Settembre 2007

 

Indietro
Il mito
controverso
Aldo Bello
 
 

 

 

 

 

Forse ci volevano il Rinascimento e la riscoperta del valore della mente umana per rendere possibile la
rivoluzione di idee che culminò nella sintesi di Newton.

 

Questo è l’Ordine del giorno che Garibaldi fece diffondere il 16 maggio 1860, dopo la battaglia di Calatafimi. La marcia dell’Eroe dei Due Mondi in Sicilia è trionfale. E il suo mito cresce ad ogni miglio percorso. Un mito che non è mai tramontato, se ancora oggi dà il nome a tre città, in Brasile, in Argentina e nell’Oregon (Usa), a una montagna canadese, a più di 5.500 piazze e strade italiane, persino a un trofeo italo-francese di rugby; e se il “New Yorker” dedica al bicentenario della sua nascita ben sei pagine, a Washington lo si è celebrato il 3 luglio, vigilia della Festa dell’Indipendenza americana, con migliaia di italo-americani presenti, con i politici italiani scorrettamente assenti.
Gli studiosi e gli ideologi potranno dividersi per secoli sulle vite e sui veri ruoli dei protagonisti della Storia: ciò vale per Lincoln e per Cavour, per Jefferson e per il Nizzardo. Ma quel che insegna la notte di festa sotto la statua dell’eroe italiano che campeggia a Washington Square, nel cuore del Greenwich Village, è che una nazione ha bisogno, appunto, di miti. Negli Stati Uniti, gli eroi con la visione rivoluzionaria che scrissero la Costituzione e cacciarono gli inglesi si chiamano tutti Padri Fondatori, anche quelli che possedevano gli schiavi. Il loro nome è un patrimonio che ispira tutti i cittadini americani ancora oggi, e che ha fatto dell’ultima nata tra le nazioni la democrazia più antica e di maggior successo.

Ora, al modo di Voltaire, Garibaldi – massone come il filosofo, e come lui nemico acerrimo della Chiesa cattolica – era coinvolto in una redditizia attività economica: la tratta degli schiavi. In America Latina i furti di cavalli gli avevano procurato il taglio dei padiglioni auricolari. Lungo la rotta da Callao – Perù – a Canton, trasportava e vendeva guano, riportando indietro cinesi «tutti grassi e in buona salute» da smerciare sul mercato dei fazenderos. Fu questo il personaggio che, già celebrato per le vittorie riportate in patria e fuori contro gli oppressori d’ogni genere, il 5 maggio 1860 con i Mille (1.089, in realtà) mosse dallo scoglio di Quarto alla volta della Sicilia, protetto dagli inglesi del primo ministro Palmerston, senza il cui aiuto – ammette Garibaldi – «Napoli sarebbe ancora borbonica», e dall’ammiraglio britannico Mundy, senza la cui copertura navale i garibaldini non avrebbero potuto mai varcare lo Stretto di Messina.
Chi erano i Mille? Garibaldi li descrive così: «Tutti generalmente di origine pessima e per lo più ladra; e tranne poche eccezioni con radici genealogiche nel letamaio della violenza e del delitto».
Che immagine di sé lascia il Generale dopo l’impresa che in pochi mesi, tra il maggio e l’autunno del 1860, include il Sud d’Italia nel Regno d’Italia in fieri? Scrive il frammassone Pietro Borrelli, firmandosi “Flaminio”, sulla “Deutsche Rundschau” dell’ottobre 1882: «Non si deve lasciar credere in Europa che l’unità italiana, per realizzarsi, avea bisogno d’una nullità intellettuale come Garibaldi. Gli iniziati sanno che tutta la rivoluzione di Sicilia fu fatta da Cavour, i cui emissari militari, vestiti da merciaiuoli girovaghi, percorrevano l’isola e compravano a prezzo d’oro le persone più influenti».

