Settembre 2007

GEO-POESIA

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L’Italia in versi
Ada Provenzano - Giorgio Franciosa - Elisa Minerva
 
 

 

 

 

Il Sud della fuga: le partenze con anabasi via via più rade, e i voli lunghi verso pianure
continentali ignote, verso attracchi
fortunosi, verso città dagli spazi serrati, da
conquistare con
la forza delle
braccia e con
il filo del rasoio.

 

Sud trasformista, si dice; come se dalla linea di confine che separa l’Abruzzo e la Campania dal resto della Penisola cambiare opinione o campo o casacca sia una prerogativa esclusiva! Restiamo in Italia, allora, e facciamo qualche esempio emblematico della diffusione di questo (mal)costume, chiamando in causa un poeta-vate, Giosuè Carducci, che la critica ha condannato due volte: dapprima congelandone l’immagine, inchiodata ad alcuni testi convenzionali, sebbene notoriamente memorabili, scelti Dio solo sa con quali criteri; e in seguito con la parola d’ordine secondo-novecentesca che imponeva di scaricare questo autore, concentrando su di lui il duplice e contrastante malumore con cui lo osservavano, da posizioni rigide e sterili, sia una parte della critica tardo-gramsciana e marxista sia una parte di quella cattolica.
Ebbene: Carducci fu giacobino senza diventare rivoluzionario; fu repubblicano, ma accettò il laticlavio senatoriale del Regno; dedicò un inno A Satana, ma aveva fatto battezzare i figli; la fedeltà coniugale non gli impedì la passione per Lina Piva, la “Ninfa Egeria”, e una disordinata relazione con Annie Vivanti; contrario al colonialismo, esaltò i soldati italiani il giorno della sconfitta di Adua…
Oppure diamo un’occhiata in giro nel mondo: noteremo che Peter Handke è solidale con il “boia dei Balcani”, Slobodan Milosevic; che Mozart parlava a vanvera di politica; che Eliot era antisemita; che Ezra Pound era un convinto razzista; che Brecht e Neruda erano stalinisti; che Pasolini non capì nulla del boom democratico italiano; che Céline era di destra; che Picasso era un accanito maschilista; che Borges simpatizzava per Pinochet; che Heidegger e Schmitt tifavano per Hitler e Pirandello per Mussolini (dopo il delitto Matteotti); che Pinter detesta Bush, mentre Vargas Llosa disprezza i caudilli latino-americani e Brodsky ce l’ha a morte con il comunismo; che nel frattempo Saramago è comunista, al modo di Fuentes; e che tutti possono vivere splendidamente solo perché vivono e lavorano in contesti democratici di libero mercato, di libero pensiero e di libero arricchimento...

Il Sud terra dell’assistenzialismo, si dice pure. E si dimentica che fu area di autonoma ricchezza e di moderno sviluppo, fino al giorno in cui l’unità dello Stivale voluta dai Savoia determinò la protezione delle produzioni del Nord, l’eradicamento delle iniziative industriali nelle regioni meridionali e le strategie politiche di sviluppo sbilanciato che tuttora perdurano. Nacque così, e mai è stata realmente risolta, la celebre – e ora decisamente abolita – “questione”, che ha impegnato – invano – gli intellettuali più sensibili del Mezzogiorno.
Mentre per i poeti si è dispiegato un percorso del tutto originale, unico al mondo, e nello stesso tempo in sintonia con quello degli altri Sud del pianeta: la separatezza geografica non ha impedito al canto di farsi eco corale di vicende del tutto simili a quelle dei popoli oppressi, delle genti neglette, capitoli di un dolore universale che è emerso da una condizione umana, da un clima, da una visione del mondo, insomma, che non ha pari per specifica connotazione identitaria e per unitaria ricchezza di sentimenti e di espressioni nel resto del territorio italiano.
Tu non conosci il Sud, le case di calce / da cui uscivamo al sole come numeri / dalla faccia d’un dado: è il Sud di Vittorio Bodini, nato a Bari, ma leccese d’elezione, che insieme con Girolamo Comi e con Vittorio Pagano formò la triade di poeti di respiro europeo che impose il Salento e la sua vivacità creativa all’attenzione dei maggiori esponenti della nostra cultura. Fu, il Sud, tema scarno, non musicale né retorico, ma sicuramente originalissimo nei contenuti, in “La luna dei Borboni”, raccolta apparsa nei “Meridiani” di Mondadori, accanto alle opere dei maggiori poeti italiani coevi.
Vi scriveva: Sulle pianure del Sud non passa un sogno. / Sostantivi e le capre senza musica, / con un segno di croce sulla schiena, / o un cerchio, / quivi accampati aspettano un’altra vita. / Tutto è evidenza e quiete, e si vedrebbe / anche un pensiero, un verbo, / con il bigio sgomento d’una talpa / correre tra due pietre. // La pianura mirare a perdita d’occhi, / senza case, senz’alberi, senza una lettera: / livello di un’assenza a cui sole si sporgono / capre o spettri di capre morte da secoli, / che bruciano le amare giade dell’insonnia, / l’acciaio senza luce d’antiche spade, / quando popoli amari si scontravano / e di sangue tingevano i cieli della preistoria…

