Settembre 2007

 

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Le giravolte
AA.VV.
 
 

 

 

 

 

 

Anna come spugna d’oceano


«Al giorno d’oggi non esistono professori di poesia. Se così fosse vorrebbe dire che si tratta di un’occupazione che richiede studi specialistici, esami sostenuti con regolarità, elaborati teorici arricchiti di bibliografia e rimandi, e infine diplomi ricevuti con solennità. E questo significherebbe che per diventare poeta non bastano fogli di carta, sia pure riempiti dei versi più eccelsi, ma che è necessario un qualche certificato con qualche timbro».
È questo uno stralcio del discorso che la scrittrice polacca Wislawa Szymborska pronunciò il 7 dicembre 1996, in occasione del conferimento del Premio Nobel. In quella solenne cerimonia, la poetessa faceva riferimento al poeta russo Brodskij, che prima di ricevere il meritato premio Nobel per la letteratura fu per diversi anni condannato al confino perché non possedeva un certificato ufficiale che lo autorizzasse a essere poeta. E la Szymborska nel ricordarsi di Brodskij faceva senz’altro riferimento anche a se stessa, sconosciuta agli occhi di tanti, purtroppo, anche dopo il Nobel assegnatole.
L’esperienza di Wislawa Szymborska è simile a quella della sua contemporanea e connazionale Anna S´wirszczyn´ska (1909 Varsavia-1984 Cracovia), anch’essa poeta, anch’essa dunque poco conosciuta dalla critica.
Non è facile occuparsi della biografia, e soprattutto della poetica, di una scrittrice che parte già sconfitta dalla critica letteraria. Ma il desiderio di riscatto è forte quando si decide di approfondire poetica e biografia di scrittori poco premiati, se non troppo tardi; e aiuta in parte a compensare tale difficoltà.

È vero che la poesia della Szymborska come quella della S´wirszczyn´ska, nella loro piana limpidezza e ingannevole semplicità, esigono un orecchio molto fine, ma è altrettanto vero che poeti dalla acuta sensibilità, quali Brodskij, Herbert e Milosz, hanno saputo cogliere la finezza della sonorità espressiva e lirica di entrambe.
Quando allora da slavista in erba mi è stato proposto di preparare un lavoro di ricerca su Anna S´wirszczyn´ska, le prime reazioni avute sono state di grande imbarazzo. La scrittrice, appartenente secondo il poeta russo Brodskij a quel mondo della «più straordinaria poesia di questo secolo», è poco conosciuta all’interno della stessa polonistica, e violare il canone degli scrittori maggiori suscita sempre reazioni di stupore, ma studiare una “poetessa sconosciuta” quando proprio un grande della letteratura polacca, Czeslaw Milosz (Nobel 1980), la ripropone come «straordinaria e originale» scrittrice, è diventato per me negli anni un lavoro più che entusiasmante.
La S´wirszczyn´ska ha saputo introdurre tonalità nuove nel variegato mondo della poesia contemporanea. La sua poesia, che nel corso degli anni ha conosciuto uno spostamento di accenti e di forme, è un particolare riflesso della realtà nella quale la scrittrice è immersa, che la sua sensibilità femminile sa ben fotografare in poesia.
Dietro un modo espressivo estremamente “semplice” si cela una straordinaria densità intellettuale. Infatti, i fondamentali aspetti dell’esistenza (l’amore, l’essere donna, la sofferenza, la felicità, la vita, la morte) sono sempre descritti nella loro reale concretezza, che per non essere alterata necessariamente implica un uso appropriato, equilibrato, essenziale della parola. “Realismo dell’arte” dunque, un modo cioè di far poesia che per alti contenuti mentali si avvale di un’espressività sempre leggera:


Scoppio d’amore

Scoppio d’amore,
come un grande albero di vento,
come una spugna d’oceano,
come valorose vite di sofferenza,
come il tempo di morte.


La mia sofferenza

La mia sofferenza
è a me utile.
Mi dà il diritto di scrivere
sulla sofferenza degli altri.
La mia sofferenza è una matita
con la quale scrivo.


La lavandaia

Lava la sporca biancheria del suo uomo,
La sporca biancheria dei suoi figli,
La sporca biancheria delle sue figlie.
Inumanamente pulita
come una vita uccisa
asciuga a volte la peccatrice lacrima di un sogno
con le pulite mani
di lavandaia.


La disperazione

Una mano senz’arma
si leva verso il cielo
afferra il cielo per la gola con le dita
e cade.