Ebbe un qualche fondamento, allora, il mito? Intanto, oltre alle glorie colte al di là e al di qua dell’Atlantico, Garibaldi fu, dopo tutto, se non il regista dell’elevazione a potenza politica dell’Italia, perlomeno l’artefice di una liaison importante: quella tra le due parti più antagoniste e lontane del nostro Paese. Egli riuscì in un’impresa che aveva del miracoloso: la scommessa fu di far convivere, se non in un comune disegno, almeno in una lunghissima tregua d’armi, monarchici e repubblicani, moderati ed estremisti, conservatori e rivoluzionari. Ecco un aspetto che la storiografia italiana ha costantemente messo in ombra, o ha rimosso, o infine ha preferito far finta di non intravedere: Garibaldi è tutto dentro il ruolo, che è esclusivamente suo, su quel crinale tempestoso che adombra, ad ogni tappa significativa della nostra storia risorgimentale, il presagio di una guerra civile sempre prossima a conflagrare. Questo elemento altamente drammatico, che costituisce la filigrana più rilevante e più scomoda del nostro Risorgimento, per carsici percorsi è giunto fin dentro l’intero nostro Novecento.
In questo senso, Garibaldi è Eroe dei Due Mondi non solo nel senso delle due rive dell’Atlantico, ma in quello delle conflittualità dentro casa nostra. Egli sutura – anche se non rimargina definitivamente – le ferite che dividono la società italiana, coordina le forze, orchestra la loro azione, col fine ultimo dell’unificazione nazionale, fino alla capitolazione delle “camicie rosse”, una volta che la stagione eroica si chiude registrando, come si diceva all’epoca, il passaggio dalla poesia delle imprese più ardite – il Gianicolo, Calatafimi, l’Aspromonte, Mentana – alla prosa della politica quotidiana, ovvero al trasformismo di Depretis e poi al piglio autoritario dell’ex cospiratore Crispi.
Piegati dalle esigenze personali, i Mille volontari diventano, con pochissime eccezioni, dei puri e semplici reduci, messi in pensione – se si comportano bene – col modesto vitalizio governativo di mille lire. E la ciurma di ribaldi descritti dal Generale finisce per adeguarsi, più o meno consapevolmente, alle emergenze conclamate di un potere sempre più cinicamente spregiudicato nell’utilizzare, fino all’interventismo della Grande Guerra, il mito garibaldino.
Scrivendo a Carlo Pellion di Persano, Massimo D’Azeglio ammette di sentire addosso «la pelle d’oca al pensare che cosa si direbbe in Europa» se fosse pubblicato il “Diario privato politico-militare” dell’ammiraglio, che facendo ricorso alle rivelazioni contenute in quelle pagine cercava di limitare i danni prodotti alla sua immagine – e alla carriera – dalla vergognosa sconfitta navale di Lissa del 1866. E quella pelle d’oca gli veniva perché Persano, inviato da Cavour con una squadra navale nelle acque siciliane per proteggere, ma soprattutto per controllare Garibaldi, scriveva degli invii piemontesi di uomini e di armi che affiancassero i Mille, delle spese per la corruzione dei quadri della marina e dell’esercito del Borbone, degli intrighi per mettere in moto le sollevazioni “popolari”. Era stato ottimo, il lavoro svolto da Persano. Il quale tuttavia lamentava la scarsa qualità dei sobillatori-rivoluzionari spediti a fianco delle camicie rosse garibaldine: «Converrebbe tenere gli occhi ben aperti sulle spedizioni degli individui […] e veder modo di ritenere molta gentaglia che muove per queste contrade a nessun altro scopo, se non per quello di pescar nel torbido».
Ma insomma, chi ideò, progettò, tirò nell’ombra le fila dell’impresa? È illuminante, in proposito, quel che scrisse a Pietro Poggi, il 5 settembre 1860, Giuseppe La Farina (fra le centinaia e centinaia di lettere redatte mentre, al servizio di Cavour, coordinava con la sua Società Nazionale tutte le attività sovversive oltre le frontiere piemontesi): «Il movimento dell’Italia centrale fu opera nostra, e riuscì; la spedizione in Sicilia fu fatta coi mezzi nostri, ed è riuscita…».
Ma illuminante è un’altra lettera, spedita a Pietro Sbarbaro, il 14 ottobre dello stesso anno, nella quale La Farina confessa:

V’è una parte della mia biografia completamente sconosciuta, ed è forse la più importante, voglio dire le mie relazioni col conte di Cavour: relazioni intime, e pur tenute segretissime dal ‘56 al ‘59, e non sospettate né anco dagli amici stretti del conte […]. Io vedeva il conte di Cavour quasi tutti i giorni prima dell’alba, fui io che gli feci conoscere Garibaldi, e che l’indussi ad adoperarlo nella guerra d’indipendenza che si apparecchiava […]. Le potrò dare notizia della parte presa da me e dalla Società Nazionale alla spedizione di Sicilia; ed Ella vedrà che il concetto fu mio; che Garibaldi esitava (e ne ho documenti); che le armi e le munizioni furono somministrate a Garibaldi da me; egli non aveva nulla.

