Settembre 2007

Percorsi dei misteri

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Dalle baccanti
alle tarantate
Luca Boneschi - Marco Del Fiore
 
 

 

 

 

All’ingresso del santuario veniva offerto il ciceone, una miscela densa di acqua, farina d’orzo e menta aromatica,
preparata secondo la ricetta della dea: un antenato naturale dell’Lsd?

 

«Aprite bene gli occhi, il Mistero ha inizio. Ammirate e stupite. In silenzio. Del Mistero non si parla, il Mistero chiude la bocca, sospende la parola e spalanca i sensi. Ascoltate, visitatori, suoni e voci di un altro mondo. Ammirate l’arte di una sapienza lontana e arcana. Cercate nei particolari i segreti, pur sapendo che il segreto ultimo è irraggiungibile. Captate cenni di speranza e saggezza. E pacificatevi». Così Cinzia Dal Maso presentava una mostra sui Misteri, poco meno di due anni fa, ospitata al Colosseo, per quanto i suoi ambulacri potessero consentire un clima intimo, raccolto, notturno: con opere cui i Misteri alludevano, e con suoni e voci che del Mistero erano l’essenza. Con gli dèi (Demetra, Dioniso, Persefone, Cibele, Iside, Mithra) tutti in fila, esedra dopo esedra, e statue, rilievi, ciste, altari, pitture, epigrafi, ciascuno immerso nelle proprie voci, le scarse (scarne) concesse parole che alludono all’ineffabile.
Mistero, per cominciare, delle Menadi, che danzano ritratte in basi di statue e colonne, e in vasi, sarcofagi, altari, con la loro grazia, levità e forza: ma che cosa facessero esattamente una volta in preda all’estasi non si sa. I particolari di tutti i riti misterici dell’antichità non li ha tramandati nessuno. Però le immagini della moderna Taranta, i suoni della musica che la avvolgono, la danza che dispiega a piedi nudi, ci fanno avvicinare all’antico più di mille parole. Baccanti e tarantati forse non sono poi così dissimili.
Si può proseguire con Demetra e Persefone, fertilità e cicli della terra, timori e speranze della donna e della sposa. Sono visibili nelle lastre Campana come nell’urna Lovatelli dai rilievi parlanti (il primo fumetto della storia?). Trionfano nella lunga e stupenda teoria di pinakes di Locri, i singolarissimi riquadri in terracotta che le donne erano solite offrire a Persefone nel suo santuario calabro: un susseguirsi di scene di vita terrena e ultraterrena, nel santuario o nell’intimo delle stanze femminili.
Poi il percorso può continuare con l’enorme volto di donna – fisso, enigmatico – dell’acrolito Ludovisi. Da quale luogo provenga non è dato sapere, ma l’accostamento con i pinakes non guasta. Anche per la sua linearità arcaica, che rimanda ai grandi busti fittili che emergono dagli Inferi del santuario laziale di Ariccia, oppure alle cerimonie lucane della mietitura, magnifico esempio di esperienza mistica antica, o infine ai pellegrinaggi al santuario laziale di Vallepietra, antiche processioni in onore di Demetra.
Domanda, per capire: gli attuali ecologisti, che protestano contro le ferite inferte all’ambiente, ricalcano (forse) qualcosa dell’antica ritualità agraria? E in subordine: le molteplici forme di rito trasgressivo dei giovani di oggi sono ennesime rielaborazioni dell’intramontabile ritualità del “passaggio”, quale noi la conosciamo, ad esempio, nella festa primaverile (a Pasquetta) che si svolge a Calimera, con il “transito” attraverso la “Pietra forata” oggi incorporata nella chiesetta di San Vito? Si sguscia attraverso il foro come serpenti, per il rito della rinascita. E se di rettili si parla, come non ricordare i ritratti dorati di Osiride (o Attis) avvolto dalle sette spire di una serpe, rinvenuti l’uno ad Arezzo e l’altro nel santuario del Gianicolo, a Roma? E come non ricordare il San Domenico di Cocullo (provincia dell’Aquila), anch’esso avvolto dai serpenti, e celebrato con la processione dei serpari, il più pagano dei riti cristiani, forse giunto ai monti d’Abruzzo dall’Oriente, passando per Roma?

