale
persistente nel nostro Paese. Tantè che si è
diffuso il convincimento in larghi settori dellopinione pubblica
che non ci sia ormai più nulla da fare, e che per questo
motivo non sia più il caso di interessarsi delle regioni
del Sud.
Eppure, negli anni Settanta sembrava che ci si fosse messi sulla
buona strada, se non per colmare del tutto il fossato,
cioè le distanze tra i due territori della Penisola, almeno
per ridurle in modo tale da raggiungere prima o poi la meta che
si inseguiva dalla costituzione dellItalia in uno Stato nazionale
unitario: vale a dire lunificazione economica dopo quella
politica, per dirla con Pasquale Saraceno e la nuova pattuglia di
meridionalisti attivi nelle file della Svimez e raccoltisi attorno
alla rivista Nord e Sud di Francesco Compagna e di Manlio Rossi
Doria.
In effetti, alcuni importanti mutamenti di scenario erano avvenuti
nel corso degli anni, e ciò grazie ad alcune iniziative assunte,
dapprima, dai Governi degasperiani di centro, e in seguito da quelli
di centro-sinistra. La riforma agraria, sebbene si fosse praticamente
risolta in una redistribuzione delle terre del latifondo in appezzamenti
troppo minuti, e per di più privi di strade, di acqua, di
energia rurale, aveva comunque incrinato il potere della vecchia
oligarchia baronale parassitaria e di una borghesia redditiera e
speculativa.
A sua volta, la Cassa per il Mezzogiorno, istituita in quello stesso
anno su modelli americani del New Deal, aveva promosso una serie
di bonifiche e di infrastrutture, quali requisiti di base per la
nascita o il rafforzamento di attività produttive. Successivamente,
sulla scia prima del Piano Vanoni e poi della Nota Aggiuntiva
al Bilancio del 1962, stesa da Ugo La Malfa agli esordi della politica
di programmazione, si era puntato sullindustrializzazione
quale strategia preminente per lo sviluppo economico e sociale delle
regioni meridionali. E ciò, mediante limpianto di grandi
complessi (in modo particolare nella siderurgia e nella chimica,
oltre che in qualche settore manifatturiero), per opera soprattutto
delle imprese a partecipazione statale.
Sennonché, proprio la svolta industrialista nella politica
di intervento straordinario per il Sud, che avrebbe dovuto avviare
una crescita in forze, insieme con la modernizzazione delleconomia
locale, risultò tra gli anni Settanta e Ottanta del secolo
scorso in gran parte inefficace, e tale, anzi, da compromettere
in alcuni casi gli sforzi sino allora compiuti e, in altri, il proseguimento
dellintervento speciale in favore del Mezzogiorno.
Beninteso: non è che si potesse far conto, per il riscatto
del Sud, soltanto sul rilancio dellagricoltura, sulla dotazione
di capitale fisso e sulla diffusione dellenergia elettrica.
Ma gli stabilimenti industriali promossi dalla mano pubblica non
erano per lo più tali, per la loro tipologia, da assorbire
consistenti nuclei di manodopera né da determinare la diffusione
di attività complementari e quindi di piccole e medie imprese.
Tanto che essi finirono per apparire cattedrali nel deserto,
quando non dei cimiteri, (dato che il fallito Quinto
centro siderurgico di Gioia Tauro non fu lunico caso del genere).
In ultima analisi, ledilizia, lapparato statale e quello
degli enti locali avevano infoltito, più di ogni altro settore,
i loro effettivi.

Daltra parte, se i redditi e i consumi al Sud erano cresciuti,
anche se non nelle stesse proporzioni di quelli del Centro e del
Nord, lo si doveva più alle risorse distribuite dai rubinetti
della spesa pubblica che a quelle prodotte dalleconomia meridionale.
Con landar del tempo la politica per il Mezzogiorno si era
tradotta infatti in una serie di misure in prevalenza di tipo erogatorio,
con flussi di denaro a pioggia ripartiti di volta in volta a seconda
delle capacità di pressione sui palazzi romani esercitate
da notabili politici, da consorterie municipali, da gruppi dinteresse
e da organizzazioni sindacali.
Di fatto, la spesa destinata agli investimenti di tipo produttivo
costituì anche negli anni successivi una quota sempre più
marginale sul totale della spesa ordinaria e straordinaria per il
Mezzogiorno, nellambito della quale cresceva invece quella
destinata, oltre ai fini di ammortizzazione sociale, ad alimentare
il clientelismo elettorale e certe rendite di posizione, quando
a non finire preda del malaffare.
Il modo con cui vennero gestiti gli stanziamenti per la ricostruzione
dellIrpinia, devastata dal terremoto del 1980, segnò
il punto più basso dellintervento pubblico nel Sud,
e portò a un ripensamento della politica meridionalistica,
la cui impostazione concettuale aveva risentito sino ad allora della
vecchia querelle sulla colonizzazione nordista del Sud
e sulle inadempienze del Governo centrale, che avevano finito col
perpetuare in gran parte delle classi dirigenti del Mezzogiorno
un atteggiamento vittimistico e rivendicativo, controproducente
agli effetti della creazione di un ambiente sociale e di una cultura
civica favorevoli a un cambiamento di mentalità e alla responsabilizzazione
delle istituzioni locali.
Dalluscita di scena nel 1992 dellAgensud, vale a dire
di quel che ancora restava della Cassa per il Mezzogiorno (abolita
otto anni prima), sensibili progressi si sono verificati nel Meridione,
grazie soprattutto allespansione di varie iniziative imprenditoriali
private e alla creazione di alcuni distretti industriali. E ciò
ha fatto del Mezzogiorno una realtà più articolata
e differenziata al suo interno, con diverse aree emergenti. È
pur vero tuttavia che lintero Meridione produce meno del valore
aggiunto della Lombardia e del Veneto, che il suo contributo al
nostro interscambio non supera il 12 per cento, e che tutte le province
meridionali occupano costantemente gli ultimi posti della classifica
nella graduatoria del reddito nazionale.
Perciò il divario tra il Sud e il resto della Penisola è
rimasto un tratto distintivo permanente del sistema italiano. E
se tale frattura può risultare meno accentuata di quanto
ci dica la contabilità ufficiale, data la maggiore presenza
del sommerso nelle regioni meridionali, è anche vero che
questo fenomeno, in quanto include (oltre al lavoro nero e allevasione
fiscale) anche attività connesse ai vari cartelli del crimine,
riflette una realtà in cui trovano pur sempre forti difficoltà
a crescere sia le imprese sane e competitive sia gli investimenti
esteri.
|