E sempre allo stesso Sbarbaro, in una lettera di poco posteriore:

Gl’indugi alla partenza vennero da Garibaldi e dai suoi amici, i quali dicevano quella impresa una follia […]. Garibaldi si decise a partire, quando seppe che i Siciliani sarebbero partiti senza di lui. Questa è la verità vera.

A conferma di tutto ciò, ove ve ne fosse bisogno, è quanto scrive in un suo “Pamphlet” l’intellettuale e politico Pier Carlo Broglio: Garibaldi «liberò la Sicilia, ma di grazia con quali armi? […]. Dicano da chi avessero i cannoni e le munizioni da guerra? E le somme ingenti di denaro? Dicano dove si alloggiassero le centinaia, e talora le migliaia, di volontari congregati in Genova per lo imbarco? […]. Oh! Bene s’accorgerà il paese quando il Ministero sarà alla resa dei conti del pubblico denaro […]. Resa dei conti la quale tuttavia crediamo riuscirà più facile, più limpida e più tranquillante che non quella a cui si volessero accingere gli attuali sgovernatori di Napoli e di Sicilia, ai quali incumberebbe obbligo di dar congrua dimostrazione dell’impiego delle somme di pubblica ragione trovate in Palermo, e delle altre della stessa natura, ma anche più considerevoli trovate in Napoli […]. Senza le armi, le munizioni e i danari dati dal governo di Vittorio Emanuele non avrebbero approdato a quella iniziativa. E quanto a Napoli, dove ebbe a combattere Garibaldi…? Perché entrò senza colpo ferire nella capitale Partenopea?».

I plebisciti, poi. A Modena, a Parma, a Reggio, e nella stessa Firenze. Il capo della polizia, Culetti, stretto collaboratore e instancabile informatore di Cavour, ricorda: «Un picciol numero di elettori si presentarono a prendervi parte: ma, al momento della chiusura delle urne, vi gittavamo le schede, naturalmente in senso piemontese, di quelli che si erano astenuti».
La dittatura organizzata nei vari regni italiani annessi in nome della libertà produsse mostri. Ovunque. Mentre Farini governava nel terrore dopo aver liberato i detenuti politici, ma anche quelli comuni, non trascurando di saccheggiare i beni personali (argenteria e cantina comprese) del duca di Modena, in Toscana Ricasoli, come scrive lo stesso Cavour al Re, «governa come un Pascià turco, non badando né a legge né a legalità». Dello stesso Ricasoli, in “I miei tempi”, il deputato-romanziere Angelo Brofferio racconta le gesta: «Nessuna libertà di persona, di domicilio, di stampa; ogni associazione vietata, violato sistematicamente il secreto delle lettere; uomini senza fede e senza carattere onorati; reietta la libertà religiosa; la guardia nazionale ordinata a servizio di polizia, non a difesa nazionale; il pubblico erario dilapidato per saziare l’ingordigia di nuovi favoriti; lusso di birri e di spie all’infinito; pauroso silenzio dappertutto; espulsioni, arresti, perquisizioni, mene quotidiane; insomma dal barone Ricasoli al Duca d’Atene la distanza non era molta».

