Settembre 2007

L’inchiesta / 1

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Ripartono i treni
della speranza
Monica Marano - Lelio Martinelli
 
 

 

 

 

 

 

Il pericolo è che
il nostro Sud entri in una condizione di cronica
sopravvivenza
vegetativa, senza alcun orizzonte
di crescita di lungo periodo.

 

Partiamo da una serie di dati. Quelli dell’Istat sulla demografia del nostro Paese. Alla fine del 2006, gli italiani erano 59 milioni 131.287, e precisamente 28 milioni 718.441 maschi e 30 milioni 412.846 femmine: 379.576 unità in più, pari allo 0,6 per cento, rispetto alla fine dell’anno precedente. Gli stranieri presenti in Italia erano pari al 5 per cento della popolazione, con presenza preponderante nel Nord e nel Centro. Complessivamente, i nuclei familiari erano 23.900 (2,5 il numero medio dei componenti). Incremento delle nascite nel Nord e al Centro, decremento al Sud (-0,9 per cento) e nelle Isole (-1,3 per cento). Abitanti del Belpaese così distribuiti: 18,9 per cento nel Nord-Est, 26,4 per cento nel Nord-ovest, 19,5 per cento nel Centro, 23,8 per cento nel Sud, 11,3 per cento nelle Isole.
Questa, la radiografia demografica presentata dall’Istituto centrale di Statistica. E da una parte delle cifre (quelle del Sud e delle Isole, dove è presente esattamente il 35,1 per cento degli italiani) è emerso il dato drammatico della condizione socio-economica del Mezzogiorno: un milione e mezzo di persone hanno abbandonato le regioni meridionali e si sono spostate nelle aree del Centro-Nord, (si calcola che i pugliesi che hanno fatto le valigie e si sono trasferiti siano circa 150 mila).
Non più scatole di cartone, non più viveri di sopravvivenza insaccati nei borsoni di juta, non più straccioni analfabeti all’avventura in lande sconosciute. Da almeno quattro anni a questa parte lasciano il Sud giovani con diploma e con laurea: non si tratta più di perdita di rozzi fasci muscolari alla ricerca di un lavoro qualsiasi, che garantisca un salario minimo ma comunque vitale; vanno via forze vive, cervelli, elementi intellettuali di prim’ordine, che l’economia e la politica economica italiana escludono dai circuiti produttivi con una pervicacia che ha storicamente spaccato un Paese indegno degli uomini che ha.

Sono i figli e i nipoti di coloro che emigrarono alla fine dell’Ottocento, poi alla fine del secondo conflitto mondiale, poi al tramonto del boom, convinti di essere protagonisti di un progetto (non calcolato, ma istintivamente percepito) di miglioramento delle condizioni di vita delle generazioni future, eradicate dalla campagna, dalla fame e dalla sete, dall’indigenza, dalla malattia, dall’analfabetismo, nel nome di una dignità che deve permeare di sé ogni uomo e ogni donna che vogliano definirsi veramente liberi.
Sono i discendenti di coloro che diedero l’opportunità di realizzare tanti sogni, primo fra tutti quel “miracolo a Milano”, raccontato splendidamente nel film di Vittorio De Sica, che consentì ai padroni e agli operai delle fabbriche del Nord di venir fuori dalle macerie del conflitto planetario e di rimettere in moto l’economia dell’Italia; e poi del sogno del decollo, del boom, dell’altrettanto celebre “miracolo economico”, appunto, quello che fruttò il Premio Oscar alla lira, e che fu dovuto allo sviluppo simultaneo delle produzioni, dei consumi interni e delle esportazioni grazie al lavoro a basso costo dei meridionali immigrati a Torino, a Milano, e ovunque nel Nord si alzassero ciminiere, altiforni, capannoni, casematte, serre, e quant’altro prospettasse un impiego, una collaborazione, un lavoro giornaliero. Nacquero baracche e quartieri-ghetto, del tutto simili a quelli messi su dai meridionali in Svizzera, in Germania occidentale, in Francia, in Belgio e al di là dell’Atlantico.

Era un’ammuina di dialetti del Nord, ma soprattutto del Sud, al Lingotto, a Mirafiori, alla Marzotto,alla Bicocca, alla Riello, per citare solo alcuni “cantieri nobili” dell’Italia opulenta: poche le parole spese mentre si lavorava a testa bassa, per potersi dire – di ritorno per le ferie al Sud – operai a testa alta; poche, perché si riteneva che chi spendeva troppe parole poteva confondere le idee e mandare tutto in baracca.

