Qui il Salento
è una pura
invenzione. Unombra
della memoria.
Il souvenir di una fantasia. Il paese di una fiaba.
La figurazione
di una nostalgia.
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Non pensò mai ad un libro compatto, organico, unitario,
Fernando Manno. Non pensò mai neppure ad un libro coerente,
coeso, definitivamente compiuto.
Il libro che pensava, che voleva, doveva essere come la vecchia
casa del padre, lasciata quando una giovinezza lo aveva chiamato
verso altri luoghi, altre storie, verso altri destini; doveva essere
come quella casa in cui, tornando di tanto in tanto, ritrovava i
visi nei ritratti, i vecchi sussidiari di scuola, gli album delle
foto, i sogni cresciuti in segreto nelle stagioni di unadolescenza
pacata, i racconti negli inverni piovosi, quelli delle estati che
si srotolavano sul limitare fino a notte fonda.
Così doveva essere Secoli fra gli ulivi: doveva stringere
secoli nellincavo delle parole; degli ulivi doveva avere la
nodosità del tronco e lapertura della fronda.
Così gli è girato nella testa, quel libro in
un primo tempo forse anche distrattamente per tutta la sua
esistenza dopo la partenza da San Cesario, tra Firenze e Roma, la
Romania e il Portogallo, la Spagna e il Guatemala.
Così lo scrisse: per frammenti, ritratti rapidi, elzeviri,
bozzetti, pensieri e ripensamenti, elaborazioni e rielaborazioni,
in una tensione di scrittura che celava una sorta di ansia, quasi
un presentimento di unicità, di irripetibilità, come
se quel libro che andava costruendo dovesse essere il primo e lultimo
della sua vita.
Secoli fra gli ulivi fu il primo e lultimo libro della sua
vita. Quando uscì nel 58 presso leditore Pajano
di Galatina, Manno aveva 52 anni. Morì lanno dopo,
al secondo infarto.
Come tutti i libri unici e definitivi, è un libro essenziale.
Non cè una parola di meno né una parola di più
di quelle di cui la materia che tratta ha bisogno. Come se ogni
parola corrispondesse a un istante di vita, ogni sua sillaba ad
un respiro.
(Ho incontrato Secoli fra gli ulivi per caso in un remainder di
Lecce nella primavera del 79. Lo comprai come allora compravo
(come ancora compro) molti dei libri che in qualche modo parlavano
(e parlano) di un luogo chiamato Salento. Lo lessi in poco più
di quindici ore. In poco meno di quindici minuti decisi di farci
la tesi di laurea. Qualcuno diceva: che te ne fai di una tesi su
un libro sconosciuto di un autore sconosciuto? A distanza di ventitré
anni ancora non so dire se avesse torto o ragione. Ma quando si
ha poco più di ventanni certi calcoli è difficile
farli. E chi non sa farsi i calcoli quando ha poco più di
ventanni, non imparerà a farseli più per tutta
la vita. Ma in compenso comprende che per scrivere una sola riga,
quale che sia, ci deve credere, a ventanni e per tutta la
vita.
Così feci la tesi di laurea. Che poi Antonio Verri
uno che aveva perfetta sintonia con le parole e siderale distanza
da ogni aritmetica pubblicò nei quaderni di Pensionante
de Saraceni, nel 1985.
Se cè un merito che mi riconosco è quello di
essere stato uno studioso di Fernando Manno. Lunico studioso,
ancora. Purtroppo. Sicché per le notizie bio-bibliografiche,
per la genesi e la struttura di Secoli fra gli ulivi, devo far riferimento
al mio (ormai introvabile) Tra il meraviglioso e il
quotidiano. Salento memoria scrittura in Secoli
fra gli ulivi di Fernando Manno.)

Lidea di un libro sul Salento comincia a trasformarsi in
scrittura con lelzeviro intitolato Lu ppòppetu, che
esce su La Voce del Sud di Ernesto Alvino, il 25 febbraio
del 1956.