Incalzava “Civiltà Cattolica” del 27 ottobre 1860: nonostante i bandi che ovunque seminavano terrore, «l’oppressione libertina è tanta, che in molti luoghi i popoli ne vollero scuotere il giogo. Ad Avellino, ad Ariano, a Isernia, a Monteodorisio, a Tagliacozzo, in Rocca di Mezzo, a Civitanova, a Carovilli, a Pietrabbondante, a Pescolanciano, a Chiauci e in cento altre città e borgate la nazione scoppiò come un vulcano, e fu spenta nel sangue sparsovi largamente e con inaudita crudeltà dai sicari Garibaldini guidati da Ungheri, da Scozzesi, da Inglesi e da Francesi».
Lo stesso La Farina, in una lettera spedita a luglio a Giuseppe Clementi, aveva ammesso: «Cosa sia il suo [di Garibaldi in Sicilia, N.d.R.] governo non è poi agevole di descrivere: non c’è più legge, non v’è più magistrati; disordine, violenza, malversazione, e furto da per tutto. Degli onesti liberali non uno tenuto in pregio; i bricconi più svergognati, gli usciti di galera per furti e per ammazzamenti, compensati con impieghi e con gradi militari. La sventurata Sicilia è come caduta in mano di una banda di Vandali…». E sempre La Farina, da Palermo, in una lettera a Cavour: «Qui non siamo nell’Italia settentrionale, qui le grandi riputazioni si creano e si disfano in un mese; qui il popolo è di una sagacia così meravigliosa, che da un atto giudica un uomo. Già la grande maggioranza dei Siciliani conoscono ciò che in Garibaldi v’è di buono e di cattivo […]. Per l’uomo di guerra v’è affetto, riconoscenza, ed ammirazione; ma non v’è alcuno che lo creda capace di governare uno Stato di 2.300.000 abitanti, e massime uno Stato come la Sicilia».
Proprio nell’isola, fra l’altro, si dispiega l’operato di Gerolamo Bixio, detto Nino. Scrive infatti “Civiltà Cattolica” a proposito del generale garibaldino: «…Risulta che nelle Due Sicilie vennero trucidate, per vendetta politica, non meno di 7.000 vittime; e che il solo Nino Bixio segnò 700 condanne a morte». E rincara “L’Unione”: «Bixio ammazza a rompicollo, all’impazzata […], fa moschettare tutti i prigionieri stranieri che gli capitano fra le unghie, e tira colpi di pistola a quei suoi ufficiali che osano far motto di disapprovazione…».

“L’Italia è fatta, bisogna fare gli italiani”: il celebre motto del cavalier Massimo D’Azeglio chiarisce con immediatezza qual è l’idea che i protagonisti del Risorgimento si son fatti dei propri connazionali. Gli italiani vanno fatti “risorgere” secondo il modello fornito dall’1 per cento della popolazione, che professa idee liberali. E quale sarebbe l’infamia che renderebbe gli italiani indegni delle loro tradizioni e inferiori rispetto ai popoli del Nord Europa e dell’America? Presto detto: sono rimasti cattolici. Il dramma dell’Italia, e soprattutto del Sud, è tutto qui. Lo storico valdese Giorgio Spini così descrive il clima dell’epoca: «L’Italia è già circondata da una sorta di assedio protestante, stesole attorno dall’episcopato anglicano, dal presbiterianismo scozzese e dall’evangelismo “libero” di Ginevra e Losanna, con un appoggio anche del protestantesimo americano […]. Quanti sono in Torino, o nell’Italia in genere, tra il 1849 e il 1860, a domandarsi se proprio quel problema della riforma religiosa non stia diventando il problema capitale della situazione italiana?».
È sempre il cavalier D’Azeglio a ricordarci un detto che ben raffigura la situazione ambigua dell’epoca: «L’ipocrisia è un omaggio del vizio alla virtù». Ebbene, al momento della proclamazione del Regno d’Italia, la Chiesa italiana è profondamente sconvolta: più di 100 sono le diocesi senza vescovo, ben 57 quelle del vecchio Reame, Napoli e le maggiori città meridionali incluse. Il rigore un giorno usato contro i malviventi viene riservato ai cattolici: monaci, monache, frati, suore gettati sul lastrico; sacerdoti sbeffeggiati, incarcerati, uccisi; il patrimonio artistico e culturale della nazione finito in case private o semplicemente distrutto; smantellato il sistema di sicurezza sociale rappresentato dalle opere pie; irrise la fede, la cultura e le tradizioni delle popolazioni. E malgrado ciò, si imponeva di cantare il Te Deum in onore della nuova civiltà e della nuova moralità.

