Settembre 2007

Storia di un libro

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Secoli fra gli ulivi
Antonio Errico
 
 

 

 

 

Qui il Salento
è una pura
invenzione. Un’ombra
della memoria.
Il souvenir di una fantasia. Il paese di una fiaba.
La figurazione
di una nostalgia.

 

Non pensò mai ad un libro compatto, organico, unitario, Fernando Manno. Non pensò mai neppure ad un libro coerente, coeso, definitivamente compiuto.
Il libro che pensava, che voleva, doveva essere come la vecchia casa del padre, lasciata quando una giovinezza lo aveva chiamato verso altri luoghi, altre storie, verso altri destini; doveva essere come quella casa in cui, tornando di tanto in tanto, ritrovava i visi nei ritratti, i vecchi sussidiari di scuola, gli album delle foto, i sogni cresciuti in segreto nelle stagioni di un’adolescenza pacata, i racconti negli inverni piovosi, quelli delle estati che si srotolavano sul limitare fino a notte fonda.
Così doveva essere Secoli fra gli ulivi: doveva stringere secoli nell’incavo delle parole; degli ulivi doveva avere la nodosità del tronco e l’apertura della fronda.
Così gli è girato nella testa, quel libro – in un primo tempo forse anche distrattamente – per tutta la sua esistenza dopo la partenza da San Cesario, tra Firenze e Roma, la Romania e il Portogallo, la Spagna e il Guatemala.
Così lo scrisse: per frammenti, ritratti rapidi, elzeviri, bozzetti, pensieri e ripensamenti, elaborazioni e rielaborazioni, in una tensione di scrittura che celava una sorta di ansia, quasi un presentimento di unicità, di irripetibilità, come se quel libro che andava costruendo dovesse essere il primo e l’ultimo della sua vita.
Secoli fra gli ulivi fu il primo e l’ultimo libro della sua vita. Quando uscì nel ‘58 presso l’editore Pajano di Galatina, Manno aveva 52 anni. Morì l’anno dopo, al secondo infarto.
Come tutti i libri unici e definitivi, è un libro essenziale. Non c’è una parola di meno né una parola di più di quelle di cui la materia che tratta ha bisogno. Come se ogni parola corrispondesse a un istante di vita, ogni sua sillaba ad un respiro.
(Ho incontrato Secoli fra gli ulivi per caso in un remainder di Lecce nella primavera del ‘79. Lo comprai come allora compravo (come ancora compro) molti dei libri che in qualche modo parlavano (e parlano) di un luogo chiamato Salento. Lo lessi in poco più di quindici ore. In poco meno di quindici minuti decisi di farci la tesi di laurea. Qualcuno diceva: che te ne fai di una tesi su un libro sconosciuto di un autore sconosciuto? A distanza di ventitré anni ancora non so dire se avesse torto o ragione. Ma quando si ha poco più di vent’anni certi calcoli è difficile farli. E chi non sa farsi i calcoli quando ha poco più di vent’anni, non imparerà a farseli più per tutta la vita. Ma in compenso comprende che per scrivere una sola riga, quale che sia, ci deve credere, a vent’anni e per tutta la vita.
Così feci la tesi di laurea. Che poi Antonio Verri – uno che aveva perfetta sintonia con le parole e siderale distanza da ogni aritmetica – pubblicò nei quaderni di “Pensionante de’ Saraceni”, nel 1985.
Se c’è un merito che mi riconosco è quello di essere stato uno studioso di Fernando Manno. L’unico studioso, ancora. Purtroppo. Sicché per le notizie bio-bibliografiche, per la genesi e la struttura di Secoli fra gli ulivi, devo far riferimento al mio (ormai introvabile) Tra il “meraviglioso” e il “quotidiano”. Salento memoria scrittura in “Secoli fra gli ulivi” di Fernando Manno.)

