Settembre 2007

Una storia che non si conclude

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Tutti i Muri del mondo
L. B.
 
 

Dopo la fine della Guerra Fredda si sono moltiplicate le guerre calde: Kuwait, Somalia, Ruanda, Balcani, Zaire, Palestina, Afghanistan, Iraq, Libano, Darfur.
E i Muri continuano a dividere.

 

I sovrani della Cina trascorsero duemila anni a costruire e ricostruire la muraglia più grande del mondo, per impedire l’accesso agli invasori provenienti da Nord. L’imperatore Adriano eresse bastioni in tutta la Britannia contro i barbari, creando il celebre Vallo, diciannove secoli fa. I sovietici divisero Berlino in due, e il muro cadde quando venne meno la volontà di difenderlo. Gli israeliani hanno costruito barricate contro i palestinesi, per mettersi al sicuro dalla popolazione araba e i terroristi suicidi.
Sono Muri di guerra, l’architettura della lunga battaglia. Difficili da erigere, difficili da mantenere, ma mai più forti delle capacità politiche di chi li progetta. Recentemente, migliaia di persone a Baghdad si sono unite contro un Muro che le divide. Alto quattro metri, separa sunniti e sciiti del quartiere di Adhamiya, nella zona Nord della capitale irachena: Adhamiya è una delle numerose comunità che in Iraq vivono dietro muri e recinzioni che gli americani da mesi sono impegnati a costruire. In realtà, la storia insegna che questi sistemi possono funzionare, ma che ci vogliono molti anni e una mano assai pesante.
I primi ad applicare questa strategia con successo in epoca moderna furono gli inglesi. Alla fine dell’epoca coloniale, dopo il Secondo conflitto mondiale, isolarono in Malesia la popolazione di etnia cinese costruendo “nuovi villaggi” e ammassandovi centinaia di migliaia di persone. Così entro le mura controllavano la popolazione, e fuori attaccavano i ribelli cinesi. I britannici demoralizzarono e sconfissero i nemici dell’Impero, anche se in questo processo migliaia di non-combattenti ci rimisero la vita. Oggi sono evidenti i rischi morali di quel metodo, che sembra dunque difficile da replicare. Ma allora apparve come una grande vittoria e la Malaysia dei nostri giorni è pacifica e relativamente prospera. I consiglieri americani a Saigon sposarono la teoria del Muro nel 1962, ma non furono mai abili o tenaci a sufficienza da dividere i loro nemici. Quarant’anni dopo, hanno impiegato le strategie e le tattiche di contro-insurrezione per il nuovo piano di sicurezza a Baghdad, con muraglie di cemento e con l’isolamento delle comunità da controllare: in questo modo reiterano l’azione prevista nei saggi di guerra, soprattutto in quello di David Galula, ufficiale francese che combatté i ribelli nella guerra di indipendenza algerina mezzo secolo fa. I francesi persero la battaglia, ma le tesi di Galula hanno ancora risonanza e seguaci.

Era il Muro per antonomasia: una barriera di cemento e di filo spinato che per 28 anni aveva diviso simultaneamente Berlino, la Germania, l’Europa e il mondo. Era l’algida Cortina di Ferro piantata come un macigno nelle coscienze dei popoli che riemergevano dalle tragedie e dalle macerie del Novecento. Ma l’11 novembre 1989 il mostro era ridotto a un colabrodo. Due giorni prima le ruspe avevano cominciato ad abbatterlo, aprendo varchi nel sinistro bastione coperto di graffiti. E in uno spiazzo libero dalle rovine, seduto su una sedia di fortuna, non lontano dal leggendario Check-point “Charlie”, Mstislav Rostropovich improvvisava le suite per violoncello di Johann Sebastian Bach. Il grande musicista russo era accorso da Parigi per celebrare la fine del suo esilio e dell’incubo di un’altra guerra.
Quell’immagine aveva acceso un’illusoria speranza: dalle macerie del Muro sarebbe sorto un nuovo ordine internazionale che avrebbe a mano a mano demolito gli steccati politici e culturali tra le Nazioni, allontanando lo spettro dei conflitti armati, degli scontri ideologici razziali, religiosi. Non è stato così.
Il tramonto del bipolarismo ha esasperato le tensioni etniche, nazionalistiche e territoriali. In Africa e nell’ex Impero sovietico la dissoluzione degli Stati ha allargato le maglie dell’illegalità e ha alimentato guerriglie che si finanziano con il traffico di armi e di droga, con il commercio clandestino di diamanti e di minerali strategici. La fame energetica dell’Occidente e delle potenze asiatiche emergenti ha scatenato una feroce competizione per il controllo delle riserve petrolifere e degli oleodotti. L’impoverimento delle risorse idriche rischia di provocare esodi di massa e sanguinose lotte per lo sfruttamento dell’acqua. Il boom demografico e il crescente divario tra le economie del Nord e del Sud del pianeta spingono milioni di emigranti verso i Paesi più ricchi. Mentre la lotta al terrorismo islamico minaccia di trasformarsi in un globale scontro di civiltà e di resuscitare i fantasmi delle Crociate.

