Settembre 2007

Opere d’arte trafugate

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Forse ritorneranno
Tonino Caputo - Sergio Tutino - Carlo De Carlo
 
 

 

 

 

 

 

 

Emblematico
delle difficoltà di accordi è il caso del bronzo
attribuito a
Lisippo, pescato
al largo di Fano
e acquisito da
un Paul Getty
Museum tutt’altro che innocente.

 

La miliardaria americana Shelby White, dopo mesi di trattative col governo italiano, ha accettato l’accordo per la restituzione del “Piccolo vaso di Eufronio”, (l’altro, il Grande vaso di Eufronio, era al Metropolitan, e dopo una serie di polemiche e di prese di posizione decisive da parte italiana ci era stato ridato). Il “Piccolo vaso” è un gioiello dell’arte classica. Era stato trafugato nel nostro Paese molti anni fa. Ora farà ritorno in Italia, insieme con altri otto “pezzi” archeologici, che la collezionista statunitense ha deciso di restituire.
Chiuso un contenzioso, se ne apre un altro: è stata data dall’Italia un’estrema opportunità al Getty Museum, e forse non è lontano un accordo per il rientro nel nostro Paese delle opere scavate di frodo e illegalmente esportate negli Stati Uniti e acquistate dal museo, inaugurato a Malibu nel 1974, riaperto al pubblico lo scorso anno, dopo un decennio di restauri, e in possesso di 44 mila reperti archeologici.
I reperti da restituire a noi sono una cinquantina, e fra l’altro comprendono la Venere di Morgantina, (scavata in Sicilia negli anni Settanta, scolpita nel V secolo a.C., alta circa due metri, acquistata dal Getty nel 1988), i Due Grifoni che sbranano un’antilope, (pagati dal Getty 7 milioni di dollari al mercante di Londra Robin Symes, mentre il trafficante laziale Giacomo Medici possedeva una foto del momento in cui erano stati appena scavati, dunque prima ancora del restauro), e il Bronzo d’atleta, attribuito a Lisippo (pescato al largo di Fano nel 1964, portato a Gubbio e a lungo nascosto in Italia, poi migrato clandestinamente al Getty, che lo comperò nel 1977 per 5 miliardi di lire).
Quello del Getty è il problema numero uno. A tutti i musei d’oltre Atlantico l’Italia richiede opere di cui vi è l’evidenza del trafugamento illecito dalla Penisola. In questi mesi i dirigenti del Getty sono cambiati, e l’Italia ha deciso di proporre loro un’ultima possibilità di collaborazione: le nostre autorità hanno inviato la bozza di un accordo dettagliatissimo, con l’elenco delle opere richieste, insieme con un programma di cooperazione culturale e scientifica ad ampio raggio. Non si nasconde una certa trepidazione: da certi messaggi ricevuti, si avverte la possibilità di una svolta positiva, anche se i tempi sono scaduti. Ma se non si chiude positivamente l’accordo, la conseguenza potrebbe essere solo l’immediata interruzione di ogni forma di collaborazione, vale a dire un vero e proprio embargo.