 

Tutto traspare dalle sue liriche: la realtà sociale dei suoi anni, la cultura e la mentalità della sua terra, ciò che in ambito metafisico-esistenziale più coinvolge la riflessione umana. E puntualmente si aggiunge una costante di fondo, la sua esperienza individuale, che sempre è “esperienza di donna” e che mai rimane esclusivamente soggettiva: nel suo io c’è una costante attenzione verso l’altro che è vicino a lei:

Respiro

L’aria dell’intero mondo
è entrata in me.
E sono diventata
l’aria dell’intero mondo.

Io protesto
Morire
è il lavoro più pesante
di tutti.
Gli anziani e i malati
dovrebbero esserne esonerati.


Insomma, una magistrale padronanza linguistica e una sottile sensibilità umana, che fanno della S´wirszczyn´ska una poetessa degna di essere ricordata e inserita tra i poeti di primo piano nel panorama della lirica mondiale del Novecento.
La S´wirszczyn´ska non ha niente da invidiare neanche a coloro che sono più acclamati dalla critica. La sua poesia parla chiaro: l’originalità, esclusiva dei più sensibili, è appannaggio dei suoi scritti ed è pertanto una dote che deve essere riconosciuta e non sottaciuta. Questa valida rappresentante della poesia polacca contemporanea, protagonista del processo di femminilizzazione della cultura del suo Paese, scrittrice dell’essenziale, ha dovuto attendere nel silenzio il meritato riconoscimento di “poetessa da ricordare”.
Oggi, anche se il processo di rivalutazione è ancora lontano dall’essere definitivamente concluso, si può con certezza affermare che Anna S´wirszczyn´ska appartiene di diritto al novero dei maggiori poeti polacchi del Novecento, e ciò grazie ad un’arte lirica estremamente originale e nuova.

simona abate

 

La vita in un labirinto

Chissà perché mio padre mi portava spesso a vedere quello che, per me fanciullo, era uno strano disegno, inciso nella pietra della Cattedrale di Lucca. Mio padre non dava spiegazioni. Diceva soltanto: «Guarda!». E con il dito indice iniziava un percorso che inevitabilmente non trovava uscita. Io guardavo e non capivo, ma era un ghirigori affascinante.
Anni dopo, un vocabolario etimologico mi fornì alcune spiegazioni, che aumentarono la confusione dei significati della parola “labirinto”. Poteva derivare da un fabbricato egiziano, colmo di intricate giravolte; oppure dal monte esistente nell’isola di Creta, ricco di grotte diramate in varie direzioni; oppure, semplicemente, “Luogo naturale o artificiale, composto di molti andirivieni, da renderne impossibile l’uscita a chi non fosse pratico”. Cominciai a pensare: Come la mia vita.
Per mio padre, invece, quella scultura misteriosa rappresentava la raffigurazione plastica di un fatto mentale, oggi metaforicamente usata per indicare un pensiero imbrogliato, difficile, senza spiegazioni possibili. Per me, il fascino di quella immagine stava appunto nel suo rifiuto di spiegarsi. Già da fanciullino amavo le complicazioni; da adulto avrei purtroppo continuato a crearmele.

Ogni domenica mattina, quel mio altrettanto strano genitore continuò a dire: «Guarda!», piantandomi lì, davanti a quel muto maestro che si materializzava nella pietra.
È trascorsa una vita intera e soltanto ora mi è venuto da pensare che gran parte del mio complicato carattere deriva da quella scultura romanica, che ancor esiste e dura e fa scuola: scuola simbolica, silenziosa, nell’atrio di San Martino, a Lucca.
Eppure, è difficile che uno studioso d’arte o anche un turista curiosone si fermino in quell’angolo, a cercare di capire l’enigma.
Forse fu da fanciullino, grazie ad un padre originale, che io attinsi il gusto della riflessione, il piacere della filosofia, anzi della poesia ermetica ante litteram.
Anch’io misi, poi, l’indice nella traccia di pietra, ma neppure io seppi trovare l’uscita. Soltanto alla fine ho compreso che quel complicato disegno rappresenta, senza fronzoli estetici, in diretta, come diciamo nel gergo televisivo, la vita stessa che, a dirla sinceramente e senza corollari religiosi, è fatta proprio così com’è fatta, niente spiegazioni aggiunte...
Forse per questo suo messaggio, se qualcuno mi chiedesse: «Qual è dopo tanti anni il punto preciso della tua città che tu vorresti rivedere?», risponderei certamente – con rispetto, o meglio con antica devozione, avendo in mente l’indice allegorico di mio padre troppo intelligente – risponderei senza stupide nostalgie né fatui campanilismi: «Voglio toccare ancora, come facevo da fanciullo, il labirinto romanico di Piazza San Martino. Fu da quello che iniziai a combattere il Mistero dell’essere. Ed è lì che vorrei finire».
Perché la vita, in sostanza, è un labirinto senza uscita.