Ancora Bodini, e ancora il suo Sud: Cade a pezzi a quest’ora sulle terre del Sud / un tramonto da bestia macellata… / Il buio, / com’è lungo nel Sud! Tardi s’accendono / le luci delle case e dei fanali…; con il tema del rosso-sangue che ritorna più volte, con macerante pessimismo: Viviamo in un incantesimo, / tra palazzi di tufo, in una grande pianura. / Sulle rive del nulla / mostriamo le caverne di noi stessi / – qualche palmizio, un santo / lordo di sangue nei tramonti, un libro / lento, di pochi fatti… È l’incantesimo di un passato che non passa, che condiziona pensiero, gesti, moti dell’anima. Noi parliamo del logos e dell’amore, / sorpassando più volte le nostre case… // Ma tu, luna, le incognite finestre / illumini del Nord, / mentre noi qui parliamo, / nel fondo di quest’esule provincia / ove di te solo la nuca appare.

Il Sud che fu, espressione di un’antropologia umana e civile inchiodata all’immobilità che non intendeva concludere il suo ciclo secolare, per affrontare l’incognita di un futuro con altre istanze e con valori differenti.
Così il Sud di Mario Gori: Il Sud ha strade di fango / e siepi d’agavi e rovi / e case basse tinte di fumo / e donne vestite di nero / che lavano avanti le porte / e attendono uomini e muli / con occhi d’ansia, cupi di tramonto. // E uomini ha il Sud / vestiti di pastrani militari / e berretti mafiosi, / le barbe lunghe d’una settimana, / l’ossa stoccate d’annate di zappa / e il sangue fosco di silenzio e amore. // Il Sud prega e bestemmia / i santi neri delle processioni. // E vecchi ha ancora il mio Sud, / accattoni di sole, / vecchi che bevono il vino / e intrecciano fili di giunco / e reti rattoppano / e narrano antiche sfortune. // Si butta l’olio sull’acqua / per le ragazze che han seni di noci / e attendono morsi di uomini / e sull’acqua poi il sale / sputando parole saracene / contro malocchio e fatture. // Ma ci si perde a vent’anni nel Sud / per un garofano rosso.
E così, quasi perfettamente speculare, il Sud di Franco Costabile: Mio Sud, / mezzogiorno / potente di cicale, / sembra una leggenda / che vi siano / torrenti a primavera. // Mio Sud, inverno mio caldo / come latte di capre, / già si dorme / fratello e sorella / senza più gusto. // Mio Sud, / pianura mia, / mia carretta lenta. / Anime di emigranti / vengono la notte a piangere / sotto gli ulivi, / e domani alle nove / il sole già brucia, / i passeri / a mezz’ora di cammino / non hanno più niente da cantare. // Mio Sud, / mio brigante sanguigno, / portami notizie della collina. / Siedi, bevi un altro bicchiere / e raccontami del vento di quest’anno. // Mio treno di notte / lento nella pianura / Battipaglia… Salerno… / mio paesano stanco sulla valigia, / come vagabondo…
Il Sud della speranza, si dice anche. Cioè dell’illusione lunga, del cumulo di inganni perpetrati dalla Storia, del patto tradito, dell’assedio del deserto, dell’abbandono delle terre rosse di bauxite e di vergogna.
Il Sud degli ulivi cui è rimasto – chiuso tra i nodi secolari – soltanto il cuore. Scrive un poeta schivo, e anche per questo frettolosamente dimenticato, Luigi de’ Simone: Con l’ozio che è un firmamento / e il sole portato a spalla, // col mare fino al mento / tirato come un sudario // fa molto male il mosto / delle speranze…