Con questo elzeviro, ricorderà poi Manno nel libro, «accesi
su ppòppetu una simpatica giostra di opinioni e di colore».
E sulla giostra salgono, come bambini curiosi, gli intellettuali
più vivaci del tempo: sale Oronzo Parlangeli, che riconosce
a Manno il merito di aver chiarito esemplarmente, attraverso una
saggia ricerca, il significato della parola; sale come poteva
non farlo? Vittorio Bodini, per il quale ppòppetu
non è soltanto una parola ma addirittura una chiave dellanima
e del costume salentino. Poi salta Giuseppe Trecca, che attribuisce
al temine nuovi significati, scompigliando i giri ordinati e provocando
un po di reazioni, tra cui quella di Manno. Così Ernesto
Alvino dice basta e chiude la polemica. Che però continua
a settembre, sul primo (e credo unico) numero di Terra dOtranto,
con uno strascico ppoppetario nel quale Trecca (che
è il direttore responsabile) si scuserà ammettendo
di essere intervenuto in questioni etimologiche senza aver letto
il «magistrale articolo del Manno». Il pezzo dapertura
della rivista è titolato Il genio salentino ed
è a firma di Fernando Manno.
Lu ppòppetu, dunque. Manno ne delinea una fisionomia concreta
e ideale, poetica e realistica. Dice che ha il volto dei santi delle
icone campestri; quello dei pescatori, dei contadini; quello della
fotografia del padre morto con le candeline e i fiori di carta velina.
E dietro quei tratti che sono parte del paesaggio, come le pietre
e gli ulivi, come il mare e il tabacco, dentro quel volto che viene
dalla storia e si rifugia nelle immagini di Carlo Barbieri, Manno
cerca e scopre lanima ppòppeta, che è un impasto
di sangue e di terra, di caparbietà e di malinconia, di fantasie
insicure e di sogni stremati, del senso profondo dei penati e dei
lari, di superstizione e coraggio, di freschezza e sapienza.
Dopo Lu ppòppetu, Manno pubblica sullo stesso settimanale
leccese, dal 14 aprile al 19 maggio, altri cinque elzeviri che,
con il primo, costituiscono il lievito del libro.
Con gli ultimi cinque partecipa al Premio Salento del 1956, per
la sezione giornalismo; la giuria, composta da Goffredo Bellonci,
Luigi Fiocca e Teodoro Pellegrino, assegna il premio a Ferdinando
Virdia.
Manno ci resta male, molto. In una lettera a Lino Suppressa dice:
«Caro Lino, qualunque esercito, qualunque roccaforte puoi
sfondarla; inespugnabile è la difesa dei mediocri arrivati».
Per due anni scrive e riscrive. Nel febbraio del 58 invita
Suppressa a collaborare per la parte iconografica ad un libro di
sensazioni ed emozioni salentine, un libro del sangue e degli occhi.
Poi a maggio gli dice: «Il libro è un incontro spirituale
di me con te e di noi due con la nostra terra».
Con Secoli fra gli ulivi, Manno vuole partecipare alla sezione narrativa
del Premio Salento di quellanno, per cui tanto Suppressa quanto
leditore Pajano si impegnano a far uscire il libro entro il
31 agosto.

Vincono il premio Carlo Cassola con Il soldato e Giuseppe Cassieri
con I delfini sulle tombe. La giuria non ritiene di poter considerare
Secoli fra gli ulivi un testo di narrativa. Ancora una lettera allamico
coautore: «Mio carissimo Lino, sei rimasto male? Io no. Almeno
nel senso che me laspettavo. La scusa che Secoli fra gli ulivi
non è narrativa ha una sua validità legittima. Aggiungi
la rissa o violenza di sollecitazioni che questanno
ha fatto del Salento uno scontro di truppe durto.
Le mie previsioni si sono avverate al centesimo: nei nomi dei (chiamiamoli
così) vincitori, nella divisione, nellelogio a Secoli
fra gli ulivi per confortarlo: parole in cambio di monete».