 

Enorme, poi, il bottino: un milione di ettari di terra confiscati, con migliaia di edifici, conventi, romitori, chiese, cappellanie, diffusi sul territorio della Penisola. E beni demaniali acquistati a prezzo vile: oltre un milione e mezzo di ettari, secondo le valutazioni dello storico (marxista) Emilio Sereni: terreni situati in massima parte nell’Italia meridionale, nel Lazio e nelle Isole.
Nel novembre 1854, durante la guerra di Crimea, inizia la storia della corrispondenza di guerra, con il resoconto della carica della brigata leggera raccontata dal vivo sul “Times” di Londra dal reporter William Howard Russel. Prima di allora, i direttori dei giornali avevano ripreso le notizie dai quotidiani stranieri, oppure si erano rivolti a collaboratori militari, giovani ufficiali ovviamente pressappochisti e parziali. Con Russel, dunque, ebbe inizio il giornalismo “embedded”, come si dice oggi: con un narratore dei fatti “inviato al seguito”.
Nell’avventura da Quarto al Volturno del 1860 ci furono numerosi giornalisti e letterati “embedded”, i quali contribuirono a creare il mito di Garibaldi: gloria meritata sul piano militare, intendiamoci; ma anche agiografia non del tutto disinteressata, almeno da parte di alcuni di coloro i quali seguirono i Mille fin dall’inizio.
Alessandro Dumas, convinto repubblicano, redasse numerosi reportages sulla spedizione, raccolti poi nel libro “Les Garibaldiens” (1861). Caduti i Borbone, rimase a Napoli, protetto dall’Eroe dei Due Mondi. Vi fondò e diresse il giornale “Indipendente”, sul quale invitava alla moderazione i vincitori e difendeva i vinti, in nome di una cavalleresca tolleranza. Le sue cronache di guerra, comunque, non furono proprio obiettive.
Eugenio Torelli Viollier (che sarà il celebre fondatore, nel 1876, del “Corriere della Sera”), figlio di un alto funzionario borbonico, era stato giovane impiegato al ministero dell’Interno di Francesco II. Volontario con Garibaldi nel battaglione dei Cacciatori Irpini, fece le prime esperienze giornalistiche a Napoli, affiancando Dumas nella direzione dell’ “Indipendente”, prima di passare al giornalismo post-unitario lombardo, nelle redazioni del “Secolo”, del “Pungolo” e del “Lombardia”.
Giuseppe Bandi partecipò alla spedizione e, dopo il 1870, collaborò alla “Nazione” e al “Bazar”, di Firenze; passò poi a Livorno, dove fondò e diresse “Il telegrafo” e il “Corriere livornese”. Fu anche autore del libro-reportage “I Mille da Genova a Capua”, contraltare del più celebre diario di Giuseppe Cesare Abba (“Da Quarto al Volturno: noterelle d’uno dei Mille”), scritto sul tamburo: appunti impressionistici, trascritti con concisione, da autentico cronista.