florio santini

 

La lunga marcia di Sherman


Chi fossero i Mille di Garibaldi, e come da Quarto al Volturno siano più o meno andate le cose, riteniamo di saperlo in molti. Ma non tutti abbiamo la stessa familiarità con la Guerra civile americana, e la ricostruzione romanzesca della mitica marcia dei 60 mila uomini, donne e schiavi liberati, al seguito del generale William Tecumseh Sherman da Atlanta verso il mare (1864), e poi, su su, attraverso la Carolina del Sud fino a quella del Nord, che stroncò la resistenza dei Confederati, saccheggiando e devastando ogni cosa – ponti abbattuti, binari divelti e attorcigliati intorno agli alberi, fabbriche e arsenali demoliti con conseguente rovina dell’economia e soppressione della moneta – ridà vita ad un evento che ha dimensioni bibliche e che Edgar L. Doctorow presenta come qualcosa di assoluto.

 

Paradossalmente, La marcia è un romanzo storico che racconta un evento che si colloca come fuori dalla storia. È, sì, fondato sulla rappresentazione di fatti che sono in funzione di un’idea (o ideologia), ma poiché in questo caso l’idea non è altro che quella della ineluttabilità di ciò a cui stiamo assistendo, ne consegue che dal racconto scompare la prospettiva politica. Vale a dire la ricerca e la spiegazione delle origini e delle ragioni del conflitto.
Dal punto di vista drammatico e narratologico, questo non è un difetto, e addirittura rafforza il carattere tragico – necessitato – dell’evento e mette in risalto la coazione dei personaggi. Soprattutto, altro paradosso, quei personaggi, gli ex schiavi, i quali una volta liberati, non sapendo che fare di se stessi, si accodano al serpente che si ingrossa e che procede come se a governarlo, più che la volontà degli uomini, fosse la forza del destino.
La marcia, quasi come l’Iliade, è una storia di guerra in cui non sono in discussione le cause della guerra; ed è, inoltre, il resoconto di un Esodo in cui molte cose sono capovolte. È in realtà una spedizione all’inferno. Ed è una sorta di devastante operazione chirurgica per rimettere insieme una nazione fondata sul mito della Terra promessa. È anche il risultato di una totale immersione, da parte di Doctorow, nella mentalità e nella cultura, specialmente scientifica, dell’epoca. Il punto di vista e i personaggi sono consonanti a una visione “vittoriana”, ottocentesca, del mondo.
Non è dall’alto, come da un aeroplano, che la marcia irrompe nel libro dopo poche pagine: «Quello che vedevano in lontananza era un fumo che si levava da punti diversi dell’orizzonte. Ci fu un cambiamento nel colore stesso del cielo, che a poco a poco apparve come una nuvola bruna staccatasi dalla terra. Veniva avanti come la lama di un’accetta e poi sempre più larga come il solco tracciato dall’aratro. Attraversava il cielo verso sud. Il suono di questa nuvola, quando li raggiunse, era una cosa che non avevano mai udito. Era una cosa che si sentiva con i piedi, una risonanza, come se fosse la terra a emettere un ronzio. Portato dal vento, il suono diventò un pesante calpestio cadenzato che parve loro, colmandoli di sollievo, l’umana ragione di quella grande nuvola di polvere. E poi, ai margini di questo suono di terra calpestata, udirono le voci di uomini vivi che urlavano. E i muggiti del bestiame. E il cigolio delle ruote. Ma non si vedeva niente».

Corale nelle intenzioni, La marcia si svolge però nell’unico modo possibile in un romanzo. Porta avanti la storia ricorrendo a un certo numero di personaggi le cui vicende si incrociano. Dal generale Sherman al tamburino, che è in realtà un’adolescente travestita da uomo; da una coppia di comici furfanti che finiscono male al chirurgo tedesco con i nervi di acciaio che usa il bisturi anche con la fidanzata la prima notte che trascorrono insieme; e dalla famigliola di neri bene intenzionati che si aspettano un futuro felice fino alla passerella finale delle figure storiche. Il generale Grant e il presidente Lincoln, con relativa e insopportabile moglie nevrastenica.
Ma il punto forte del libro consiste nel fatto che mette a fuoco, nel senso fotografico del termine, un numero sbalorditivo di dati e di dettagli, che lo fanno vivere come uno di quei documentari che, dal punto di vista dell’informazione, sono anche meglio dell’esperienza vissuta.

maria d. bolle

 

 

   
   
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