(Per ventanni non ho più preso in mano Secoli fra gli
ulivi. Mi è ritornato costantemente come riferimento per
altri libri. Mi sono passate nel pensiero le sue immagini di parole
mentre mi passavano davanti agli occhi quelle di un venditore ambulante,
delle cariatidi barocche, una lama di luce, unicona di campagna,
un frate questuante, o limmobilità di un geco. Quasi
sempre ho associato le pagine della Fauna del cuore
con il Bestiario salentino di Vittorio Bodini, con quella
luce che si trasforma in unaltra bestia sulle case da aggiungere
al bestiario «la cui favola / sa di sputi e minacce, / il
geco, la tarantola, / laggressiva cicala, /la civetta»,
e poi con quellaltra enigmatica, indecifrata
che sembra avere la stessa incerta fisionomia della sorte, e grigiamente
dice: «se le cose fossero andate diversamente».
Ho confuso latmosfera malinconica, lincantato congedo
delle ultime righe di questo libro con i versi che Antonio Verri
dedicò a chi lo ha scritto: «Anche il tuo è
un varco disperato, furente, / di morte. Solidi lettucci in ferro
o fischi / vuoti nellaria gialla come spiga / i tuoi raggiri,
poeta. / Frattaglie ben disposte nelle viscere / di questa terra
rovinosa (ci correva / ben viva un tempo la vita); / erano giorni
di smalto e di risacca / occhiate veloci, donnine di gusto / al
Caffè Buda / questo io rimpiango adesso, silenzi parlati
/ risa fragorose e poi quellaria verde / novembrina che mandava
brusii / di cioccolato. Cavalli imbracati, / Suppressa, qualche
frontale di chiesa / e pochi stemmi. Ancora. Brusii sfiati / battaglie.
Sospiri cautelosi».
Ogni volta mi sono chiesto che cosa volesse significare il connettivo
dellincipit, quali destini accomunasse quel varco disperato
e furente.
Dopo essere stato un libro di studio, per me è diventato
un libro interiore: uno di quei libri e non sono mai molti
che improntano, conformano e mediano la relazione con la
terra, con la sua Storia, con le sue storie, con la sua gente, con
il linguaggio, con le passioni.

Ho ripreso Secoli fra gli ulivi con quella sorta di distanza che
si avverte quando si pensa di conoscere un libro a memoria, di sapere
a quale genere appartiene, qual è la sua natura profonda.
Invece ho letto un libro nuovo.)
Disse la giuria del Salento che non si trattava di un
libro di narrativa. Era vero. Secoli fra gli ulivi è, dichiaratamente,
un libro di memoria.
Ma non tanto di una messa in scena della memoria attraverso la scrittura,
quanto di una ricerca, di uno scavo in quel territorio che Manno
chiama «sepolcro di memorie», condotto con gli strumenti
della scrittura e con il metodo dellarcheologo che ricostruisce
ambienti e contesti interpretando gli indizi dei segni, la fattura
di oggetti, i significati delle scritture.
Lo sfondo, lorigine, il motivo della ricerca, sono costituiti,
come spesso accade in archeologia, dal mito, dalla leggenda.
Anche la Storia, in questo libro, è sfumata, quasi motivo
di una preesistente, eterna leggenda. Anche loggetto comune,
la situazione consueta di una civiltà o di una condizione
di vita.
Manno parte dal mito e al mito ritorna. Gli basta poco, a volte.
Gli basta una capasa per riavvolgere millenni, arrivare alla preistoria,
alla scoperta del fuoco. Dice che in una comunità di idolatri,
la capasa non potrebbe non essere un totem, che la sua morte dovrebbe
essere consacrata a Minerva o a Gea, la Madre Terra, che la sua
presenza crea nelle case unatmosfera micenea o minoica, che
la sua forma o la sua materia hanno qualcosa di biblico.
La inserisce nella storia della civiltà, come uno storico,
in quella fase denominata cultura dei cocci, a causa di certi strati
di cocci trovati nellEuropa settentrionale che rimandano a
unera a cultura fittile basale.