Ippolito Nievo si imbarcò a Quarto sul “Lombardo”. A lui e al suo amico Giovanni Acerbi fu affidato il non facile incarico di reggere l’intendenza militare. Da questa esperienza, due scritti storico-cronistici, il “Diario della spedizione dal 5 al 18 maggio”, e il “Resoconto amministrativo della prima spedizione in Sicilia”, oltre a una sorta di lettera aperta al direttore de “La Perseveranza”, giornale milanese. Le testate nelle quali Nievo si impegnò furono “L’Annotatore Friulano”, “Il Pungolo”, “La Rivista Veneta”, “La Lucciola”, “Il Caffè” e “La Perseveranza”. I tempi del suo giornalismo cessarono nel 1861, quando a soli 29 anni scomparve – per cause imprecisate – con il vecchio piroscafo “Ercole”, affondato nelle acque del Tirreno.
Lev Ili’ic Mec’nikov, volontario garibaldino, è stato rivalutato solo di recente. Nato a Pietroburgo, a vent’anni si arruolò a Firenze, volontario nel battaglione di camicie rosse ispirate da Giovanni Nicotera, il colonnello dello sbarco a Sapri. Il suo “Diario”, scritto al seguito dei Mille, pubblicato a puntate su una rivista russa nel 1863, è stato chiuso finora nell’archivio della Federazione Russa, a Mosca. Un’anticipazione è stata data qualche mese fa dal “Corriere della Sera”.
La vicenda di Jessie White Mario, giornalista “embedded” dell’epoca, cominciò nel 1854, quando conobbe a Nizza Garibaldi, che avrebbe seguito fino alla spedizione nei Vosgi del 1870, e quando a Londra incontrò Giuseppe Mazzini. Da quel momento si votò alla causa italiana, raccogliendo fondi e cominciando a scrivere. “Italy for italians” fu il suo primo articolo sul “Daily News” (novembre 1856). Arrestata a Genova nella repressione seguita alla spedizione di Sapri e alla congiura mazziniana, conobbe in carcere il giornalista-patriota veneto Alberto Mario, che sposò in Inghilterra, dopo la scarcerazione. Rientrata in Italia, prese parte come infermiera alle imprese garibaldine, riparando poi in Svizzera, dove venne nuovamente arrestata. Nel giugno 1860 raggiunse Garibaldi in Sicilia. Seguì la spedizione, e si stabilì a Napoli, avviando la fase più intensa della sua attività giornalistica come corrispondente per l’americano “The Nation”, poi per il britannico “Morning Star”. L’incontro con Pasquale Villari la proiettò nella grande inchiesta a puntate su “Il Pungolo”, (poi rielaborata nel volume “La miseria in Napoli”). Questi suoi reportages segnarono l’inizio del giornalismo d’inchiesta in Italia, svolto setacciando ogni angolo della città, descrivendo i “bassi” e la rete dell’assistenza, affrontando le origini della criminalità.