Nessuna moderna connessione, invece, per l’eleganza e la grazia della Fanciulla di Anzio: giovane ed enigmatica, pare incedere ma anche sostare, schermirsi ma anche offrire gli oggetti (magici?) che tiene sul vassoio. C’è chi la crede la Pizia, ma così fosse, la sua arte non potrebbe riecheggiare in una semplice chiromante dei nostri giorni. In Occidente la predizione del futuro ha smarrito col tempo la forza sacrale degli oracoli di Delfi e di Dodona. Così tutto ci coglie di sorpresa. Nessun dio mediterraneo veglia più su di noi.
«Demetra dalle belle chiome, dea veneranda io comincio a cantare, e con lei la figlia, Persefone, dalle belle caviglie che Aidoneo (Plutone, N.d.R.) rapì mentre giocava con le fanciulle dal florido seno, e coglieva fiori, rose, croco, e le belle viole, sul tenero prato...». Incomincia con queste parole uno degli Inni omerici a Demetra, narrando il mito, il più antico e il più augusto, che compendia le vicende di molti misteri pagani: il mondo e l’Ade, il presente e l’Aldilà, la vita e la morte, e la rinascita.
Questa storia e i suoi significati si celebravano a Eleusi nel silenzio notturno («tacita – dice Megara nell’Ercole furioso di Seneca – agiterò a Eleusi le lunghe fiaccole»). Ancora mille anni dopo l’Inno omerico, Claudio Claudiano le dedicava un poemetto in tre libri di più di mille versi. E trasferiti in altre vicende e storie, con altre cerimonie cupe o liete, invasate e irrazionali, quegli stessi significati si ritrovano nei misteri di Orfeo o di Dioniso, di Mithra o di Iside.
Egitto e Asia invadono con essi il mondo greco-romano, e soprattutto in epoche di crisi culturali, politiche e religiose rispondono a bisogni profondi: come cercare e trovare una salvezza per l’anima, come sopravvivere oltre la morte. Per queste ragioni fanno ammirare filosofi, sorridere romanzieri, indignare teologi. Sant’Agostino, nella Città di Dio, racconta schifatissimo dei misteri dionisiaci durante i quali si adoravano le zone pudiche con pubblica esultanza, con le matrone che eseguivano in onore di quel dio, in pubblico, «cose che nemmeno le meretrici in teatro». Era la processione del dio dell’ebbrezza venuto dall’Oriente in tripudio di seguaci invasate, «bello – canta Ovidio nelle Metamorfosi – ed eterno fanciullo, quasi una vergine, spronando la pariglia di linci aggiogate al suo carro, seguito dai satiri e dalle baccanti». Le sue avventure e i suoi orgasmi ispiravano, proprio nell’età del Santo di Ippona, all’egiziano Nonno di Panopoli la poesia di tutta una vita: i 48 libri delle Dionisiache.
Un altro apologeta cristiano, Firmico Materno, descrive a sua volta le cerimonie misteriche in onore di Iside come un’altra assurdità (eppure Voltaire ammirava questi culti resi a un’unica divinità: li preferiva alle processioni di vagabondi e randagi che ai suoi tempi invadevano i villaggi, promettendo la guarigione dalla scabbia o dal vaiolo, e simultaneamente razziando i pollai). «In una cella segreta – spiega Firmico Materno – hanno sepolto una statua di Osiride, lo sposo di Iside, e ogni anno la piangono, si radono il capo, si battono il petto, si lacerano le braccia, per riprodurre con quel lutto la sua funesta e miseranda morte; ciò fatto per alcuni giorni, immaginano di cercare e di trovare i resti del suo corpo e, rinvenutili, esultano».
Quando nelle Metamorfosi di Apuleio, (romanzo di avventure e di sarcasmi, di realismo e di paradossi), il protagonista è trasformato accidentalmente in asino con arti magiche da una servetta svagata, ottiene la restituzione allo stato umano da Iside, che gli appare emergendo dal mare, luminosa, la chioma fluente, il cerchio della luna sulla fronte, la tunica sottile di lino e il manto che le fascia i fianchi. Attorno a lui si forma la processione dei devoti, festanti tra petali di fiori e unguenti profumati, al suono dei flauti e dei sistri. Un sacerdote porge all’asino una corona di rose, e la bestia divorandola ritorna uomo, giungendo finalmente «al porto della Quiete e all’altare della Misericordia».