Tra tutti i musei americani, il Getty sembra essere il più sordo, il meno disponibile ad un accordo. Dopo quelli con il Metropolitan (il notissimo Moma) e il museo di Boston, l’Italia ha trovato un agreement con il museo di Princeton e, appunto, con Shelby White, vedova di Leon Levy, la “vip” statunitense che ha finanziato la nuova ala greco-romana del Metropolitan e che possiede una cospicua collezione, anche questa “inquinata”. E proprio per togliere ogni ombra di sospetto la miliardaria ha deciso di stare al patto con l’Italia, con un gesto rilevante, perché non c’è un obbligo giuridico alla restituzione di opere d’arte appartenenti a una collezione privata.
Ora alcuni esperti e alcuni politici italiani si augurano che al più presto il nostro Parlamento approvi le nuove norme presentate alla Camera contro i “predatori”, con più efficaci indagini e pene più severe nei loro confronti. Infatti, è davvero sorprendente il fenomeno dell’archeologia saccheggiata in Italia. È spaventosamente superiore a quanto si possa immaginare. E colpisce in modo particolare l’intreccio, instaurato da decenni, fra trafficanti, mediatori spregiudicati e curatori di collezioni per privati danarosi e per musei pubblici. Ogni capitolo delle indagini (e si pensi alla tenacia di valenti magistrati che si occupano del settore, oltre che dei carabinieri del Nucleo per la Tutela del Patrimonio Artistico) ha svelato verità inimmaginabili, che si leggono come un vero e proprio romanzo: ma romanzo a tutti gli effetti criminale.
Colpa di un Paese troppo a lungo distratto da tutt’altre faccende? Di sicuro, un Paese indegno delle ricchezze d’arte e di storia che possiede. Un Paese di scarsa o nulla dignità, che continua a trascurare l’eredità ricevuta dalla Storia. Una terra di rassegnata incapacità di gestione del patrimonio, ritenendolo con ogni probabilità sovrabbondante: non a caso fino a una quindicina di anni fa la maggior parte dei nostri musei erano più chiusi che aperti, le aree archeologiche permeabili come gruviere, i magazzini stracolmi, i restauri lentissimi, le valorizzazioni pressoché sconosciute. E, su tutto questo, l’altro malanno: il desiderio di società ricche, primi fra tutti gli Stati Uniti, in cui cresceva il fascino per l’archeologia, che spingeva a dotarsi di collezioni di livello, senza andare tanto per il sottile. Tutto questo ha alimentato un circuito infernale di scavi clandestini, di oscure mediazioni, di traffici illeciti.
Ottimismo per il futuro? Vediamo un po’. Ci sono stati accordi di grande portata, per esempio con la Svizzera (pensiamo che la Venere di Morgantina risultò acquistata a Chiasso da un cambiavalute, il quale dichiarò di possederla per eredità di famiglia, smentito però da sua sorella, che stava dietro al bancone di un bar). Negli ultimi anni, poi, c’è stata una sorta di svolta culturale: siamo un poco più attenti al nostro patrimonio artistico, del quale stiamo imparando ad apprezzare il valore, oltre che economico, anche di attrazione turistica. E gli archeologi e gli studiosi internazionali hanno cominciato ad isolare i musei corrivi con acquisizioni sospette.

Emblematico delle difficoltà di accordi è il caso del bronzo attribuito a Lisippo, pescato al largo di Fano e acquisito da un Paul Getty Museum tutt’altro che innocente, dal momento che sostiene falsamente che si trovava non in acque territoriali italiane, ma in acque internazionali. È doveroso attendere ora il pronunciamento della Procura di Pesaro, che ha aperto un nuovo procedimento sul trafugamento della statua.
Dunque, la Venere (due metri di altezza, 2400 anni di età, una delle opere d’arte più preziose del mondo antico) dovrebbe tornare, mentre, secondo il direttore del museo di Malibu, a Los Angeles, Michael Brand, il bronzo di Lisippo «è statua greca, ritrovata in acque non italiane, sicché le richieste avanzate dall’Italia non hanno alcun fondamento giuridico». E come no! Il Getty è disponibile a restituire al nostro Paese 26 opere, su 52 richieste: e già il numero, oltre che cospicuo, delle restituzioni è indicativo dell’attività di filibustering portata avanti dal museo americano.
Davvero esemplare la vicenda della Morgantina. La Corte d’Appello di Caltanissetta, con sentenza del 13 gennaio 2003, dispone la confisca della statua a partire dal giorno seguente. Il verdetto mira a risolvere la contesa sull’Afrodite esposta al Getty, che l’Italia rivuole indietro. Dopo mesi di lettere minacciose, cui seguivano decisi rifiuti da parte del museo americano, riemergono vecchie sentenze che sciolgono ogni dubbio.
Tutto inizia da un processo, intentato nel 1986 contro un tabaccaio e cambiavalute elvetico, Renzo Canadesi. Costui vende la statua per 400 mila dollari all’antiquario londinese Symes, che, a sua volta, la cede al Getty, nel 1988, per 18 milioni di dollari. Canadesi viene condannato dal Tribunale di Enna «perché, al fine di trarne profitto, acquistava o comunque riceveva una statua di donna drappeggiata con il corpo in pietra calcarea e la testa di marmo, risalente al V secolo a.C.». L’opera, chiarisce la sentenza, proviene da scavi clandestini e il tabaccaio l’ha acquistata «pur conoscendone l’illecita provenienza».