Dopo la fine della Guerra Fredda si sono moltiplicate le guerre calde: Kuwait, Somalia, Ruanda, Balcani, Zaire, Palestina, Afghanistan, Iraq, Libano, Darfur. E i Muri continuano a dividere. Il più antico, costruito nel 1953, lungo 248 chilometri, si snoda sulla Dmz, la zona demilitarizzata che separa le due Coree: la Cortina di Bambù sul 38° Parallelo. Si può osservarla dalle altane di Panmunjong, a nord di Seul. Ed è un luogo che mette i brividi: una fascia larga quattro chilometri, presidiata da due milioni di soldati, difesa da sensori, campi minati, postazioni di avvistamento, radar, cellule fotoelettriche, carri armati, artiglierie. Sulla collina di fronte, dietro la casupola che gli ufficiali dei due eserciti utilizzano da mezzo secolo per gli infruttuosi colloqui negoziali, svetta un gigantesco pennone con la bandiera nordcoreana, e gli altoparlanti diffondono inni patriottici e slogan della propaganda di Pyongyang.
Il più recente è il Muro di cui abbiamo parlato, quello che gli americani continuano a costruire attorno alla roccaforte sunnita dove Saddam Hussein apparve per l’ultima volta in pubblico nel marzo 2003: cinque chilometri di perimetro, centinaia di blocchi di cemento alti quattro metri e pesanti sette tonnellate, che vengono trasportati con speciali autotreni dalla base di Camp Taji, a settentrione della capitale. L’obiettivo è impedire gli attentati e gli attacchi degli squadroni della morte sciiti provenienti dal vicino quartiere di Sadr City. Altre barriere di sicurezza sono previste per i distretti sunniti di Khadra e Ameriya, per quello sciita di Ghazaliya e per le aree miste di Rashid ovest e sud.