Invitato a iniziarsi a quella mistica religione, Lucio-Apuleio esita, perché aveva sentito dire che non era facile, e non poco ardue erano le pratiche di castità e di astinenza che essa richiedeva; ma poi l’iniziazione avviene fino al grado supremo. E Lucio, rasati i capelli secondo la regola, attende ai compiti sacerdotali «lieto e senza nascondere la sua calvizie».
Allora: le fonti letterarie ed epigrafiche abbondano di riferimenti sui Misteri, ma offrono pochi particolari sulle modalità di celebrazione e sui contenuti teologici. La maggioranza delle testimonianze è costituita da notizie degli apologeti che, impegnati a difendere il “mistero cristiano” da ogni inquietante raffronto con quelli pagani, vogliono dimostrare la scarsa moralità di questi riti, fornendone con rude sarcasmo i dettagli più scabrosi e truculenti.
È Prudenzio a coinvolgerci con una narrazione avvincente nel bagno di sangue rigeneratore, praticato dai seguaci di Cibele, che per ricevere la consacrazione si tatuavano con piccoli aghi ardenti. E non era questa la pratica più dolorosa, per la quale i sacerdoti ungevano la gola di tutti quelli che piangevano, infondendo a voce bassa e lenta il coraggio per la salvezza dagli affanni, come rivela Firmico Materno, che stigmatizza gli orrori delle religioni pagane. Felice, la Madre degli dèi si procurava infatti con gli affilati rasoi i suoi imberbi ministri! Si eviravano durante turbinose danze, in un’estatica eccitazione, condividendo la sorte di Attis, che era stato salvato. Una corona di viole era sbocciata infatti dalle gocce di sangue del figlio-sposo, il suo corpo restava incorrotto, i capelli crescevano, il mignolo si muoveva...
Ben poco consona alla misurata concezione repubblicana di religio, la componente orgiastica dei riti in onore della Magna Mater, sfrenata divinità della natura selvaggia divenuta garante della sicurezza dello Stato, era stata subito epurata, tanto che l’esuberante clero frigio venne allontanato dai fedeli e finì col vivere nella clausura dei santuari. Con Claudio il delirio tornò a far sguainare per strada i coltelli, a conficcarli dentro i muscoli, a squarciare le carni perché la crudeltà delle ferite faceva guadagnare il cielo. E su questo inutile martirio si appuntano le critiche di chi credeva nel sangue di Cristo e intendeva confutare le eresie. Ecco anche perché non era ritenuto ammissibile che, contro ogni pudore, nelle processioni dionisiache si cantasse l’inno in onore delle parti di cui l’uomo ha vergogna, forse svelate fra le pareti domestiche per istruire le giovani spose.
Tertulliano si spinge oltre, quando ritiene che la rappresentazione del membro virile nei recessi dei misteri eleusini costituisse l’oggetto dei sospiri degli epopti, i contemplatori dei Misteri maggiori, (nella notte del 22 del mese di boldromione i futuri epopti, compiuto un anno di tirocinio, assistevano alla sacra rappresentazione della ierogamia di Zeus e di Demetra, e infine all’ostensione fatta dallo ierofante della spiga di grano, simbolo del Mistero celebrato). L’arte nelle catacombe si era d’altra parte impadronita di altri simboli del dio, metafora del passaggio dall’uva al vino, trasformandoli in figure salvifiche di Cristo vincitore della morte.
La possibile interpretazione soteriologica dei principali gesti di Mithra, unico dio orientale e maschile con una connotazione solare, come l’apertura di una fonte dalla roccia, presenta consonanze con l’interpretazione cristiana di qualche episodio della vita di Gesù. Ma sebbene presto il compleanno di Mithra sarà rimpiazzato dal nostro Natale, anche questa somiglianza non è frutto di influenza diretta, essendo piuttosto dovuta al fatto che pagani e cristiani vivevano nello stesso mondo e condividevano le medesime preoccupazioni: quelle che – benevola – scioglieva Iside, cui chiedere grazie, e da invocare con preghiere suggestivamente assimilabili alle litanie mariane (le aretalogie). In queste lodi è la dea stessa, a partire dall’iconografia che la ritraeva con in braccio il figlio Horus, a definirsi Regina del Cielo.
L’astinenza, anche sessuale, che suscitò le lagnanze dei poeti latini, già allora era diventata prerogativa dei suoi sacerdoti, intenti decifrare segni aggrovigliati e complessi. Li si sarebbe immediatamente riconosciuti, con le teste rasate in segno di lutto, vestiti di lino per il colore della sua infiorescenza, simile all’azzurro dell’etere che abbraccia il mondo. Insieme a tutti gli altri ministri delle divinità occidentali che affollavano gli innumerevoli luoghi di culto della Roma tardo-imperiale, mantenendo l’abbigliamento esotico e la lingua del rito, spesso il greco.
Per un Romano di quell’epoca, non restava che l’imbarazzo della scelta a quale dio votarsi. Se, per esempio, fosse salito sul Gianicolo, avrebbe potuto venerare in un piccolo santuario Baal come Iuppiter Heliopolitanus e la siriaca Atargatis, e assistere all’intrigante, stagionale estrazione dell’idolo bronzeo di divinità che nasce e muore, avvolta dalle sette spire di un serpente, allusive alle sette sfere celesti, poi adagiato su una lettiga e coperto di offerte votive: uova, fiori, semi... Ma forse non sarebbe bastato, a quanto si legge in un’epigrafe su un sepolcro di fanciullo: «In loro onore (di tutti gli dèi, N.d.R.) sempre ho celebrato solennemente i Misteri. Ma ora ho lasciato la dolce luce del sole; perciò voi, iniziati o compagni di ogni sorta di vita, dimenticate i sacri Misteri, uno dopo l’altro: poiché nessuno può spezzare la trama del destino. E io, l’augusto Antonio, vissi (soltanto) sette anni e dodici giorni!».
Verso il mare, o iniziati! Questo era l’invito di stagione che lo ierofante rivolgeva quanti si radunavano, sotto la luna piena di settembre-ottobre, nell’agorà di Atene, per prender parte ai Grandi Misteri. Era un incitamento al bagno collettivo e purificatore al Falero insieme a un maialino, sacro a Demetra, che sarebbe stato immolato e mangiato, per sopportare i tre giorni di digiuno prima dell’arrivo a Eleusi, dopo una scenografica processione lungo la Via Sacra. Usciti dalla Porta del Ceramico, si univa al corteo una statua di Iacco, personificazione divina dell’urlo rituale e cadenzato degli iniziati (Iakche), mentre la faticosa marcia, guidata dal daduco (il portatore di fiaccola), era punteggiata da una serie di inni, frizzi e motti osceni: le “ingiurie del carro”, come le chiamava Aristofane.

