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Anna
come spugna doceano
«Al giorno doggi non esistono professori di poesia.
Se così fosse vorrebbe dire che si tratta di unoccupazione
che richiede studi specialistici, esami sostenuti con regolarità,
elaborati teorici arricchiti di bibliografia e rimandi, e infine
diplomi ricevuti con solennità. E questo significherebbe
che per diventare poeta non bastano fogli di carta, sia pure riempiti
dei versi più eccelsi, ma che è necessario un qualche
certificato con qualche timbro».
È questo uno stralcio del discorso che la scrittrice polacca
Wislawa Szymborska pronunciò il 7 dicembre 1996, in occasione
del conferimento del Premio Nobel. In quella solenne cerimonia,
la poetessa faceva riferimento al poeta russo Brodskij, che prima
di ricevere il meritato premio Nobel per la letteratura fu per diversi
anni condannato al confino perché non possedeva un certificato
ufficiale che lo autorizzasse a essere poeta. E la Szymborska nel
ricordarsi di Brodskij faceva senzaltro riferimento anche
a se stessa, sconosciuta agli occhi di tanti, purtroppo, anche dopo
il Nobel assegnatole.
Lesperienza di Wislawa Szymborska è simile a quella
della sua contemporanea e connazionale Anna S´wirszczyn´ska
(1909 Varsavia-1984 Cracovia), anchessa poeta, anchessa
dunque poco conosciuta dalla critica.
Non è facile occuparsi della biografia, e soprattutto della
poetica, di una scrittrice che parte già sconfitta dalla
critica letteraria. Ma il desiderio di riscatto è forte quando
si decide di approfondire poetica e biografia di scrittori poco
premiati, se non troppo tardi; e aiuta in parte a compensare tale
difficoltà.

È vero che la poesia della Szymborska come quella della
S´wirszczyn´ska, nella loro piana limpidezza e ingannevole
semplicità, esigono un orecchio molto fine, ma è altrettanto
vero che poeti dalla acuta sensibilità, quali Brodskij, Herbert
e Milosz, hanno saputo cogliere la finezza della sonorità
espressiva e lirica di entrambe.
Quando allora da slavista in erba mi è stato proposto di
preparare un lavoro di ricerca su Anna S´wirszczyn´ska,
le prime reazioni avute sono state di grande imbarazzo. La scrittrice,
appartenente secondo il poeta russo Brodskij a quel mondo della
«più straordinaria poesia di questo secolo»,
è poco conosciuta allinterno della stessa polonistica,
e violare il canone degli scrittori maggiori suscita sempre reazioni
di stupore, ma studiare una poetessa sconosciuta quando
proprio un grande della letteratura polacca, Czeslaw Milosz (Nobel
1980), la ripropone come «straordinaria e originale»
scrittrice, è diventato per me negli anni un lavoro più
che entusiasmante.
La S´wirszczyn´ska ha saputo introdurre tonalità
nuove nel variegato mondo della poesia contemporanea. La sua poesia,
che nel corso degli anni ha conosciuto uno spostamento di accenti
e di forme, è un particolare riflesso della realtà
nella quale la scrittrice è immersa, che la sua sensibilità
femminile sa ben fotografare in poesia.
Dietro un modo espressivo estremamente semplice si cela
una straordinaria densità intellettuale. Infatti, i fondamentali
aspetti dellesistenza (lamore, lessere donna,
la sofferenza, la felicità, la vita, la morte) sono sempre
descritti nella loro reale concretezza, che per non essere alterata
necessariamente implica un uso appropriato, equilibrato, essenziale
della parola. Realismo dellarte dunque, un modo
cioè di far poesia che per alti contenuti mentali si avvale
di unespressività sempre leggera:
Scoppio damore
Scoppio damore,
come un grande albero di vento,
come una spugna doceano,
come valorose vite di sofferenza,
come il tempo di morte.
La mia sofferenza
La mia sofferenza
è a me utile.
Mi dà il diritto di scrivere
sulla sofferenza degli altri.
La mia sofferenza è una matita
con la quale scrivo.
La lavandaia
Lava la sporca biancheria del suo uomo,
La sporca biancheria dei suoi figli,
La sporca biancheria delle sue figlie.
Inumanamente pulita
come una vita uccisa
asciuga a volte la peccatrice lacrima di un sogno
con le pulite mani
di lavandaia.
La disperazione
Una mano senzarma
si leva verso il cielo
afferra il cielo per la gola con le dita
e cade.