Era un’altra Italia. Erano altri uomini, altri imprenditori, altri operai, altri capitani d’industria e di ventura con la passione del rischio, con l’orgoglio della creatività. Guardata a bruciapelo, quell’Italia dista anni luce da quella dei personaggi che la popolano oggi. Quella era la storia dei Pirelli, dal viaggio americano di Alberto, nel 1905, («Costruire dei bei saloni grandi e non dei bugigattoli»), e l’impresa della Bicocca nel 1906, fino alla città di servizi di oggi; la storia delle donne contadine trasformate in operaie e messe sotto la stretta sorveglianza delle suore di carità; la storia di tre generazioni di Falck, custodita ancora oggi a Sesto San Giovanni, l’ex Stalingrado (politicamente parlando) italiana; la storia della Piaggio, bombardata a più riprese, e sempre ricostruita, che contava su un uomo di genio, l’ingegner Corradino D’Ascanio, che aveva fatto volare il primo elicottero e che detestava le motociclette, ma – messo lì a disegnarne una – si sentì chiedere da Enrico Piaggio: – Ma come farà a reggere due persone, con quel vitino da vespa? –, ed ecco pronti scooter e nome, e una fama planetaria intramontabile, che ha fatto vendere nel 2006 sedici milioni di Vespe in tutto il mondo, India e Cina comprese; storia di Pininfarina, che non era nessuno quando rifiutò l’offerta di Henry Ford, e che era appena qualcuno (ma non più di tanto) quando declinò l’invito della General Motors: sapeva che le auto che disegnava erano le più belle del mondo; storia di un ingegnere napoletano, Romeo, il quale, trasferitosi a Milano, creò un’impresa automobilistica, l’Alfa Romeo, appunto, che portò Ford a dire: «Quando passa una di queste vetture, toglietevi il cappello»; la storia dei Barilla, che prima vendono agli americani, poi ricomprano per passione; la storia dei Fabbri, casa e bottega, amarene e brandy, che nei loro indimenticati caroselli potevano permettersi il lusso e l’onore di filmare tele originali di Cagli, di Guttuso, di Caporossi; la storia di Gaetano Marzotto, di Valdagno, che si considerava a tutti gli effetti un “signorotto feudale”, (comprò, fra l’altro, terreni a prezzo vile a Maratea, e ne fece il primo polo di sviluppo turistico con un tessuto diffuso di villette unifamiliari con il lucano Tirreno a vista), e che comunque realizzò un sistema di «ospedali, asili, orfanotrofi, case di riposo, scuole, alberghi, teatri e biblioteche» (come recensì Guido Piovene) che entusiasmò un osso duro come Giuseppe Di Vittorio, anche se tutto questo non impedì ai sessantottini imbecilli di buttarne giù statua e mito; la storia di un banconiere che crea la Grapperia Nardini, del figlio di un bracciante di Albacina che fonda la dinastia dei Merloni, del figlio del capomastro di Gambettola che si inventa la Technogym e conquista le palestre di tutto il mondo, di sei amici che si incontrano per “farsi un’ombra” in un bar di Udine e finiscono per metter su l’Eurotech di Amaro, all’avanguardia nel mondo delle alte tecnologie… Tute blu del Nord e del Sud, e i primi “colletti bianchi”, e poi le prime “fabbriche senza ciminiere”: il “miracolo a Milano” continua, sembra non debba finire mai.
E invece una classe politica imprevidente e soprattutto le centrali sindacali schierate esclusivamente sul versante delle rivendicazioni salariali, prive di un autentico progetto di sviluppo complessivo, e per di più tarate dalla presenza, al loro interno, di elementi votati al terrorismo e di gruppi ad esso contigui, riuscirono a stravolgere tutto. Cominciò da lì, tra la fine degli anni Sessanta e l’intero arco dei Settanta, il lungo declino del Paese. Tramontò in quell’arco di tempo, e si rivelò irripetibile, il miracolo. Ultimo miraggio per il riscatto del Sud, gli ingannevoli anni Ottanta, le false promesse della “soluzione europea” della questione meridionale, i bilanci passivi del secolo-millennio appena scollinato. Il resto è storia dei nostri giorni.
È stato scritto che è innegabile che la crescita italiana sia oggi tra le più lente d’Europa, fatto non dovuto a una presunta bassa competitività del nostro sistema industriale, come provano i 92 miliardi di euro di surplus commerciale record nel 2006 dei prodotti delle “Quattro A” del made in Italy: Abbigliamento-moda, Arredo-casa, Apparecchi-meccanica, Alimentari-vini. Dovuto, invece, ad altre ragioni, tra le quali i ritardi e i vincoli del sistema-Paese, la bassa performance del terziario, il poderoso effetto depressivo sui consumi provocato dall’introduzione dell’euro, o meglio, dal cambio immaginario “1 euro = 1.000 lire” a livello dei prezzi di molti beni e servizi, la caduta dei rendimenti dei titoli pubblici che ha inaridito un’importante fonte di entrate delle famiglie.