Il Sud, questo Sud: ma di chi? Chiarisce Ennio Bonea: È fatto di pietre il mio Sud / di terribili uomini in lotta / contro la roccia dei millenni. / Le donne aspettano la sera / i figli che fuggono di casa, / intorno al focolare. / Le figlie dietro i vetri / spiano nella strada / il venditore di percalla / sognando futuri di Penelopi. // Sono uno di loro / uno dei bruciati cafoni, / ma venate non ho mani / come foglie di tabacco; / piedi non ho ampi come pale / e duri come zoccoli di mulo / né dal cuore purissimo / so trarre canzoni da lanciare / col fiore in bocca sui balconi.
Il Sud della fuga. Le partenze con anabasi via via più rade, (Luciano Folgore ci offre l’immagine-desiderio del “nostos”: Carri di paglia: / scricchiolio delle erbe secche / per tutta la città, / pestate da piedi di vento fresco / in cammino verso il Sud. / Ditate di zafferano sugli alberi. / Una foglia, / due foglie, / tre foglie. / Desiderio di farsi trascinare, / a lungo, / oltre l’ovest, / dai rossi nastri del crepuscolo), e i voli lunghi verso pianure continentali ignote, verso attracchi fortunosi, verso fiumi disumanamente giganteschi, verso città dagli spazi serrati, da conquistare con la forza delle braccia e con il filo del rasoio. Scrive un malinconico Lucio Romano: La buona novella / l’aspettammo da sempre / mirando stelle e pietre / ed alberi malati. // Ogni giorno con zappe ed aratri / coltivammo cuori di rocce: / raccogliemmo piante bruciate / raccogliemmo raggi di sole. // Ovunque andiamo il Sud ci accora: / terre assetate, piante piegate, / uomini che non sanno più amare. / Neppure l’aria puoi dire che è tua: / le case si frantumano al sole.
Le ferite della nostalgia non rimarginano, stillano memorie non del tutto perdute. E se Giacinto Spagnoletti mette in campo versi dal timbro greco, (e non per nulla era nato nella spartana Taranto): I marinai raccontano / che nel partire sempre / guardano la terra ansiosi: / dove la terra muore / e le ultime palme ondeggiano / sorridenti fanciulle / coi fazzoletti muti / il volo dei capelli neri / promettono ai marinai perduti, Eraldo Miscia riapre il discorso del nudo realismo descrittivo, foto in bianco e nero di drammi senza nome, di vincoli recisi, di solidarietà disperse, di radici definitivamente strappate: Scorticammo la giovenca bianca / e non parlammo con nessuno, / così partimmo per l’altro mondo. / Noi non gridammo / e non dicemmo verbo. / Nessuno lo sapeva che eravamo santi. // Ce ne andammo e non ci si vedeva, / il gallo pastore ancora non cantava. / Dove sarà quell’altro mondo? / Nessuno lo sapeva, / non lo sapeva la strologa / e noi lo sapevamo. // Così ce ne andammo ed eravamo due. / Non c’era il sole / ma c’erano le stelle, / sentendo i nostri passi / altro non si sentiva. / Ce ne andammo / e nessuno lo sapeva, / così partimmo per l’altro mondo. // Nessuno lo sapeva che eravamo santi.
Immagini che riemergono, implacabili, ad alimentare lo spleen che tocca le corde più segrete e più vibranti dell’esule cantato dal poeta Gaetano Savelli: …Rinunci alla tua terra e alla lusinga / cedi di nuova sorte; / ma con te è l’immagine di cieli / noti, di amori, di paesi sparsi / su docili colli. / Storia di scarso pane ti accompagna / nel lungo viaggio, / mentre batte nel sangue la memoria / dei cari volti. // Canta se puoi cantare, ma il distacco / in gola ti fa nodo, / mentre la sera oscilla entro i suoi lumi / perdutamente.
E ancora Miscia, a fare i conti con i ricordi: I giorni io colgo in mezzo al mondo, / l’odore della tua pelle. / Sulla città un tropico si accende / l’occhio del sole / le notti ritarda. // Vorrei bruciare come un carro di fieno / lungo la strada del Sud, aperta al mare. / E seguire la polvere dei tuoi passi / tra i sentieri di fichidindia / e le rovine sovrumane e aride / dove le cicale si suicidano nel canto.