L’idea di un libro sul Salento comincia a trasformarsi in scrittura con l’elzeviro intitolato Lu ppòppetu, che esce su “La Voce del Sud” di Ernesto Alvino, il 25 febbraio del 1956.
Con questo elzeviro, ricorderà poi Manno nel libro, «accesi su ppòppetu una simpatica giostra di opinioni e di colore». E sulla giostra salgono, come bambini curiosi, gli intellettuali più vivaci del tempo: sale Oronzo Parlangeli, che riconosce a Manno il merito di aver chiarito esemplarmente, attraverso una saggia ricerca, il significato della parola; sale – come poteva non farlo? – Vittorio Bodini, per il quale ppòppetu non è soltanto una parola ma addirittura una chiave dell’anima e del costume salentino. Poi salta Giuseppe Trecca, che attribuisce al temine nuovi significati, scompigliando i giri ordinati e provocando un po’ di reazioni, tra cui quella di Manno. Così Ernesto Alvino dice basta e chiude la polemica. Che però continua a settembre, sul primo (e credo unico) numero di “Terra d’Otranto”, con uno “strascico ppoppetario” nel quale Trecca (che è il direttore responsabile) si scuserà ammettendo di essere intervenuto in questioni etimologiche senza aver letto il «magistrale articolo del Manno». Il pezzo d’apertura della rivista è titolato “Il genio salentino” ed è a firma di Fernando Manno.
Lu ppòppetu, dunque. Manno ne delinea una fisionomia concreta e ideale, poetica e realistica. Dice che ha il volto dei santi delle icone campestri; quello dei pescatori, dei contadini; quello della fotografia del padre morto con le candeline e i fiori di carta velina.
E dietro quei tratti che sono parte del paesaggio, come le pietre e gli ulivi, come il mare e il tabacco, dentro quel volto che viene dalla storia e si rifugia nelle immagini di Carlo Barbieri, Manno cerca e scopre l’anima ppòppeta, che è un impasto di sangue e di terra, di caparbietà e di malinconia, di fantasie insicure e di sogni stremati, del senso profondo dei penati e dei lari, di superstizione e coraggio, di freschezza e sapienza.
Dopo Lu ppòppetu, Manno pubblica sullo stesso settimanale leccese, dal 14 aprile al 19 maggio, altri cinque elzeviri che, con il primo, costituiscono il lievito del libro.
Con gli ultimi cinque partecipa al Premio Salento del 1956, per la sezione giornalismo; la giuria, composta da Goffredo Bellonci, Luigi Fiocca e Teodoro Pellegrino, assegna il premio a Ferdinando Virdia.
Manno ci resta male, molto. In una lettera a Lino Suppressa dice: «Caro Lino, qualunque esercito, qualunque roccaforte puoi sfondarla; inespugnabile è la difesa dei mediocri arrivati».
Per due anni scrive e riscrive. Nel febbraio del ‘58 invita Suppressa a collaborare per la parte iconografica ad un libro di sensazioni ed emozioni salentine, un libro del sangue e degli occhi. Poi a maggio gli dice: «Il libro è un incontro spirituale di me con te e di noi due con la nostra terra».
Con Secoli fra gli ulivi, Manno vuole partecipare alla sezione narrativa del Premio Salento di quell’anno, per cui tanto Suppressa quanto l’editore Pajano si impegnano a far uscire il libro entro il 31 agosto.

