Settembre 2007

Da Caracciolo alla Pimentel

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Il filo rosso
del tradimento
Dimab
 
 

 

 

 

 

 

 

Ricercato per alto tradimento,
Caracciolo fu a sua volta tradito da un servo, che
indicò agli sbirri
il pozzo nel quale
il nibbio dei
mari si nascondeva.

 

Non fu una novità la consuetudine a voltar gabbana: la si praticò nell’impresa garibaldina, quando buona parte della nobiltà e soprattutto buona parte degli ufficiali superiori dell’esercito borbonico voltarono le spalle al Borbone; la si era praticata al tempo della Repubblica del ‘99, nei giorni in cui Ferdinando IV, lasciata Napoli, si era trasferito nella più sicura Palermo.
Partiamo da qui, e riscriviamo la storia che vide coinvolto Sir Horatio Nelson, ammiraglio, amante di Emma Hamilton, e impiccatore di Francesco Caracciolo, detto “Il nibbio dei mari”. Caracciolo tradì il suo Re e la sua bandiera. Non si imboscò, non disertò: tradì. E la marineria puniva il tradimento col capestro. Caracciolo lo sapeva bene, tant’è che per togliere di dosso al proprio cadavere quella terribile macchia, implorò che, invece di appenderlo al pennone dell’albero di maestra, lo fucilassero.
Ma non ci fu niente da fare: figurarsi, la marina inglese, quella di Abukir (dove Nelson diede la prima, sonora legnata alla squadra navale napoleonica), quella di Trafalgar, o, se si preferisce, quella di Jack “Lucky” Aubrey, comandante, Master and Commander della H.M.S. “Surprise”.

Era il 23 dicembre 1798: con i francesi del generale Championnet alle porte, il Borbone lasciò Napoli, diretto a Palermo. Lo accompagnava, in qualità di ammiraglio della flotta, il Caracciolo. Il quale, una volta instauratasi l’effimera Repubblica giacobina napoletana (23 gennaio 1799), chiese il permesso di tornare a Napoli per prendersi cura dei suoi averi, a rischio di esproprio in assenza del proprietario. Ferdinando diede il consenso, raccomandando al suo ammiraglio di tenersi lontano dalla politica, di curare i propri affari e di non mettersi in testa strane idee. Il “nibbio dei mari” cadde, o meglio fece finta di cadere dalle nuvole: «Ma che dite, Maestà! Io, il vostro più fedele servitore, io che sono pronto a dare la vita per la Corona, mettermi in testa cattive idee? Accunfarme co’ i giacubbini? Mai!».
E invece, appena messo piede a Mergellina, si “accunfiò”, altroché se si “accunfiò”, intendendosela con lo spretato Carlo Laubert, con Antonio Ajello detto “Pagliucchella”, con la Fonseca Pimentel, insomma col governo repubblicano sostenuto dalle baionette napoleoniche.
E che cos’era questo, se non tradimento? Il nodo venne al pettine cinque mesi più tardi (tanto durò la Repubblica “giacubbina”): ricercato per alto tradimento, Caracciolo fu a sua volta tradito da un servo, che indicò agli sbirri il pozzo nel quale il “nibbio dei mari” si nascondeva. E finì con la corda al collo.
Dopo la tragedia, il vaudeville: genere che quando lambisce la storia garba a molti. L’amante di Nelson, lady Emma Lyon Hamilton, era la trentasettenne moglie di Sir William Hamilton, settantaquattrenne ambasciatore inglese a Napoli. Donna, a giudizio degli ammiratori e dei detrattori, di straordinaria bellezza, fu data a Sir William da un suo scapestrato nipote, Charles Grenville. Costui, incallito giocatore, scialacquatore e sciupafemmine, si era coperto di debiti e rischiava la galera, se non li avesse onorati di corsa. Si rivolse così a zio William, che al termine di un’appassionata trattativa si dichiarò disposto a tirar fuori il pecunio, qualora il nipote avesse pareggiato il conto passandogli l’amante in carica: Emma. Charles non ci pensò due volte, e due volte non ci pensò Emma, che subito si trasferì presso l’anziano, lussurioso, ma ricchissimo zio, che per di più la impalmò, facendone quel che si dice una donna onesta.

