Subito dopo
aver staccato gli ormeggi, il nuovo Trattato si trova in mezzo ad
acque agitate che
potrebbero
presto diventare tempestose.
|
|
«Da Lisbona riparte la nave dell’UE?». Questa
la domanda che la sera del 19 ottobre Pier Virgilio Dastoli rivolgeva
a se stesso e ai lettori di “InEurop@”, newsletter quotidiana
della rappresentanza italiana della Commissione europea. Era una
domanda di stretta, anzi strettissima attualità, dato che
poche ore prima nella capitale portoghese si era concluso un Consiglio
europeo dedicato all’approvazione del nuovo Trattato dell’Unione.
Era anche una domanda che veniva da fonte autorevole, dato che Pier
Virgilio Dastoli è il direttore della Rappresentanza italiana
della Commissione europea. Ed era, infine, una domanda che conteneva
in se stessa una risposta.
L’interrogativo finale esprimeva infatti uno sgradevole dubbio.
Metteva indirettamente ma chiaramente in forse che a Lisbona la
nave dell’Unione europea fosse stata finalmente in grado di
liberarsi dai paralizzanti ancoraggi che la tenevano bloccata da
due anni, esattamente da quando, nel 2005, i risultati negativi
dei referendum olandese e francese avevano tagliato le gambe al
progetto di Trattato costituzionale, solennemente approvato e festeggiato
a Roma il 29 ottobre del 2004 dai capi di Stato e di governo dei
27 Paesi già allora membri dell’Europa comunitaria o
in procinto di entrare a farne parte.
Lo stesso dubbio, assieme a Dastoli, ha coinvolto tante persone
che s’interessano d’Europa: tra gli altri noi, che nei
risultati del Consiglio europeo di Lisbona del 18 e 19 ottobre 2007
abbiamo visto e vediamo sì una partenza ma con i motori al
minimo e, quel che è peggio, con destinazione incerta. Infatti
il cosiddetto snello testo di Trattato approvato nella capitale
portoghese (occupa pur sempre 250 pagine!) evita ogni richiamo alla
bandiera con le dodici stelle e all’Inno alla gioia, espressioni
dei sentimenti europeisti di tante generazioni.
Inoltre: 1) riconosce valore vincolante alla “Carta dei diritti
fondamentali”, ma esentando Gran Bretagna e Polonia dall’obbligo
di applicarla; 2) risolve parzialmente il problema di un’adeguata
presenza italiana nel Parlamento europeo (73 seggi, gli stessi della
Gran Bretagna, ma uno in meno della Francia) pagando però
il poco dignitoso prezzo dell’aumento di uno (da 750 a 751)
del totale dei deputati dell’assemblea dell’Unione; 3)
prima dell’ipotetica data dell’entrata in vigore (1°
gennaio 2009) dovrà passare sotto le forche caudine di almeno
un referendum (in Irlanda) e forse di altri tre (in Gran Bretagna,
Danimarca e Finlandia).

C’è quanto basta, anche di più, perché
suscitino solo moderate speranze perfino le più allettanti
tra le promesse contenute nel Trattato (presidenza dell’Unione
di due anni e mezzo anziché sei mesi, aumento dei poteri
dell’Alto Rappresentante della Politica Estera, riduzione dei
membri della Commissione da 27 a 18, cambiamento del sistema di
voto al Consiglio dei Ministri con sensibile calo dei casi in cui
è possibile ricorrere al potere di veto).
In definitiva, a Lisbona il 18 e il 19 ottobre un tentativo di rimettere
in navigazione la nave dell’UE c’è stato e continua.
Ma con strumenti di bordo ed equipaggi che garantiscono nel migliore
dei casi risultati modesti, se non modestissimi. Tanto più
perché i bastian contrari restano tanti e tengono le armi
ben affilate. Il più rozzo, il polacco Jaroslav Kaczinsky,
è stato messo in condizioni di non nuocere dai risultati
delle elezioni politiche svoltesi nel suo Paese proprio pochi giorni
dopo il vertice di Lisbona. Ma altri, i più grossi e i più
pericolosi, sono più agguerriti che mai. Il premier inglese
Brown ha lasciato Lisbona ammonendo i governi degli altri Paesi
europei di non aspettarsi altre riforme istituzionali prima del
2017. Ancora Brown, assieme al francese Sarkozy e alla tedesca Angela
Merkel, ha firmato un documento che formalizza l’esistenza
di un direttorio a tre, dunque di un gruppo che pretende la leadership
dell’Unione europea.
E così subito dopo aver staccato gli ormeggi il nuovo Trattato
si trova in mezzo ad acque agitate che potrebbero presto diventare
tempestose. E lo stesso potrebbe accadere per il tentativo –
che per ora ha sede solo nelle speranze di un numero limitato di
europeisti irriducibili – di rimettere in marcia il processo
d’integrazione: con la conseguenza tra l’altro di rinviare
o rendere addirittura impossibili altri allargamenti, da quello
che riguarda la Turchia a quelli che coinvolgono i Paesi dell’ex
Jugoslavia e l’Albania.