A questi fattori si aggiungono gli squilibri territoriali, che stanno assumendo connotazioni sempre più preoccupanti. Al punto che nei prossimi anni la principale causa della debole dinamica italiana potrà essere rappresentata proprio dal sempre più ampio divario tra Nord-Centro e Sud. Con una cospicua fetta del Paese (il Mezzogiorno che fatica a crescere), sembra persino incredibile il fatto che finora il differenziale tra il reddito pro capite italiano e quello degli altri maggiori Paesi europei sia rimasto contenuto. Secondo Eurostat, nel 2004, cioè in piena recessione, il Pil pro capite italiano a parità di potere d’acquisto (23.095 euro) era solo del 7,3 per cento inferiore a quello della Germania (24.903) e del 4,3 per cento più basso di quello della Francia (24.146 euro). Solo quello inglese era significativamente più elevato (26.455 euro) di quello italiano, ma lo era anche rispetto a quello tedesco e francese. Quello della Spagna, Paese preso spesso come modello, era invece ancora pari al 93,7 per cento di quello italiano.

Tuttavia, il crescente divario Nord-Centro/Mezzogiorno rischia di allontanarci in prospettiva dalla ricchezza media dell’Europa più avanzata. Non solo perché il Sud, con una popolazione pari al 35 per cento di quella italiana, nel periodo 2000-2005 ha dato un contributo in termini assoluti alla crescita del Pil nazionale equivalente, per fare un esempio, solo ai due terzi di quello del Nord-Ovest (la cui popolazione è di poco superiore al 26 per cento di quella del Paese). E non solo perché il Sud nel 2006 ha visto il suo contributo alla crescita del Pil italiano ridursi addirittura alla metà di quello dato dal Nord-Ovest. Ma anche perché i livelli del Pil pro capite del Sud e delle Isole continuano ad essere tra i più bassi dell’Europa occidentale. E purtroppo rischiano di rimanere tali, perché oggi con i vincoli di Maastricht non c’è più spazio per sostenere la crescita delle regioni meridionali con incrementi della spesa pubblica, come in passato. Il pericolo, dunque, è che il nostro Sud entri in una condizione di cronica sopravvivenza vegetativa, senza alcun orizzonte di crescita di lungo periodo. Mentre solo il Nord-Centro può collocarsi a pieno titolo tra le aree più ricche e dinamiche del Vecchio Continente.
Significativo è il quadro che emerge dai dati comparati dei Pil delle regioni europee resi noti da Eurostat. L’Italia, tra i cinque maggiori Paesi europei, grazie al Nord-Centro è quello con la più rilevante popolazione regionale capace di un Pil pro capite di un 25 per cento superiore alla media dell’Ue a 27: nel 2004 erano ben 24,4 milioni gli italiani che si collocavano in questa fascia di reddito, poco più dei tedeschi, il doppio degli inglesi e dei francesi, e tre volte più degli spagnoli.
In altri termini, l’Italia presenta in Europa la popolazione più numerosa a disporre di una significativa ricchezza diffusa. Le regioni italiane con un Pil pro capite superiore del 25 per cento alla media Ue-27 erano la Valle d’Aosta, la Lombardia, Trento-Bolzano, il Veneto, l’Emilia-Romagna, il Lazio, il Piemonte, il Friuli-Venezia Giulia e la Toscana: insomma, l’Italia piagnona che reclama incentivi se non piove, incentivi se piove, incentivi se il Po è in piena o se rimane a secco, incentivi se il livello dei laghi si innalza o si abbassa, e via frignando, purché i soldi pubblici finiscano nelle solite tasche del Nord che produce e che lavora, ma che divora – come si dice dalle nostre parti – Roma, Stoma e la Basilicata.
Tenendo conto della diversa popolosità dei Paesi, fra l’altro, il dato italiano appare ancora più eclatante: infatti, ben il 42 per cento degli italiani ha un reddito del 25 per cento superiore alla media europea, contro il solo 29 per cento dei tedeschi, il 24 per cento degli inglesi, il 20 per cento degli spagnoli e il 18 per cento dei francesi. Poi c’è l’altra faccia della medaglia: l’Italia presenta quattro fra le più popolose regioni del Sud (Campania, Puglia, Calabria e Sicilia) con un Pil pro capite del 25 per cento inferiore alla media Ue, per un totale di 16,8 milioni di abitanti (il 29 per cento della popolazione nazionale) in questa fascia di reddito, mentre persino un Paese a sviluppo più tardivo come la Spagna ha solo il 3 per cento degli abitanti (poco più di un milione di persone che vive sotto il livello del 75 per cento del Pil medio europeo.