All’ingresso del santuario veniva offerto il ciceone, una miscela densa di acqua, farina d’orzo e menta aromatica, preparata secondo la ricetta della dea: un antenato naturale dell’Lsd? Il rito segreto si svolgeva di notte nel telesterion, in una sala quadrata fitta di colonne, che non poteva ospitare la celebrazione di drammi sacri complessi. Dalla Stanza della Signora, una sorta di sancta santorum nel quale affiorava ancora viva la roccia, si sprigionava forse un’enorme fiamma al fragore di un gong che risuonava quando Kore veniva invocata.
Clemente Alessandrino tramanda la parola d’ordine «ho preso dalla cista; dopo aver compiuto l’atto, ho deposto nel canestro...» circa i riti individuali compiuti dagli iniziati. Tertulliano attribuisce a questa cerimonia un simbolismo sessuale; in realtà, poteva trattarsi di una più innocente macinazione rituale del grano. Una singola spiga mietuta veniva infatti contemplata in silenzio, mentre al grido collettivo «Piovi! Concepisci!», (ye, kye), sotto una luce splendente lo ierofante proclamava: «La dea potente ha generato il sacro fanciullo Brimos, il Forte!». Doveva essere un’esperienza emotiva tale da non permettere di riferirne a parole: «Il rispetto delle Dee tratteneva la voce...». Non a caso la definizione di mysteria, che fu per la prima volta applicata ai riti di Eleusi, deriva dal verbo greco myein, “chiudere la bocca”, piuttosto che gli occhi, dal momento che la “visione” era il clou della cerimonia, il mistico contatto con il divino, quando, a prestar fede ad Aristotele, non si imparava niente, pur ricevendo un’impronta indelebile.
Nessuna meraviglia, dunque, che un complesso mitico-rituale come quello eleusino fosse ben presto attratto dalla sfera politico-religiosa di Atene, divenendo uno dei suoi più importanti culti civici, utile a rinsaldare l’unità dello Stato. Accadeva così che i cittadini greci non ateniesi dovessero procacciarsi padrini locali, secondo l’esempio di Eracle, il primo straniero ad essere iniziato, e chi avesse divulgato l’ineffabile, come era capitato all’ebbro Alcibiade, si macchiava di empietà ed era punibile con la pena capitale e con la confisca dei beni. Ma quale segretezza speciale, se l’iniziazione veniva vissuta da molte persone in una manifestazione “pubblica”?
Più segreti erano i Misteri dionisiaci, che non venivano celebrati ufficialmente e in un santuario, in un’occasione non ripetibile altrove e in altri momenti dell’anno, ma in ambiti circoscritti e privati. A eseguirli erano soprattutto le donne, sebbene vi fossero ammessi anche i maschi, spesso giovanissimi. Non ci è dato di sapere che cosa avveniva all’interno delle pareti domestiche: lo immaginiamo, ammirando le decorazioni della Villa dei Misteri a Pompei, o della Farnesina a Roma.
Un momento centrale del rito doveva essere la rivelazione del fallo in un vaglio per la spulatura (liknon) da parte dello ierofante che mostrava gli orghia, gli oggetti sacri, a ribadire l’importanza del “vedere” nell’iniziazione. Fondamentali anche la lettura dei testi sacri e la liberatoria bevuta finale. E allora si formavano cortei di iniziate danzanti nelle selve con corone di edera, tirsi e fiaccole, gli attributi di Bacco, esaltate al suono di flauti e timpani fino a raggiungere l’estasi (l’essere fuori di sé) e l’entusiasmo (l’avere il dio dentro di sé). Ai mondi, o Baccanti!

 

   
   
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