Come uno storico del costume, alla capasa associa il mestiere dellarrotino,
che con un trapano a corda e un filo di ferro ne riparava le crepe.
Allora Secoli fra gli ulivi è anche libro di memoria individuale,
ma non solo; è anche libro di memoria generazionale, ma non
solo; è ricostruzione di una civiltà contadina, ma
non solo. È un libro ancora più ambizioso. Non so
quanto fosse nelle intenzioni di Manno quando lo ha pensato, né
se poi se ne sia accorto, ma questo è libro di memoria della
terra, intesa come sistema complessivo e complesso, la cui struttura
portante è costituita da natura e cultura, mito e storia,
umanità e geografia, religione e linguaggio, uomo e paesaggio.
Se Manno giunge a questo risultato è per il fatto che procede
in modo asistematico. Si lascia portare dallintuizione, dalla
percezione, dallattrazione che esercita su di lui un elemento
del paesaggio, un modo di essere della gente, una parola radicata
nel codice genetico, un richiamo che vibra nei colori del tramonto,
nella memoria di un cielo, di un mare, di unora, di uninfanzia,
una nuvola, un sogno, nella casa che un tempo si è abitata,
negli occhi di quelli che ci hanno lasciati, nel portento di quegli
uomini che tornavano al tramonto tenendo lente redini di cavalli
stanchi. E poi la memoria della luce di un mattino destate,
quella della luna di una sera dautunno.
Sono colori che vengono da lontano, dalla profondità di una
storia vissuta, rubati con gli occhi alle chiome degli alberi, alle
riverberanze dei paesaggi, alla vita che scorre per le strade.
Per Fernando Manno la memoria ha colori fantastici, irreali, impastati
con limmaginazione e la distanza del tempo; ha colori che
sono un frammento del colore totale, assoluto, col quale si mostra
a noi la nostra stessa esistenza, il nostro mondo.
Così come esistono parole di dentro, esistono anche colori
di dentro: colori dellanima, del cuore, degli affetti. Colori
della memoria: ad un tempo nitidi e incerti, ad un tempo concreti
e vaghi; fissi e tremolanti allo stesso tempo. Riproducono la fluidità
della memoria, i suoi aloni, le sue sfumature, ma anche le cicatrici,
le ferite.
I colori della memoria di Fernando Manno hanno la forza di cristallizzare
il tempo: lo fissano in una dimensione straniata, lo collocano ad
una distanza che non è vicina e non è lontana: lo
sospendono come una lampadina che scende dal soffitto e illumina
chiaramente una parte della stanza, ne lascia una in penombra, al
buio unaltra.
Lo sguardo può scegliere la posizione: la chiarità,
il buio, la penombra. Allora i colori della memoria diventano anche
i colori della memoria di colui che guarda. Le figure che provengono
da un paesaggio lontano sono quelle stesse figure che sono state
dimenticate, o che si ricordano in modo confuso, o chiaro.
I colori della memoria hanno il privilegio di poter rimettere in
scena il passato; non così comè stato ma come
immaginiamo che possa essere stato, come a volte lo ripensiamo,
lo rifiguriamo: per simboli, immagini, frammenti, scaglie, sciabolate
di luce, incantesimi degli occhi.
Perché la prosa di Secoli fra gli ulivi è generata
soprattutto dallo sguardo. Quella di Manno è una scrittura
realizzata con gli occhi: sono le immagini che portano i significati,
che possiedono una potenza evocativa eccezionale, che si trasformano
in elemento simbolico, che hanno la capacità di trasferire
in una dimensione surreale anche il più comune oggetto domestico,
di attribuire valenza antropologica alla più consueta abitudine,
al più ordinario modo di fare.
È una scrittura che scorre o che scruta, che alterna lanalisi
alla descrizione, che si sposta in continuazione verso diverse direzioni
(il mito, la storia, la fiaba), che riesce ad affondare e a proiettare,
a sfaldarsi e a ricompattarsi nel giro di poche frasi, a indagare
con uguale precisione il lontano e il vicino, a scendere nelle stratificazioni,
nelle condensazioni, nei grumi della terra, dissotterrando radici,
analizzando le germinazioni.