Il “Muro dell’Apartheid”, come lo hanno battezzato sia i sunniti sia gli sciiti, è osteggiato da tutte le formazioni politiche irachene, ma i lavori non si fermano, anche se creare dei ghetti fortificati avrà conseguenze nefaste in una città nella quale la pulizia etnica è già un fatto compiuto, e nella quale la vita economica e sociale è paralizzata. Del resto, neppure la superfortificata Green Zone, la Piccola America sulle rive del Tigri, sede dei comandi militari, del governo iracheno e delle rappresentanze diplomatiche, è oggi al sicuro. Green Zone: dieci chilometri quadrati, con i muraglioni di cemento a prova di bomba, con cinque ingressi, a cominciare dalla famigerata Porta degli Assassini, bersaglio abituale degli insorti, difesi da tanks, blindati e nidi di mitragliatrici, posti di blocco a ripetizione, soldati con giubbotti antiproiettile, armi lunghe e pallottole in canna. È la sindrome da bunker, che vuole allontanare la visione dell’ultima spiaggia, di una Saigon del XXI secolo.
A volte i Muri possono servire? In Israele la Barriera di Sicurezza ha oggettivamente ridotto la frequenza degli attentati terroristici. Ma a quale prezzo? Il Muro (ancora in costruzione), fatto di blocchi di cemento alti otto metri, con grate metalliche, filo spinato, telecamere, sensori e torri di avvistamento, penetra nei territori palestinesi occupati allontanandosi dai confini internazionalmente accettati e inglobando il 7 per cento della Cisgiordania, compresi una quarantina di colonie israeliane e 300 mila palestinesi. «Ramallah finirà divisa in due, come Berlino», dicono i responsabili del Mapping Department della Società di Studi Arabi. «Ma ci sono decine di casi analoghi: il Muro separa le fattorie dei contadini dai loro terreni, le case dalle scuole dei bambini, le abitazioni dalle vie d’accesso...».
Una sola barriera è stata smantellata di recente: ai primi di marzo, il presidente greco-cipriota ha ordinato la demolizione del tratto di Muro di Ledra Street, a Nicosia, l’ultima capitale divisa dell’Europa. L’invasione turca di Cipro nel 1974 e la spartizione dell’isola sono ancora ferite aperte e la soluzione diplomatica del contenzioso che frena Ankara verso l’Unione europea è ancora irta di ostacoli.
Ma altri Muri vengono rapidamente innalzati oppure rafforzati. Contro le infiltrazioni dei terroristi, a difesa di territori contesi, per arginare l’immigrazione o il contrabbando di armi o il narcotraffico. In Sudafrica la rete elettrificata a 3.300 volt del Kruger, posata nel 1975 per impedire il transito dei guerriglieri mozambicani e dell’African National Congress, oggi utilizzata per bloccare i clandestini, ha ucciso più del Muro berlinese.
Nel Sahara occidentale il Muro di Sabbia lungo 2.700 chilometri, costruito nel 1975 da re Hassan II per contrastare le incursioni del Fronte Polisario, è la muta testimonianza di oltre trent’anni di fallimentari sforzi negoziali per garantire al popolo saharawi l’autodeterminazione.
Una recinzione di sicurezza è stata eretta anche a Sharm el-Sheikh, dopo gli attacchi terroristici che hanno colpito la frequentata località turistica sul Mar Rosso. E barriere anti-immigrati sono state erette nel 2006 tra Cina e Corea del Nord, e nel 2007 tra gli Emirati e l’Oman.
Negli Stati Uniti, dove il numero degli immigrati illegali sfiora i 20 milioni, sono allo studio nuove misure per rendere meno permeabile la frontiera con il Messico, da dove proviene il 78 per cento dei clandestini. Nel 2005 poco più di 100 chilometri dei 3.200 del confine erano attrezzati con barriere e palizzate elettrificate. Nello stesso anno sono stati fermati 1,2 milioni di abusivi e sono state sequestrate armi e tonnellate di droga. Ma almeno un milione di illegali è riuscito ad attraversare il Río Grande (versione messicana), o Río Bravo (versione americana), o a passare dai tunnel scavati nel deserto: non meno di 40 gallerie sono state scoperte dopo l’11 settembre.
Lo scorso anno il governo federale ha approvato la costruzione di altri 1.500 chilometri di sbarramenti, e sta valutando ulteriori misure: un sistema integrato di sensori e telecamere che dovrebbe costituire un’insormontabile barriera virtuale; il raddoppio delle palizzate; una nuova legge sull’immigrazione. Ma la grande muraglia contro l’ondata dei clandestini è destinata a restare un colabrodo, almeno finché il reddito pro capite americano (30 mila dollari) e quello messicano (4 mila dollari) continueranno ad allontanarsi tra loro. Se la spinta all’emigrazione è la necessità economica, barriere, muri, trincee, radar e carceri possono limitare i flussi, ma non risolvere il problema.
In dieci anni oltre ottomila illegali hanno perso la vita nel tentativo di approdare alle coste europee. Quando la Spagna è intervenuta con la forza per sigillare il passaggio dello Stretto di Gibilterra, gli immigrati si sono riversati alle Canarie e alle énclaves di Ceuta e Melilla. Moltissimi i morti, nel tentativo di scavalcare la “Valla” di Ceuta, la barriera a doppia griglia in acciaio, lunga dieci chilometri e circondata da una trentina di torri di avvistamento: il primo Muro costruito in Europa dopo quello di Berlino, che Madrid vuole potenziare con tecnologie d’avanguardia.
Nel nostro piccolo, anche da noi c’è un Muro, quello di Padova: alto tre metri, lungo 84, lastre d’acciaio spesse 4 millimetri. Voluto per impedire l’accesso a via Anelli di prostitute, spacciatori e tossicodipendenti, in un quartiere diventato la discarica per immigrati extracomunitari. Soluzione provvisoria? Una volta alzate, le barriere sono difficili da abbattere. Soprattutto quando crescono nelle coscienze.

 

   
   
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