Tutto traspare dalle sue liriche: la realtà sociale dei
suoi anni, la cultura e la mentalità della sua terra, ciò
che in ambito metafisico-esistenziale più coinvolge la riflessione
umana. E puntualmente si aggiunge una costante di fondo, la sua
esperienza individuale, che sempre è esperienza di
donna e che mai rimane esclusivamente soggettiva: nel suo
io cè una costante attenzione verso laltro che
è vicino a lei:
Respiro
Laria dellintero mondo
è entrata in me.
E sono diventata
laria dellintero mondo.
Io protesto
Morire
è il lavoro più pesante
di tutti.
Gli anziani e i malati
dovrebbero esserne esonerati.
Insomma, una magistrale padronanza linguistica e una sottile sensibilità
umana, che fanno della S´wirszczyn´ska una poetessa
degna di essere ricordata e inserita tra i poeti di primo piano
nel panorama della lirica mondiale del Novecento.
La S´wirszczyn´ska non ha niente da invidiare neanche
a coloro che sono più acclamati dalla critica. La sua poesia
parla chiaro: loriginalità, esclusiva dei più
sensibili, è appannaggio dei suoi scritti ed è pertanto
una dote che deve essere riconosciuta e non sottaciuta. Questa valida
rappresentante della poesia polacca contemporanea, protagonista
del processo di femminilizzazione della cultura del suo Paese, scrittrice
dellessenziale, ha dovuto attendere nel silenzio il meritato
riconoscimento di poetessa da ricordare.
Oggi, anche se il processo di rivalutazione è ancora lontano
dallessere definitivamente concluso, si può con certezza
affermare che Anna S´wirszczyn´ska appartiene di diritto
al novero dei maggiori poeti polacchi del Novecento, e ciò
grazie ad unarte lirica estremamente originale e nuova.
simona abate
La vita in
un labirinto
Chissà perché mio padre mi portava spesso
a vedere quello che, per me fanciullo, era uno strano disegno, inciso
nella pietra della Cattedrale di Lucca. Mio padre non dava spiegazioni.
Diceva soltanto: «Guarda!». E con il dito indice iniziava
un percorso che inevitabilmente non trovava uscita. Io guardavo
e non capivo, ma era un ghirigori affascinante.
Anni dopo, un vocabolario etimologico mi fornì alcune spiegazioni,
che aumentarono la confusione dei significati della parola labirinto.
Poteva derivare da un fabbricato egiziano, colmo di intricate giravolte;
oppure dal monte esistente nellisola di Creta, ricco di grotte
diramate in varie direzioni; oppure, semplicemente, Luogo
naturale o artificiale, composto di molti andirivieni, da renderne
impossibile luscita a chi non fosse pratico. Cominciai
a pensare: Come la mia vita.
Per mio padre, invece, quella scultura misteriosa rappresentava
la raffigurazione plastica di un fatto mentale, oggi metaforicamente
usata per indicare un pensiero imbrogliato, difficile, senza spiegazioni
possibili. Per me, il fascino di quella immagine stava appunto nel
suo rifiuto di spiegarsi. Già da fanciullino amavo le complicazioni;
da adulto avrei purtroppo continuato a crearmele.

Ogni domenica mattina, quel mio altrettanto strano
genitore continuò a dire: «Guarda!», piantandomi
lì, davanti a quel muto maestro che si materializzava nella
pietra.
È trascorsa una vita intera e soltanto ora mi è venuto
da pensare che gran parte del mio complicato carattere deriva da
quella scultura romanica, che ancor esiste e dura e fa scuola: scuola
simbolica, silenziosa, nellatrio di San Martino, a Lucca.
Eppure, è difficile che uno studioso darte o anche
un turista curiosone si fermino in quellangolo, a cercare
di capire lenigma.
Forse fu da fanciullino, grazie ad un padre originale, che io attinsi
il gusto della riflessione, il piacere della filosofia, anzi della
poesia ermetica ante litteram.
Anchio misi, poi, lindice nella traccia di pietra, ma
neppure io seppi trovare luscita. Soltanto alla fine ho compreso
che quel complicato disegno rappresenta, senza fronzoli estetici,
in diretta, come diciamo nel gergo televisivo, la vita stessa che,
a dirla sinceramente e senza corollari religiosi, è fatta
proprio così comè fatta, niente spiegazioni
aggiunte...
Forse per questo suo messaggio, se qualcuno mi chiedesse: «Qual
è dopo tanti anni il punto preciso della tua città
che tu vorresti rivedere?», risponderei certamente
con rispetto, o meglio con antica devozione, avendo in mente lindice
allegorico di mio padre troppo intelligente risponderei senza
stupide nostalgie né fatui campanilismi: «Voglio toccare
ancora, come facevo da fanciullo, il labirinto romanico di Piazza
San Martino. Fu da quello che iniziai a combattere il Mistero dellessere.