È stato scritto che con il suo metodo d’indagine la White Mario interpretò i problemi sociali e politici dell’epoca, incrociando “sul campo” le testimonianze dirette, le statistiche e i riscontri. Fu il giornalismo che tradusse la politica in indagine verso nuove tematiche sociali come la povertà, la condizione delle donne e dell’infanzia, la centralità dell’istruzione, il sistema carcerario, il lavoro, in una stagione che ha lasciato altre testimonianze di rilievo, come quella di Renato Fucini (“Napoli ad occhio nudo”) e di Matilde Serao (“Il ventre di Napoli”). Ma il suo lavoro è considerato il più significativo – insieme ad altre sue inchieste, come quella sulla Sicilia – anche perché c’era nella sua scrittura una duplice carica: un coinvolgimento intellettuale e politico diretto nella tormentata trasformazione italiana; una grande fiducia, maturata sui campi di battaglia del Risorgimento, sulla capacità degli italiani stessi di affrontare la propria emancipazione. Tra il 1878 e il 1901, White Mario collaborò alla Nuova Antologia con articoli sui fratelli Cairoli, sulle miniere di zolfo in Sicilia, sul sistema penitenziario e sul domicilio coatto in Italia, su Carlo Cattaneo e Giuseppe Mazzini. Scrisse anche per le riviste “Nineteenth Century” e “Scribner’s”.
Da ultimo, nel gruppo dei giornalisti al seguito delle camicie rosse c’era anche lo scrittore Anton Giulio Barrili, il quale, volontario nella seconda guerra del Risorgimento (1859), seguì Garibaldi nelle campagne del 1866-67. Diresse “Il Movimento”, (nel quale pubblicò in appendice il romanzo “Capitan Dodero”), “Il Caffaro” e “Il Colombo”. Per incisività ed efficacia di scrittura, le sue opere migliori restano i reportages e i racconti garibaldini.
L’incontro di Teano del 26 ottobre 1860 non avvenne a Teano. Per meglio dire, non si ebbe là dove oggi un miserrimo cippo recintato ricorda che Garibaldi e Vittorio Emanuele II – a cavallo – si strinsero la mano, il primo con le Due Sicilie in offerta, il secondo con l’esercito pronto a intervenire a un suo cenno, se l’altro non gli avesse consegnato senza colpo ferire lo Stato più antico e più vasto della Penisola. L’incontro avvenne molto più a latere, accanto a un’osteria, anch’essa oggi in abbandono, mentre dentro il recinto dell’oleografia nazional-popolare i teanesi hanno aggiunto una targa, nella quale hanno scritto che a fare l’unità e la ricchezza del Paese sono stati e continuano ad essere i meridionali che emigrano, lavorano, risparmiano e muoiono, senza che la storia ne ricordi le terribili vicende che danno un nome al secolare dolore delle genti del Sud.
Lo stesso giorno, in quel di Torino, anche il Primo ministro Cavour si sprofondava in ringraziamenti: «Guai a noi se ci mostrassimo sconoscenti ed ingrati». Una gratitudine che era intenzionato ad esprimere con una gamma di premi: una pensione con l’aggiunta di una dote per la figlia, l’insegna di generale del Regio Esercito, il Collare dell’Annunziata, il titolo di Principe di Calatafimi… E per farla finita con quell’armata di volontari indisciplinati, il passaggio di tutti al comando del generale Cialdini, il sanguinario repressore delle imminenti insorgenze nel Sud.
Garibaldi rifiutò tutto, e all’alba del 9 novembre partì per la sua Caprera, portando con sé – secondo l’agiografia dell’epoca – un sacco di sementi e alcuni fedeli della vecchia guardia. Eletto deputato in due collegi elettorali di Roma, si presentò nella capitale nel gennaio 1875 con due progetti (la bonifica dell’Agro Romano e la sistemazione del Tevere), che qualche tempo dopo vennero bocciati; ma anche con due propositi: il dossier per l’annullamento del matrimonio con la marchesina Giuseppina Raimondi, ripudiata sul sagrato della chiesa in cui l’aveva appena sposata, perché amante di un garibaldino e di un suo cugino, e già incinta, e la questione di un vitalizio. Risolto il primo problema, rimase in piedi il secondo, perché Garibaldi rifiutò 100 mila lire annue approvate come dono nazionale su proposta della Destra. Ma quando cadde il governo Minghetti e il re affidò ad Agostino Depretis, leader della Sinistra, la guida del Paese, l’Eroe indirizzò al nuovo Primo ministro una lettera nella quale dichiarava la sua fiducia nel Ministero: «Debbono perciò cessare le mie ripugnanze alla accettazione del dono che a me fu fatto con spontanea generosità dalla Nazione e dal Re».
Il 2 giugno 1882 Garibaldi morì. Allora fu proposta la reversibilità della pensione a favore dei cinque figli Menotti, Ricciotti, Teresita, Clelia e Manlio, e della vedova Francesca Armosino, la governante piemontese che lo aveva accudito negli ultimi anni della sua vita e che aveva sposato anche per poter dare un nome ai propri figli. La Camera fece i conti lira su lira, e con legge votata “quasi all’unanimità” assegnò 60 mila lire annue, da spartirsi tra tutti e sei.
Ribelle, sognatore, passionale, impulsivo, amante della terra, del mare e dell’avventura, paragonato non soltanto a George Washington, ma anche al libertador latino-americano Simón Bolívar, ha il merito di avere infiammato la gioventù dell’epoca, di averla coinvolta in un’impresa ai limiti della sfida per la vita o per la morte, sfida che avrebbe lasciato fuori dai confini naturali della Penisola soltanto Roma (che sarebbe stata presa un decennio più tardi dai bersaglieri), il Veneto e la Terra Giulia, “redente” a conclusione del Primo conflitto mondiale.