La bassa performance italiana non può essere compresa se non si considerano gli effetti attuali e potenziali del divario tra Nord-Centro e Sud. Gli altri Paesi europei, infatti, non presentano casi di gravità analoga: oggi la crescita del Pil italiano in valore assoluto è generata per oltre l’82 per cento dal Nord-Centro; il contributo del Sud non arriva al 18 per cento, mentre le regioni meridionali accolgono oltre un terzo della popolazione totale.
Questi dati, pur ipotizzando che sottovalutino ancora in buona quota la reale entità del sommerso nel Mezzogiorno, evidenziano uno squilibrio territoriale sempre più cronico, che nasce da differenti modelli di sviluppo: nel Sud il reddito è prodotto in minima parte dal manifatturiero (dopo i fallimenti dell’industrializzazione pubblica), e lo sviluppo dell’impresa familiare è frenato da fattori ambientali, come la criminalità organizzata.
Nonostante il positivo apporto di alcuni distretti industriali e aree territoriali di piccola e media impresa (specie nell’Abruzzo, nel Molise, in Puglia e in Basilicata), nel Mezzogiorno il valore aggiunto del manifatturiero è ancora relativamente limitato: rappresenta solo il 6,4 per cento del valore aggiunto totale in Calabria, l’8,7 per cento in Campania e il 10,7 per cento in Sicilia; mentre è il 26,9 per cento in Lombardia, il 26,1 in Veneto, il 25,8 in Emilia-Romagna, il 26,0 nelle Marche. Per contro, la produzione di reddito è affidata nel Sud in gran parte all’amministrazione pubblica, all’istruzione, alla sanità e agli altri servizi pubblici, che spesso puntano più al mantenimento di posti di lavoro e alla produzione di salari che non a quella dei servizi stessi e alla loro qualità. Così la quota del settore dei servizi pubblici sul valore aggiunto totale è il 32,3 per cento in Sicilia, il 31,4 in Calabria, il 28,4 in Campania, contro valori assai più bassi nel Nord-Centro: solo il 13,8 per cento in Lombardia, il 14,7 nel Veneto, il 15,9 nell’Emilia-Romagna, il 19,0 nelle Marche.
Nel Nord-Centro il modello di sviluppo è quindi affidato all’industria manifatturiera e all’export, con il sostegno di un buon apparato di servizi privati e pubblici. Ed è un modello rafforzato dalla costante apertura alla competizione mondiale. Nel Sud invece ci sono poca industria, pochissimo export, un turismo ancora non pienamente sviluppato, sicché molta parte del Pil è mero trasferimento di redditi attivati dall’amministrazione pubblica, appena sufficienti per mantenere in essere uno standard minimo di consumi delle famiglie.
Diciamolo chiaramente: l’Italia cresce poco non perché abbia uno scarso terziario, ma perché il suo terziario in generale è fatto di troppa burocrazia, di clientelismo-assistenzialismo e di sprechi, soprattutto al Sud. L’Italia cresce poco non perché sia troppo manifatturiera, come alcuni lamentano, ma al contrario, perché in gran parte del Sud, se si eccettua la dorsale del nostro splendido Meridione, solo l’agricoltura di qualità e alcuni comparti dell’industria alimentare hanno tassi di crescita apprezzabili.
I dati provinciali sull’export manifatturiero, che rappresentano un indicatore di apertura alla competizione internazionale, mostrano in modo impietoso la bassa propensione del Mezzogiorno ad operare nell’impresa industriale: nel 2006 l’export per abitante delle province di Reggio Emilia, Modena e Vicenza è stato di oltre 14 mila euro, e quello di Novara, Mantova, Bergamo, Belluno e Pordenone ha superato gli 11 mila, mentre a Cosenza è stato di soli 41 euro. In ben 20 province del Sud, tra cui tutta la Calabria e quasi l’intera Sicilia, l’export manifatturiero pro capite è stato inferiore ai 1.000 euro, e in 14 di esse non ha raggiunto neanche i 500 euro.