Ed è lì che vorrei finire».
Perché la vita, in sostanza, è un labirinto senza
uscita.
florio santini
La lunga
marcia di Sherman
Chi fossero i Mille di Garibaldi, e come da Quarto al Volturno siano
più o meno andate le cose, riteniamo di saperlo in molti.
Ma non tutti abbiamo la stessa familiarità con la Guerra
civile americana, e la ricostruzione romanzesca della mitica marcia
dei 60 mila uomini, donne e schiavi liberati, al seguito del generale
William Tecumseh Sherman da Atlanta verso il mare (1864), e poi,
su su, attraverso la Carolina del Sud fino a quella del Nord, che
stroncò la resistenza dei Confederati, saccheggiando e devastando
ogni cosa ponti abbattuti, binari divelti e attorcigliati
intorno agli alberi, fabbriche e arsenali demoliti con conseguente
rovina delleconomia e soppressione della moneta ridà
vita ad un evento che ha dimensioni bibliche e che Edgar L. Doctorow
presenta come qualcosa di assoluto.
Paradossalmente, La marcia è un romanzo storico
che racconta un evento che si colloca come fuori dalla storia. È,
sì, fondato sulla rappresentazione di fatti che sono in funzione
di unidea (o ideologia), ma poiché in questo caso lidea
non è altro che quella della ineluttabilità di ciò
a cui stiamo assistendo, ne consegue che dal racconto scompare la
prospettiva politica. Vale a dire la ricerca e la spiegazione delle
origini e delle ragioni del conflitto.
Dal punto di vista drammatico e narratologico, questo non è
un difetto, e addirittura rafforza il carattere tragico necessitato
dellevento e mette in risalto la coazione dei personaggi.
Soprattutto, altro paradosso, quei personaggi, gli ex schiavi, i
quali una volta liberati, non sapendo che fare di se stessi, si
accodano al serpente che si ingrossa e che procede come se a governarlo,
più che la volontà degli uomini, fosse la forza del
destino.
La marcia, quasi come lIliade, è una storia di guerra
in cui non sono in discussione le cause della guerra; ed è,
inoltre, il resoconto di un Esodo in cui molte cose sono capovolte.
È in realtà una spedizione allinferno. Ed è
una sorta di devastante operazione chirurgica per rimettere insieme
una nazione fondata sul mito della Terra promessa. È anche
il risultato di una totale immersione, da parte di Doctorow, nella
mentalità e nella cultura, specialmente scientifica, dellepoca.
Il punto di vista e i personaggi sono consonanti a una visione vittoriana,
ottocentesca, del mondo.
Non è dallalto, come da un aeroplano, che la marcia
irrompe nel libro dopo poche pagine: «Quello che vedevano
in lontananza era un fumo che si levava da punti diversi dellorizzonte.
Ci fu un cambiamento nel colore stesso del cielo, che a poco a poco
apparve come una nuvola bruna staccatasi dalla terra. Veniva avanti
come la lama di unaccetta e poi sempre più larga come
il solco tracciato dallaratro. Attraversava il cielo verso
sud. Il suono di questa nuvola, quando li raggiunse, era una cosa
che non avevano mai udito. Era una cosa che si sentiva con i piedi,
una risonanza, come se fosse la terra a emettere un ronzio. Portato
dal vento, il suono diventò un pesante calpestio cadenzato
che parve loro, colmandoli di sollievo, lumana ragione di
quella grande nuvola di polvere. E poi, ai margini di questo suono
di terra calpestata, udirono le voci di uomini vivi che urlavano.
E i muggiti del bestiame. E il cigolio delle ruote. Ma non si vedeva
niente».

Corale nelle intenzioni, La marcia si svolge però
nellunico modo possibile in un romanzo. Porta avanti la storia
ricorrendo a un certo numero di personaggi le cui vicende si incrociano.
Dal generale Sherman al tamburino, che è in realtà
unadolescente travestita da uomo; da una coppia di comici
furfanti che finiscono male al chirurgo tedesco con i nervi di acciaio
che usa il bisturi anche con la fidanzata la prima notte che trascorrono
insieme; e dalla famigliola di neri bene intenzionati che si aspettano
un futuro felice fino alla passerella finale delle figure storiche.
Il generale Grant e il presidente Lincoln, con relativa e insopportabile
moglie nevrastenica.
Ma il punto forte del libro consiste nel fatto che mette a fuoco,
nel senso fotografico del termine, un numero sbalorditivo di dati
e di dettagli, che lo fanno vivere come uno di quei documentari
che, dal punto di vista dellinformazione, sono anche meglio
dellesperienza vissuta.
maria d. bolle
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