Vincono il premio Carlo Cassola con Il soldato e Giuseppe Cassieri con I delfini sulle tombe. La giuria non ritiene di poter considerare Secoli fra gli ulivi un testo di narrativa. Ancora una lettera all’amico coautore: «Mio carissimo Lino, sei rimasto male? Io no. Almeno nel senso che me l’aspettavo. La scusa che Secoli fra gli ulivi non è narrativa ha una sua validità legittima. Aggiungi la rissa o violenza di “sollecitazioni” che quest’anno ha fatto del “Salento” uno scontro di truppe d’urto. Le mie previsioni si sono avverate al centesimo: nei nomi dei (chiamiamoli così) vincitori, nella divisione, nell’elogio a Secoli fra gli ulivi per confortarlo: parole in cambio di monete».
(Per vent’anni non ho più preso in mano Secoli fra gli ulivi. Mi è ritornato costantemente come riferimento per altri libri. Mi sono passate nel pensiero le sue immagini di parole mentre mi passavano davanti agli occhi quelle di un venditore ambulante, delle cariatidi barocche, una lama di luce, un’icona di campagna, un frate questuante, o l’immobilità di un geco. Quasi sempre ho associato le pagine della “Fauna del cuore” con il “Bestiario salentino” di Vittorio Bodini, con quella luce che si trasforma in un’altra bestia sulle case da aggiungere al bestiario «la cui favola / sa di sputi e minacce, / il geco, la tarantola, / l’aggressiva cicala, /la civetta», e poi con quell’altra – enigmatica, indecifrata – che sembra avere la stessa incerta fisionomia della sorte, e grigiamente dice: «se le cose fossero andate diversamente».
Ho confuso l’atmosfera malinconica, l’incantato congedo delle ultime righe di questo libro con i versi che Antonio Verri dedicò a chi lo ha scritto: «Anche il tuo è un varco disperato, furente, / di morte. Solidi lettucci in ferro o fischi / vuoti nell’aria gialla come spiga / i tuoi raggiri, poeta. / Frattaglie ben disposte nelle viscere / di questa terra rovinosa (ci correva / ben viva un tempo la vita); / erano giorni di smalto e di risacca / occhiate veloci, donnine di gusto / al Caffè Buda / questo io rimpiango adesso, silenzi parlati / risa fragorose e poi quell’aria verde / novembrina che mandava brusii / di cioccolato. Cavalli imbracati, / Suppressa, qualche frontale di chiesa / e pochi stemmi. Ancora. Brusii sfiati / battaglie. Sospiri cautelosi».
Ogni volta mi sono chiesto che cosa volesse significare il connettivo dell’incipit, quali destini accomunasse quel varco disperato e furente.
Dopo essere stato un libro di studio, per me è diventato un libro interiore: uno di quei libri – e non sono mai molti – che improntano, conformano e mediano la relazione con la terra, con la sua Storia, con le sue storie, con la sua gente, con il linguaggio, con le passioni.