Certo, dopo la fase eroica dell’impresa dei Mille, a soli quattro anni di distanza dall’entrata in Napoli, la memoria di Garibaldi sembra già appartenere a un’altra epoca. La sua gloria si va costantemente appannando, soprattutto dopo la battuta d’arresto in Aspromonte. Tant’è che 600 mila londinesi lo acclamano “eroe del secolo” (iperbole di Gilbert Hamerton) quando sbarca nella capitale britannica qualche mese dopo, ma la regina Vittoria si dichiara «no amused» e persino offesa di regnare su un popolo che faceva tali manifestazioni, e Karl Marx scrive sul suo giornale che si è trattato di una miserabile pagliacciata. Elogi giungono invece dal futuro Primo ministro William Gladstone, quello che in realtà non pronunciò mai definizioni saturnine nei confronti del Regno di Napoli, come invece subdolamente riferisce la storiografia zelante post-unitaria. Gladstone intuisce che in Garibaldi convivono e quasi si fondono due aspetti che quasi mai è possibile concertare: era il primo patriota italiano, acceso e intransigente, graditissimo anche ai nazionalisti più reazionari e violenti, alla Nino Bixio, per intenderci; e nello stesso tempo era anche il difensore delle classi popolari che partecipavano al Risorgimento soltanto in modo estremamente marginale.
È certamente uno dei più brillanti capi guerriglieri del suo tempo: una sorta di Che Guevara con più esperienza e con meno sfortuna. Quando parlano di lui, i generali piemontesi ostentano disprezzo, forse per ripagarsi del più autentico disprezzo con cui essi stessi sono trattati dagli Stati Maggiori di tutta Europa. Perciò, anche, trattano in modo disumano i garibaldini che hanno conquistato un Regno e che desiderano entrare nell’esercito regolare. Ma nessuno di loro – come è stato sottolineato – sarebbe capace di imitare quel capolavoro di arte tattica, di improvvisazione e di riflessi pronti, che è la ritirata del ‘49 da Roma attraverso l’Italia centrale, nel tentativo fallito di creare un’insurrezione popolare, con circa 4.500 uomini e un cannoncino, inseguito da 22 mila soldati appartenenti a quattro eserciti. E si obietta ancora oggi che è sicuramente vero che la spedizione in Sicilia fu facilitata, oltre che dalle doti strategiche e dai soldi di Cavour, anche dall’inettitudine dei comandi borbonici, dall’avidità delle truppe mercenarie e dalla fortuna che non abbandona mai le camicie rosse, in una serie di eventi rimasta unica nella storia d’Italia; ma l’entusiasmo che sospingeva gli animi di questi antenati dei leghisti (tutti bergamaschi, milanesi, genovesi, bresciani) era dovuto al carisma di Garibaldi, ritenuto uno di quei rari comandanti che, ordinando di andare all’assalto, faceva alzare in piedi anche i morti.
Così, per i due versanti del mito controverso, anche Macmahon, il capo dell’esercito francese nella campagna lombarda del ‘59, ritiene che a Garibaldi manchi la necessaria ampiezza di vedute, ma l’Eroe nel ‘71 va a combattere i tedeschi mentre i francesi se la danno a gambe davanti a Von Moltke. Poi viene eletto all’Assemblea Nazionale nel dipartimento di Orano, e quando lo si ricusa perché straniero, Victor Hugo interviene, indignato: «Io non voglio offendere nessuno, ma di tutti i generali francesi impegnati in questa guerra Garibaldi è il solo che non sia stato sconfitto».
Alla fine ha forse un ritorno ideologico di coscienza allorché, al cospetto di quel che accade nel Sud in rivolta, nelle terre delle “insorgenze” da riconquistare, afferma che gli unici Stati veramente liberi sono «quelli repubblicani». È a disagio nel Parlamento, non frequenta i salotti della nobiltà monarchica, continua a detestare la Chiesa cattolica, ha rapporti conflittuali con Cavour e con Casa Savoia. Resta, in sostanza, uno spirito superbamente solitario, convinto di avere interpretato un ruolo storico di altissima levatura sia quando il Re e i Primi ministri ne decretano un silenzioso ma inossidabile isolamento, sia quando – ormai vecchio e malandato – non rappresenta più alcun rischio per l’azione normalizzatrice, politica e diplomatica, della Monarchia.
È dal punto di vista del Sud che si è aperto un dibattito sulla reale portata della sua personalità e del suo peso nella videnda della caduta delle Due Sicilie. Documenti trascurati per troppo tempo, scritti coevi, appunti, diari, epistolari di personaggi appartenenti alle due parti schierate in campo e in conflitto, tornano in superficie nel nome di un revisionismo storico che dà nuova e più autentica luce alla storia unitaria. Da una parte, è la storia scritta dai vinti che reclama il diritto di essere finalmente conosciuta per quella che è veramente stata, dall’altra è la fine della favolistica risorgimentale; dall’altra ancora, è il moderno metodo storico che propone l’uso di materiali obiettivamente documentati, e di varia origine e anche di contrapposta provenienza.
È in questo nuovo contesto che il “mito di Garibaldi” va riconsiderato. Ed è nella dimensione più complessa rivisitata e ricostruita dagli storici contemporanei che va valutata l’azione dei Mille, quella parallela – se non preventiva, e comunque decisiva – di Cavour, e quella delle forze politiche e militari borboniche dallo sbarco di Marsala alla drammatica caduta di Gaeta e alla romantica, e leggendaria, resistenza di Civitella.

 

 

   
   
Indietro
     

Banca Popolare Pugliese
Tutti i diritti riservati © 2007