Un altro classico, poi. Anch’esso tarantino, e come Spagnoletti critico letterario (e d’arte) e poeta di levatura, Raffaele Carrieri: Trascorremmo in altri lidi / e in altre vite / la nostra vita. / Isole penisola estuari! / Allegri furono i mari / e le terre degli anforai. / Ci ritroviamo negli avi / come schiavi in una danza: ripetiamo l’arroganza / e un’allegria senza speranza.
Il Sud siceliota e quello magnogreco, infine. Il Sud che ha illuminato il mondo. Il Sud che ha guardato dentro di sé, nel pozzo del suo passato, ma che ha simultaneamente scandagliato gli orizzonti e le altezze e le profondità degli universi che, circondandolo, o assediandolo, comunque gli offrivano la materia nucleare dalla quale distillava poesia.
È, primo fra tutti, il Sud estenuato di Salvatore Quasimodo, con gli echi ondulari delle sue esistenze dissugate, con gli scialli neri della sua storia, con i fatalismi proclivi del suo presente senza riscatto: La luna rossa, il vento, il tuo colore / di donna del Nord, la distesa di neve… / Il mio cuore è ormai su queste praterie / in queste acque annuvolate dalle nebbie. / Ho dimenticato il mare, la grave / conchiglia soffiata dai pastori siciliani, / le cantilene dei carri lungo le strade / dove il carrubo trema nel fumo delle stoppie, / ho dimenticato il passo degli aironi e delle gru / nell’aria dei verdi altipiani / per le terre e i fiumi della Lombardia. / Ma l’uomo grida dovunque la sorte d’una patria. / Più nessuno mi porterà nel Sud. // Oh, il Sud è stanco di trascinare i morti / in riva alle paludi di malaria, / è stanco di solitudine, stanco di catene, / è stanco nella sua bocca / delle bestemmie di tutte le razze / che hanno urlato morte con l’eco dei suoi pozzi, / che hanno bevuto il sangue del suo onore. / Per questo i suoi fanciulli tornano sui monti, / costringono i cavalli sotto coltri di stelle, / mangiano fiori d’acacia lungo le piste / nuovamente rosse, ancora rosse, ancora rosse. / Più nessuno mi porterà nel Sud…
E il dissacrante Vittorio Pagano, in conclusione. Il poeta che amò e liberamente tradusse i lirici greci, Quasimodo. Il poeta che amò e rigorosamente tradusse i francesi maledetti, Pagano: Villon antesignano, prima d’ogni altro, con i segni complici di un pittore erratico, Tonino Caputo; e quelli a noi nel tempo più vicini, perché ne potessimo cogliere le amare assonanze del canto e l’immaginifica sintassi del verso: Questi soliti olivi… Ormai s’è persa / una pena del sangue nella loro / devastazione – al sole – che fa cenere / e miseria: s’abbarbicano al nudo / sasso, la terra estorcono ai contesi / pascoli, tramortiscono il furore / del giorno nella verde irresistenza / del flusso in cui s’adempiono. // Bandiere / di luce lente oscillano nel cielo / senza pietà del mondo – e interminata / la pianura s’obliqua e si frastaglia / contro ogni senso…
Antico e nuovo, il cuore fibrillante del Sud di Pagano, con i suoi palpiti scomposti, con gli incanti irregolari, con l’odio-amore per la messinscena recidiva, per i ritmi martellanti della danza panica… È tempo di rito del passaggio; è momento di vecchia sterile pelle da farsi scivolare, al modo di quella di un rettile, lungo il corpo; è l’attimo folgorante che esalta il rinnegamento di sé e della Storia di sé; o è forse apparenza di un’altra primavera, aurora di un nuovo miraggio che riaccende vane speranze e illusioni di indomiti vinti: Miti del Sud, addio. L’occhio si sbarra / nelle spirali e vi s’accieca… // La Grecia, Roma, i tufi, la pianura, / le scogliere del Capo, gli oliveti, / tutto si squarcia – e in alto ne perdura / l’onda, il disintegrarsi, in alto, ai vieti / culmini d’omertà che la paura / innalza agl’ippogrifi… // E saremo i Giasoni per il vello / di tenebra e di piombo, contro i mostri / che partoriamo. Immersi nel rovello / del nulla, graffieremo come rostri / la lapide del sogno… Il cuore è quello / che fu, geloso, avaro, ebbro dei nostri / vecchi tesori – e il canto della prèfica / è la sua cifra orribile e benefica.

(3 - continua)

 

   
   
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