Ho ripreso Secoli fra gli ulivi con quella sorta di distanza che si avverte quando si pensa di conoscere un libro a memoria, di sapere a quale genere appartiene, qual è la sua natura profonda. Invece ho letto un libro nuovo.)
Disse la giuria del “Salento” che non si trattava di un libro di narrativa. Era vero. Secoli fra gli ulivi è, dichiaratamente, un libro di memoria.
Ma non tanto di una messa in scena della memoria attraverso la scrittura, quanto di una ricerca, di uno scavo in quel territorio che Manno chiama «sepolcro di memorie», condotto con gli strumenti della scrittura e con il metodo dell’archeologo che ricostruisce ambienti e contesti interpretando gli indizi dei segni, la fattura di oggetti, i significati delle scritture.
Lo sfondo, l’origine, il motivo della ricerca, sono costituiti, come spesso accade in archeologia, dal mito, dalla leggenda.
Anche la Storia, in questo libro, è sfumata, quasi motivo di una preesistente, eterna leggenda. Anche l’oggetto comune, la situazione consueta di una civiltà o di una condizione di vita.
Manno parte dal mito e al mito ritorna. Gli basta poco, a volte. Gli basta una capasa per riavvolgere millenni, arrivare alla preistoria, alla scoperta del fuoco. Dice che in una comunità di idolatri, la capasa non potrebbe non essere un totem, che la sua morte dovrebbe essere consacrata a Minerva o a Gea, la Madre Terra, che la sua presenza crea nelle case un’atmosfera micenea o minoica, che la sua forma o la sua materia hanno qualcosa di biblico.
La inserisce nella storia della civiltà, come uno storico, in quella fase denominata cultura dei cocci, a causa di certi strati di cocci trovati nell’Europa settentrionale che rimandano a un’era a cultura fittile basale.
Come uno storico del costume, alla capasa associa il mestiere dell’arrotino, che con un trapano a corda e un filo di ferro ne riparava le crepe.
Allora Secoli fra gli ulivi è anche libro di memoria individuale, ma non solo; è anche libro di memoria generazionale, ma non solo; è ricostruzione di una civiltà contadina, ma non solo. È un libro ancora più ambizioso. Non so quanto fosse nelle intenzioni di Manno quando lo ha pensato, né se poi se ne sia accorto, ma questo è libro di memoria della terra, intesa come sistema complessivo e complesso, la cui struttura portante è costituita da natura e cultura, mito e storia, umanità e geografia, religione e linguaggio, uomo e paesaggio.
Se Manno giunge a questo risultato è per il fatto che procede in modo asistematico. Si lascia portare dall’intuizione, dalla percezione, dall’attrazione che esercita su di lui un elemento del paesaggio, un modo di essere della gente, una parola radicata nel codice genetico, un richiamo che vibra nei colori del tramonto, nella memoria di un cielo, di un mare, di un’ora, di un’infanzia, una nuvola, un sogno, nella casa che un tempo si è abitata, negli occhi di quelli che ci hanno lasciati, nel portento di quegli uomini che tornavano al tramonto tenendo lente redini di cavalli stanchi. E poi la memoria della luce di un mattino d’estate, quella della luna di una sera d’autunno.
Sono colori che vengono da lontano, dalla profondità di una storia vissuta, rubati con gli occhi alle chiome degli alberi, alle riverberanze dei paesaggi, alla vita che scorre per le strade.
Per Fernando Manno la memoria ha colori fantastici, irreali, impastati con l’immaginazione e la distanza del tempo; ha colori che sono un frammento del colore totale, assoluto, col quale si mostra a noi la nostra stessa esistenza, il nostro mondo.
Così come esistono parole di dentro, esistono anche colori di dentro: colori dell’anima, del cuore, degli affetti. Colori della memoria: ad un tempo nitidi e incerti, ad un tempo concreti e vaghi; fissi e tremolanti allo stesso tempo. Riproducono la fluidità della memoria, i suoi aloni, le sue sfumature, ma anche le cicatrici, le ferite.
I colori della memoria di Fernando Manno hanno la forza di cristallizzare il tempo: lo fissano in una dimensione straniata, lo collocano ad una distanza che non è vicina e non è lontana: lo sospendono come una lampadina che scende dal soffitto e illumina chiaramente una parte della stanza, ne lascia una in penombra, al buio un’altra.
Lo sguardo può scegliere la posizione: la chiarità, il buio, la penombra. Allora i colori della memoria diventano anche i colori della memoria di colui che guarda. Le figure che provengono da un paesaggio lontano sono quelle stesse figure che sono state dimenticate, o che si ricordano in modo confuso, o chiaro.