Segue unimmagine, una sensazione fin quando non riesce a svelarne
lessenza, a rintracciare il rapporto con la trama delle figure
interiori, ad annodarla alla rete dei ricordi, a interpretarla con
lermeneutica delle emozioni.
Secoli fra gli ulivi ha quasi cinquantanni. (Talvolta letà
dei libri e degli uomini si ritrova in strane coincidenze o congiunture).
Quando uscì sembrava un libro fuori dal tempo. Estraneo alla
temperie, alla ricerca letteraria di quella stagione, attardato
nelle atmosfere di un buon tempo antico, intrappolato in una condizione
di memoria senza futuro.
Nello stesso anno, il Cinquantotto, Pasolini pubblicava Lusignolo
della chiesa cattolica e Feltrinelli dava alle stampe il capolavoro
postumo di Tomasi di Lampedusa. Lanno prima erano usciti Il
barone rampante di Calvino e Quer pasticciaccio brutto de via Merulana
di Gadda.
Un libro fuori dal tempo, allora. Ma, forse più esattamente,
un libro senza tempo. Perché Fernando Manno voleva appunto
un libro senza tempo: svincolato dai contesti, dai motivi definiti,
dalle occasioni precise, dalle situazioni contingenti.
Voleva scrivere un libro capace di cogliere quella dimensione della
terra immutabile e irripetibile, quellessenza che la informa
e lattraversa, il paradigma che la rappresenta.
Per Manno il barocco (meglio, il barocchetto), per esempio, esplicitava
questa condizione: forma che si fa natura; natura che si lascia
comporre in una forma; sensualità dello spazio e purezza
di emozioni; senso, sogno, archetipo della fantasia sfrenata di
un popolo; ingenuo, immediato, malinconico; microcosmo di esperienze
di vita e pulsazioni di sentimento; paesaggio e sangue.
Poi dice: tempo dellanima. Ecco, dunque. Manno
voleva un libro che stringesse il tempo dellanima, sognante
e indefinito. Voleva un libro per dire lincantesimo della
fissità che pervade laria, per dire che il mutare dei
tempi non cambia il sangue.
(Per ventanni non ho più ripreso in mano Secoli fra
gli ulivi. Accade con i libri quello che a volte spesso
accade con le persone, con gli amici, con un adolescente amore:
che per anni, anche molti, non ci si veda, non ci si senta. Accade
inevitabilmente che in questo tempo si cambi modo di vivere e colore
dei capelli e casa che si abita, pensieri sulla vita, e le compagnie,
e le ansie, e i progetti. Ma quando ci si ritrova se ci si
ritrova basta un istante soltanto per riconoscersi, per annullare
tutto il tempo passato, per ritornare da dove si è partiti,
per ricominciare dal principio. Oppure per fingere di ritornare,
di ricominciare. Perché non si vuole o non si riesce a restare
lontano dal proprio presente, dal tempo concreto dellesistenza.
Così si saluta lamico rivisto, lamore di una
giovinezza appena fiorita, e si ritorna ai giorni, agli amici, agli
amori della stagione che si vive.
È cambiato molto in questi anni. Quasi tutto. Comè
normale che sia. È rimasto comera soltanto il Salento
di questo libro, perché non esistendo, non essendo mai esistito,
non poteva essere soggetto a nessuna trasformazione.
Il Salento di Secoli fra gli ulivi è una pura invenzione.
Unombra della memoria. Il souvenir di una fantasia. Il paese
di una fiaba. La figurazione di una nostalgia. Lapparizione
per un incantesimo. Il rammarico per una mancanza. Il rimpianto
per unassenza. Una regressione al fondo dellinfanzia.
Lipotesi di unorigine. La rappresentazione di una mitologia
interiore. Una recherche du temps perdu).
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