Non è sensato
ritenere che
possano più
scoppiare guerre tra popoli europei, tra Stati europei. Dunque,
è
impensabile che nuovi confini
possano tornare
a separare terre
e popoli.
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È difficile dimenticare quel che certe terre regioni,
province, territori di piccola o media dimensione hanno rappresentato
nella storia di una civiltà nazionale, di una cultura letteraria
e artistica, persino di una tradizione popolare. Così è
accaduto, e continua ad accadere, ad esempio, per larea istriana
e per quella dalmata, nelle quali le impronte di Roma e di Venezia
sono prevalenti su quelle di altre presenze registrate nel tempo,
e che oggi sono ancora oggetto di nostalgia, di rimpianto per quelle
che vengono considerate le perfidie (e i tradimenti) della storia
del secolo scorso.
Ma non si tratta di casi unici nel Vecchio Continente. Così,
sommariamente, si deve ricordare che la Slesia e la Pomerania erano
storicamente territori polacchi, feudi dei principi di Piast, rami
secondari della prima dinastia regnante polacca. Quelle terre sono
ricchissime di vestigia slave e la loro intensa germanizzazione
avvenne, con i metodi tipici dei tedeschi, nel XVIII e nel XIX secolo.
Nessuno si sogna di negare la forte presenza germanica in quelle
regioni, ma come nessun polacco esprime del revanscismo nei riguardi
dei territori orientali, così certi circoli tedeschi dovrebbero
smettere di guardare alla Polonia occidentale come a un territorio
tedesco. Quando si ha a che fare con esponenti di questi circoli,
si può persino provocarli ricordando che Berlin significa,
in slavo antico, la lingua dei suoi primi abitanti, luogo
degli stagni. Forse la Polonia dovrebbe pretendere la restituzione
di questa città slava?

Altri esempi emblematici. La capitale della Lituania ha un nome
lituano (Vilnius), ma anche uno polacco (Wilna) e uno russo (Vilno).
Non ci si deve sorprendere. Gli italiani parlano di Fiume e di Ragusa,
anziché di Rjeka e di Dubrovnik. Molti tedeschi dicono Breslau
anziché Wroclaw. Molti austriaci, per parecchi anni, hanno
chiamato Bratislava, Marianské Làznê, Leopoli,
Lubiana e Zagabria, con i loro nomi tedeschi (Pressburg, Marienbad,
Lemberg, Laibach, Agram).
In questo modo è fatta lEuropa. Moltissime città
contengono nelle loro diverse denominazioni la storia delle loro
traversie. Viviamo in un continente nel quale i confini sono stati
frequentemente spostati e le popolazioni, sfortunatamente, spesso
hanno subìto la stessa sorte. Negli ultimi sessantacinque
anni il fenomeno ha assunto proporzioni letteralmente gigantesche.
Forti minoranze russe si sono insediate nelle repubbliche baltiche
della Lettonia, dellEstonia e della Lituania. I tatari furono
costretti da Stalin ad abbandonare la Crimea. I ceceni vennero deportati.
Gli armeni furono deportati e (in Turchia) massacrati. Alcuni milioni
di polacchi hanno abbandonato i territori occidentali dellUcraina
e della Bielorussia per trasferirsi nelle regioni della Germania
orientale ceduta alla Polonia a conclusione del Secondo conflitto
mondiale. Dodici milioni di tedeschi sono partiti dalla Germania
orientale e altri tre milioni si sono trasferiti dal Sudetenland
boemo.
Veniamo alle cose di casa nostra. Gli istriani e i dalmati (più
di trecentomila) furono costretti ad abbandonare gli antichi comuni
veneziani della costa, nei quali avevano vissuto per diversi secoli.
Ma anche i sassoni poterono andarsene dalla Romania soltanto quando
la Repubblica federale tedesca pagò al regime di Ceausescu,
per ciascuno di essi, ottocento dollari. Alcuni milioni di ebrei
dellEuropa centrale e orientale sono partiti per la Palestina,
(altri vi sono giunti persino dallEtiopia), e per lEuropa
occidentale o per le Americhe. A Mosca, nella seconda metà
degli anni Ottanta, si vedevano di frequente lunghissime code di
fronte allambasciata della Germania: erano i tedeschi del
Volga, importati in Russia da Caterina la Grande, e
ansiosi di fare ritorno nellantica patria. Quando finalmente
vi giunsero, scoprirono che il loro tedesco, gelosamente conservato
per alcuni secoli, era, per i loro nuovi connazionali, una lingua
pressoché incomprensibile.

Derive della storia, che non riguardano esclusivamente le vicende
dellEuropa. Infatti, potremmo continuare ricordando gli esodi
asiatici dellultimo mezzo secolo: gli indù e i musulmani
al momento della spartizione dellIndia, o gli afghani dopo
linvasione sovietica del dicembre 1979. E potremmo andare
più indietro nel tempo: i serbi verso nord quando Vienna
li chiamò a difendere i confini meridionali dellImpero
austro-ungarico, gli scozzesi verso lAmerica dopo la recinzione
delle terre sugli Altopiani, gli irlandesi nella stessa direzione
dopo la carestia delle patate nel 1848, e poi limpetuoso fiume
delle grandi migrazioni sociali o politiche tra la fine dellOttocento
e i primi del Novecento: italiani (questi, anche dopo la metà
del XX secolo), ebrei, polacchi, baschi, armeni scampati alla loro
tragica decimazione, e attualmente altri italiani dal Sud verso
il Nord e verso il resto dEuropa e del mondo, e infine i popoli
del Terzo e del Quarto Mondo verso le aree ritenute ricche, comunque
in grado di garantir loro un qualche salario, un lavoro, un boccone
di pane...
E chissà quanti altri popoli abbiamo dimenticato. Ma il senso
di unelencazione del genere è comunque e semplicemente
quello di ricordare che moltissimi territori, non soltanto europei,
possono essere rivendicati da popolazioni che li hanno abitati in
passato. Per quel che riguarda specificamente il Vecchio Continente,
ora che è in massima parte Unione europea, la domanda è
dobbligo: si tratta di una storia conclusa? Certamente, non
è sensato ritenere che possano più scoppiare guerre
tra popoli europei, tra Stati europei. Dunque, è impensabile
che nuovi confini possano tornare a separare terre e popoli.
Certo, la memoria della storia e delle storie del passato è
ingombrante ancora oggi, perché i sentimenti si nutrono di
essa, e non muoiono mai. Forse sarà la stessa Unione europea
ad assorbire rivendicazioni, nostalgie, anche prepotenti desideri
di ritorni, concertandoli pacificamente nella cornice di unarmonia
continentale, cioè di una patria comune e come tale sentita
da tutti, con libero movimento, libera cittadinanza, libera residenza,
libera formazione culturale.
Tempi lunghi, ovviamente, sono prevedibili per un progetto del genere.
Antichi, reciproci rancori, spesse ruggini, contrapposte resistenze
non si superano nel breve spazio di un mattino. Eppure, il futuro
può essere soltanto questo: al di fuori di un concertismo
condiviso cè solamente il rischio reale di un ritorno
al passato, con unEuropa non più generatrice di pacifica
civiltà, ma sprofondata in un Medioevo di ritorno, molto
meno grande e molto più tragico di quello che il Vecchio
Continente ha vissuto al di là e al di qua della fine del
primo Millennio.
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