La scultura è stata rubata dall’antica città di Morgantina, nei dintorni di Aidone (Enna). Canadesi è inoltre condannato a due anni di reclusione e a 10 milioni di lire di multa. Il 13 gennaio 2003 la Corte d’Appello di Caltanissetta lo assolve per prescrizione del reato. Il giudice dispone però la confisca dell’opera. Ma il Getty non batte ciglio: non sa (o finge di non sapere) della sentenza, oppure ha deciso di infischiarsene? Ad Aidone migliaia di persone scendono in piazza, reclamando il capolavoro. Il Getty interrompe le trattative, che poi, di fronte alle vibrate proteste del governo italiano, è costretto a riprendere e a concludere: entro la fine di quest’anno l’Afrodite tornerà all’area siciliana di origine.
Ma così, secondo alcuni pensatori (ma di pensiero debole) americani, non dovrebbe essere per il bronzo attribuito a Lisippo. Agli italiani non capita molto spesso di essere accusati di imperialismo. Eppure, è esattamente a questo che pensa Kwame Anthony Appiah, che insegna filosofia all’Università di Princeton, quando sente rivendicare in nome dell’appartenenza al patrimonio culturale italiano statue come quelle dell’Atleta o altri reperti archeologici o infine opere d’arte in genere. Dice il professore: «Sento l’espressione “patrimonio culturale italiano” oppure “eredità nazionale” e immagino gli artisti greci o etruschi rivoltarsi nelle tombe. Stiamo parlando di oggetti creati prima della nascita delle nazioni moderne da persone che non si sentivano certamente cittadini italiani. Magari si ritenevano culturalmente greci o romani, ma se glielo avessi chiesto probabilmente avrebbero detto di essere ciprioti, o ateniesi».