I colori della memoria hanno il privilegio di poter rimettere in scena il passato; non così com’è stato ma come immaginiamo che possa essere stato, come a volte lo ripensiamo, lo rifiguriamo: per simboli, immagini, frammenti, scaglie, sciabolate di luce, incantesimi degli occhi.
Perché la prosa di Secoli fra gli ulivi è generata soprattutto dallo sguardo. Quella di Manno è una scrittura realizzata con gli occhi: sono le immagini che portano i significati, che possiedono una potenza evocativa eccezionale, che si trasformano in elemento simbolico, che hanno la capacità di trasferire in una dimensione surreale anche il più comune oggetto domestico, di attribuire valenza antropologica alla più consueta abitudine, al più ordinario modo di fare.
È una scrittura che scorre o che scruta, che alterna l’analisi alla descrizione, che si sposta in continuazione verso diverse direzioni (il mito, la storia, la fiaba), che riesce ad affondare e a proiettare, a sfaldarsi e a ricompattarsi nel giro di poche frasi, a indagare con uguale precisione il lontano e il vicino, a scendere nelle stratificazioni, nelle condensazioni, nei grumi della terra, dissotterrando radici, analizzando le germinazioni.
Segue un’immagine, una sensazione fin quando non riesce a svelarne l’essenza, a rintracciare il rapporto con la trama delle figure interiori, ad annodarla alla rete dei ricordi, a interpretarla con l’ermeneutica delle emozioni.
Secoli fra gli ulivi ha quasi cinquant’anni. (Talvolta l’età dei libri e degli uomini si ritrova in strane coincidenze o congiunture). Quando uscì sembrava un libro fuori dal tempo. Estraneo alla temperie, alla ricerca letteraria di quella stagione, attardato nelle atmosfere di un buon tempo antico, intrappolato in una condizione di memoria senza futuro.
Nello stesso anno, il Cinquantotto, Pasolini pubblicava L’usignolo della chiesa cattolica e Feltrinelli dava alle stampe il capolavoro postumo di Tomasi di Lampedusa. L’anno prima erano usciti Il barone rampante di Calvino e Quer pasticciaccio brutto de via Merulana di Gadda.
Un libro fuori dal tempo, allora. Ma, forse più esattamente, un libro senza tempo. Perché Fernando Manno voleva appunto un libro senza tempo: svincolato dai contesti, dai motivi definiti, dalle occasioni precise, dalle situazioni contingenti.
Voleva scrivere un libro capace di cogliere quella dimensione della terra immutabile e irripetibile, quell’essenza che la informa e l’attraversa, il paradigma che la rappresenta.
Per Manno il barocco (meglio, il barocchetto), per esempio, esplicitava questa condizione: forma che si fa natura; natura che si lascia comporre in una forma; sensualità dello spazio e purezza di emozioni; senso, sogno, archetipo della fantasia sfrenata di un popolo; ingenuo, immediato, malinconico; microcosmo di esperienze di vita e pulsazioni di sentimento; paesaggio e sangue.
Poi dice: “tempo dell’anima”. Ecco, dunque. Manno voleva un libro che stringesse il tempo dell’anima, sognante e indefinito. Voleva un libro per dire l’incantesimo della fissità che pervade l’aria, per dire che il mutare dei tempi non cambia il sangue.
(Per vent’anni non ho più ripreso in mano Secoli fra gli ulivi. Accade con i libri quello che a volte – spesso – accade con le persone, con gli amici, con un adolescente amore: che per anni, anche molti, non ci si veda, non ci si senta. Accade inevitabilmente che in questo tempo si cambi modo di vivere e colore dei capelli e casa che si abita, pensieri sulla vita, e le compagnie, e le ansie, e i progetti. Ma quando ci si ritrova – se ci si ritrova – basta un istante soltanto per riconoscersi, per annullare tutto il tempo passato, per ritornare da dove si è partiti, per ricominciare dal principio. Oppure per fingere di ritornare, di ricominciare. Perché non si vuole o non si riesce a restare lontano dal proprio presente, dal tempo concreto dell’esistenza. Così si saluta l’amico rivisto, l’amore di una giovinezza appena fiorita, e si ritorna ai giorni, agli amici, agli amori della stagione che si vive.
È cambiato molto in questi anni. Quasi tutto. Com’è normale che sia. È rimasto com’era soltanto il Salento di questo libro, perché non esistendo, non essendo mai esistito, non poteva essere soggetto a nessuna trasformazione.
Il Salento di Secoli fra gli ulivi è una pura invenzione. Un’ombra della memoria. Il souvenir di una fantasia. Il paese di una fiaba. La figurazione di una nostalgia. L’apparizione per un incantesimo. Il rammarico per una mancanza. Il rimpianto per un’assenza. Una regressione al fondo dell’infanzia. L’ipotesi di un’origine. La rappresentazione di una mitologia interiore. Una recherche du temps perdu).

 

   
   
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