Anche nel turismo il divario tra le due Italie assume talvolta dimensioni eclatanti: nella provincia di Bolzano il settore ha un tale impatto, che è come se ogni famiglia di quattro persone avesse per sette mesi e mezzo all’anno come ospite in casa un turista pagante, mentre nella provincia di Agrigento, dove pure sorge la magnifica Valle dei Templi, ciascuna famiglia “ospita” virtualmente un turista per una sola settimana all’anno.
Evidenziare questi dati non significa in alcun modo evocare divisioni o, peggio ancora, secessioni, né sentimenti antimeridionalisti, che lasciamo ai deboli di cultura e di mente, perché l’Italia è una sola e soltanto unita può stare in Europa. Ma è fondamentale prendere atto che senza una politica di rilancio della creazione del valore aggiunto nel Mezzogiorno, e possibilmente di un valore aggiunto di qualità e non solo costituito da trasferimenti, la prospettiva per il Paese è quella di rimanere condannato a una debole crescita nei prossimi anni.
A questo preludono le immagini dei meridionali che riprendono i dannati “treni della speranza”, con un salto all’indietro di oltre mezzo secolo, come se la Storia avesse avuto una parentesi occasionale, fulminea, e avesse poi ripreso il suo cammino senza soluzione di continuità. Come se nel frattempo nulla sia accaduto. O come se nulla possa accadere, perché così è stato deciso nei palazzi imperforabili nei quali il potere è autentico potere, le strategie sono per la vita o per la morte, le decisioni debbono sembrare per tutti imperscrutabili enigmi, l’obbedienza degli esecutori degli ordini deve essere cieca, gli esiti non possono deragliare dai progetti preordinati.
(Ci chiediamo, a latere, che cosa abbia voluto dire il nuovo capo della Polizia, visti le perplessità, i commenti a mezza bocca, i roboanti silenzi di tanti addetti ai lavori pubblici, cioè politici. Parlando ai componenti della Commissione Affari Costituzionali del Senato, il dottor Antonio Manganelli ha sentenziato: «Il Nord è la nostra priorità». Poi ha spiegato che gli autori di reati di criminalità diffusa, nelle regioni settentrionali, sono tra il 50 e il 60 per cento immigrati clandestini. Da qui l’insicurezza, la paura, e persino l’istinto a forme di ribellione fai-da-te da parte dei cittadini.
Che gli immigrati clandestini – e non solo costoro – creino problemi di ordine pubblico, che i cittadini delle regioni del Nord siano molto sensibili al tema della sicurezza, che non si possano più tollerare “zone franche” con alte concentrazioni di intere comunità padrone del territorio, che insomma ci sia anche una questione settentrionale in materia di legalità, è innegabile. Ma preoccupa decisamente il fatto che il capo della Polizia (italiana, e non padana), nel suo primo intervento con le nuove funzioni, abbia ritenuto di dover retrocedere la vera emergenza criminalità della Penisola. E preoccupano altrettanto decisamente il fatto che almeno quattro regioni siano sempre e comunque sotto il controllo dei clan dei cartelli del crimine e costringano lo Stato a giocare partite di rimessa, che in gran parte sono perse ogni giorno ai punti; il fatto che a Napoli come in Sicilia, dopo la cattura di alcuni “capi storici” delle mafie, si siano scatenate guerre per bande per il controllo “militare” del territorio, con decine di morti ammazzati; e ancora il fatto che, senza la garanzia della legalità, nel Sud non ci saranno mai né sicurezza né sviluppo, e la stessa convivenza civile resterà a rischio.
È fuor di dubbio che Manganelli non abbia parlato a caso. È un uomo del Sud, che ha lavorato in prima linea a Napoli e a Palermo. Dunque, il suo è stato un discorso tutto politico, ammiccante al Nord e al ceto politico di quella parte del Paese, piuttosto che rivolto ai tanti agenti di polizia impegnati sul fronte del Sud. Scelta inopportuna, per lo meno, e quanto mai pericolosa, perché, come è stato sottolineato, se anche i funzionari dello Stato, ai massimi livelli, parlano sulla base di una convenienza politica, allora non deve sorprendere la sfiducia nelle istituzioni che i sondaggi continuano a mettere in risalto. Al Nord come al Sud. Molto probabilmente più al Sud che al Nord).

 

   
   
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