Il sillogismo del docente di filosofia non si ferma qui. Pur non entrando nel merito della proprietà dei pezzi contesi, sostiene che nessuno mette in discussione la legge: se qualcosa è stato rubato, i diritti del legittimo proprietario devono essere garantiti. Ma secondo lui, un londinese cresciuto in Ghana che si occupa di questioni legate all’etica e all’identità di una società sempre più cosmopolita, c’è qualcosa di stonato nel pensare che la grande arte debba per forza risiedere nel Paese dove venne prodotta migliaia o centinaia o decine di anni fa: «Quello della territorialità è un modo di pensare alle opere d’arte che non solo è un po’ provinciale, ma che può risultare controproducente. Perché secondo lo stesso principio i musei romani dovrebbero restituire tutte le opere di dubbia provenienza da altri Paesi, a partire dalla Grecia e dall’Egitto. Alla Libia dovrebbero tornare i monumenti dell’Impero romano creati durante la campagna africana. E tutti quei quadri di artisti nordeuropei che hanno lavorato per i papi?».
Di chi sia veramente una grande opera d’arte – sostiene ancora il docente di filosofia – spesso è un concetto del tutto arbitrario. Venezia non sarebbe come la conosciamo adesso, senza i costanti contatti con l’Estremo Oriente: e queste contaminazioni non si sono mai arrestate, afferma il professore, il quale sembra ignorare del tutto i contatti assai più forti, profondi e costanti della città lagunare con il Vicino Oriente.
Un esempio dei nostri giorni? Presto detto: «Si pensi alle Demoiselles d’Avignon, il quadro di Pablo Picasso che secondo alcuni ha dato inizio all’arte contemporanea: l’ispirazione viene da una scultura di un villaggio del Congo mostrata a Picasso da Henri Matisse a casa dell’americana Gertrude Stein, e il quadro ora è al Moma di New York, che lo ha comprato. E va benissimo così, ma andrebbe bene anche se fosse a Madrid, a Parigi o a Pechino. Chiedersi di chi sia, o se sia spagnolo o francese o congolese o americano, è sbagliato: è patrimonio dell’umanità».
Appiah riconosce che in questo momento il diritto internazionale è talmente carente, che minaccia la tutela stessa delle opere d’arte: «Basti vedere cosa è successo in nome del concetto di proprietà nazionale al museo di Kabul, nel 2001, al tempo dell’editto dei talebani contro l’arte pre-islamica. Consapevole del fatto che molti capolavori erano a rischio, Paul Bucherei, uno studioso svizzero, era riuscito a negoziare un accordo con esponenti talebani moderati per trasportare le opere fuori dall’Afghanistan. Ma in nome dei trattati contro i traffici illeciti di opere d’arte, l’Unesco rifiutò di autorizzare la spedizione in Svizzera, Paese che avrebbe ospitato temporaneamente quei pezzi. Di più: a un meeting dell’Unesco, Bucherei venne criticato duramente. Fino a che ispettori talebani si presentarono al museo e distrussero i capolavori dell’arte pre-islamica. Certo, si tratta di un caso estremo, che riflette però i limiti della legge: il problema non sono i funzionari dell’Unesco, che hanno fatto solo il loro dovere, ma le leggi che ruotano attorno all’idea di patrimonio nazionale».
Certamente le leggi sono carenti. Ma sono stati complici di un atto di criminalità contro le opere d’arte proprio gli ottusissimi funzionari dell’Unesco, che si trovavano al cospetto di un caso eccezionale, e che avrebbero dovuto avere il coraggio – civile e culturale – di prendere provvedimenti eccezionali per la salvaguardia di un patrimonio d’arte afghano a tutti gli effetti, e a disposizione della cultura planetaria. Ma il materialismo pragmatico di radice tutta wasp è duro a morire. Sostiene infatti Appiah che persino le opere d’arte rubate in Italia dovrebbero restare negli Stati Uniti. Ecco il ragionamento sottile del docente di filosofia: «Dopotutto, non credo che ci sia una carenza di grande arte greco-romana in Italia; che ce ne sia poca in California invece è sicuro. Intendiamoci, io trovo che sia bellissimo e molto stimolante ammirare Caravaggio nel suo contesto naturale, per esempio nella chiesa di Piazza del Popolo, per la quale è stato dipinto. E per questa ragione sono convinto che i marmi del Partenone che sono al British Museum dovrebbero essere ad Atene. Ma solo perché hanno più senso lì, non certo perché fanno parte del patrimonio culturale greco».
Facendo l’ipotesi che l’Italia avesse bisogno di personaggi così abissalmente pensosi, e che dunque Appiah fosse cittadino italiano, che cosa farebbe in proposito? Davvero sorprendente la risposta: «Continuerei la mia battaglia legale sui pezzi di dubbia provenienza. Ma una volta chiarito che si tratta di proprietà del governo italiano, mi chiederei se è veramente meglio che tornino in Italia, o se non sia più opportuno che stiano al Getty o in qualche altro museo. Organizzerei, per esempio, un’esposizione itinerante di tutti i pezzi rubati per mostrarli in Africa o in America Latina: ovunque ci siano persone troppo povere per viaggiare. Oppure proporrei scambi con grandi musei asiatici: non mi sembra che ci siano molti esempi di grande arte cinese a Napoli o a Firenze. Ne farei un’opportunità per allargare a tutti la possibilità di godere del bello».
E così trovano degna giustificazione scavi clandestini, traffici illeciti, appropriazioni banditesche. Coraggio, professore. Si dia da fare per esibire in Africa, in America Latina e in Asia gli scalpi degli affari truffaldini dei suoi connazionali. Ma per la sua salute – come diceva un gran poeta – non transiti mai per l’Italia, dove ci si vergognerebbe persino di stringerle la mano.

 

   
   
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