A Napoli Emma spopolò. Gli uomini (ma pare anche le donne, e nella fattispecie la Regina Carolina, che non cessava di lamentarsi di quel buzzurro del marito) le cadevano ai piedi a frotte. Anche il fiero cuore di Nelson fu trafitto dalle grazie della bionda inglesina, la quale non si fece pregare più di tanto, prima di addivenire. La tresca fu presto di pubblico dominio, sebbene ciò non infastidisse l’ambasciatore. «Ma come si può esser così cornuto e così contento?», si chiese un giorno, a Corte e ad alta voce, l’arcigna principessa Sofia di San Marco. Le rispose, nella sua infinita saggezza, il Re: «‘U gallo vicchiarello nun fa cchiù ‘e cose, ma cuntinua a cantà». Non c’è bisogno di alcuna traduzione.
Eleonora Fonseca Pimentel, poi. Chi ha visto il film “Il resto di niente” della regista Di Lillo si è lasciato convincere a pagare il biglietto dalla sinopsi: “Il film è il racconto di un’utopia, quella di un gruppo di giovani che nel 1799 diede vita a una rivoluzione per regalare la felicità ai napoletani”. Versione caramellosa e callida (utopia, giovani, rivoluzione, felicità...) della vulgata che vuole i collaborazionisti napoletani un manipolo di eletti patrioti e il popolo che resisteva al francese invasore una manica di farabutti.
Stabilito ciò, e con la benedizione di Benedetto Croce, grand’uomo comunque non esente da abbagli (definì il primo Presidente della Repubblica partenopea Carlo Lauberg, un mascalzone poi cacciato da Napoli con l’accusa di peculato e di estorsione, «il primo cospiratore del Nuovo Risorgime italiano»), al termine di un ballottaggio con Luisa Sanfelice – che alla fine dovette soccombere in quanto rivoluzionaria involontaria e inconsapevole – la vulgata acclamò eroina e icona della Rivoluzione partenopea la Fonseca Pimentel. E non si poteva sceglier meglio.
Fosse vissuta in altra epoca, costei (nata da genitori portoghesi a Roma, in via di Ripetta 22) avrebbe potuto essere un’antifascista a denominazione di origine controllata: al pari degli antifascisti, che in massima parte si scoprirono tali solo dopo la caduta di Mussolini, ella divenne infatti antiborbonica un minuto dopo l’ingresso del generale Championnet a Napoli, ovvero un minuto dopo l’allontanamento di Ferdinando delle Due Sicilie. Fino a un minuto prima, di Ferdinando, di Maria Carolina, della Corona fu non una semplice sostenitrice, ma un vero e proprio zerbino.
Commentando il film, Ruggero Guarini ha ricordato la sconcia ballata che la Pimentel dedicò alla regina, definita puttana, lesbica, rediviva Poppea, «tribade impura / d’imbecille tiranno empia consorte» alla quale elegantemente augurava di far la fine della sorella Maria Antonietta. Ma prima dell’ingresso delle truppe francesi a Napoli, ben altri sentimenti la Pimentel manifestava.
Separata dal marito, il tenente Pasquale Tria, per sbarcare il lunario la futura sanculotta invocò l’aiuto di Ferdinando, che le affidò l’incarico di bibliotecaria. Tra una spolverata e l’altra dei volumi che costituivano la ricchissima Biblioteca Reale voluta da Carlo di Borbone (e oggi Biblioteca Nazionale) la Pimentel, talora col vezzoso nome d’arte di Altidora Esperetusa, verseggiava sommergendo il «tiranno imbecille» di panegirici che si leggono con disagio per il servilismo, l’adulazione e la piaggeria che vi dominano.
Alla lunga, si meritò di potersi fregiare, appuntata sulla scollatura dell’abito di gala, della spilla a forma di giglio borbonico che distingueva le dame in rapporto di intimità con Ferdinando e con Maria Carolina. La quale era dipinta dalla Pimentel pre-sanculotta quale «Tempio di saggezza e di virtù» (dicesi virtù!). In quanto al tiranno, costei era certa che «L’età di Ferdinando / ogni altra avanzerà che l’alme illustri / dai regi sguardi accese / ardite moveranno a nuove imprese». E pertanto «Ddio nce lo guard’e tenga» il «prode Ferdinando / dalla superba fronte / marito e condottier».
Non sapremmo che dire della poetessa. Probabilmente non valeva granché. Ma non ci piove che, come voltagabbana, ebbe ben poche rivali.

 

   
   
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