In attesa di riuscire a capire che cosa di buono e di cattivo ci
verrà nei prossimi mesi e nei prossimi anni dalle tormentate
vicende dell’Europa politica, nelle stanze dell’Europa
utile, quelle dove si lavora per migliorare le condizioni di esistenza
dei 483 milioni di cittadini dell’Unione, regna tuttavia –
come ormai avviene da tempo – un complessivo ottimismo. Gli
effetti degli scontri e dei bracci di ferro che dominano nei vertici
di capi di Stato e di governo arrivano in questi luoghi molto attutiti.
E non fermano, neppure rallentano i programmi più impegnativi.
In certi momenti si direbbe anzi che per reazione alle crisi politiche
l’Europa utile voglia fare di più e meglio che in passato.
Avviene ad esempio con una serie di notizie positive che sono portate
all’attenzione degli interessati, i cittadini, proprio mentre
a cavallo tra l’autunno e l’inverno l’Europa politica
sembra perdere più di un colpo. Potrebbe essere e forse almeno
in parte è davvero una sorta di controffensiva psicologica:
la controffensiva d’autunno-inverno, mediante la quale si creano
nuovi interessi e anche consensi europei con cui si spera di rimpiazzare
quelli scoloriti o addirittura cancellati a causa delle delusioni
politiche. Soprattutto grazie all’Europa utile, in questo particolare
momento l’Unione dunque non solo dimostra vitalità ma
sembra trovare nuove certezze nel proprio avvenire.
Accade, ad esempio, quando il 24 settembre di quest’anno viene
pubblicata la Relazione finanziaria dell’Unione europea per
il 2006. Con il ricorso ai numeri, che non possono essere pura opinione,
essa dimostra l’imponenza del lavoro che l’Europa comunitaria
svolge per i suoi cittadini e l’indiscutibile successo che
con questo lavoro ottiene. Vediamolo più chiaramente con
qualche dettaglio. Tra il 2000 e il 2006, in sette anni, le spese
sostenute dall’Unione per i fondi destinati alla crescita economica
e alla lotta alla disoccupazione negli Stati membri sono aumentate
di quasi il settanta per cento. Soltanto nel 2005 l’aumento
è stato del 19 per cento e ritmi di crescita ancora maggiori
si prevedono per il settennio 2007-2013. Particolarmente elevato
è stato ed è l’impegno a favore dei Paesi della
cosiddetta “UE 10”, cioè del gruppo (Europa centrorientale+Paesi
baltici+Malta e Cipro) ammesso nell’Unione nel 2004: è
passato da 2,4 a 11,5 miliardi di euro. Cioè si è
quasi quadruplicato! Tutto questo senza che gli altri Paesi, quelli
della cosiddetta “UE 15” (cioè del gruppo che già
prima del maggio 2004 faceva parte dell’Unione ), sopportassero
pesanti sacrifici. Al contrario. Tra i più grandi di questi
Paesi, la Spagna ha ottenuto, nel periodo 2000-2006, 99,5 miliardi
di euro, la Francia 89,6 miliardi di euro, la Germania 79,1 miliardi
di euro, l’Italia 70,2 miliardi di euro, la Gran Bretagna 50,2
miliardi di euro.

Questi investimenti, che per dimensioni e significato non hanno
forse precedenti nella storia d’Europa e di ogni altra parte
del mondo, hanno dato risultati di grande, talvolta eccezionale
peso e significato. L’Irlanda, che fino a pochi decenni fa
era un angolo d’Europa in serie difficoltà economiche,
è oggi uno dei Paesi più prosperi dell’Unione.
Il suo PIL supera di oltre il 25 per cento la media comunitaria
e assieme a quello dell’Olanda, della Danimarca e dell’Austria
è considerato tra i più alti d’Europa. La Spagna,
fino a pochi anni fa, aveva un tasso di disoccupazione tra i maggiori
dell’Unione. Oggi quel tasso è tra i più bassi
della Comunità, il Paese gode di una veloce crescita economica
e il suo PIL finalmente supera, sia pure di poco, la media dei ventisette.
La Slovenia, entrata solo tre anni fa nell’Unione, non ha ancora
raggiunto un PIL pari almeno alla media comunitaria, ma la sua economia
corre. Tanto è vero che, all’inizio di quest’anno,
essendosi messa in regola con i criteri di Maastricht, la Slovenia
ha potuto permettersi di entrare in Eurolandia.
Ancora: nel periodo 2000-2006 il PIL è aumentato del 2,8%
in Grecia e del 2% in Portogallo, mentre stime recenti prevedono
per il periodo 2007-2013, sempre grazie ai fondi europei, un considerevole
aumento del PIL sia in Lettonia, Lituania e Repubblica Ceca (+8,5
per cento) sia in Polonia (+5,5%). Ancora: ai benefici che sono
una diretta conseguenza dei fondi europei si aggiungono quelli provocati
dall’effetto leva. Avviene con i fondi nazionali, pubblici
e privati che, stimolati dall’esempio europeo, entrano in campo
nei vari Paesi e hanno, spesso, dimensioni considerevoli. Secondo
stime della Commissione europea, ogni euro speso dall’Unione
genera investimenti nazionali da uno a tre euro. Dunque l’iniziativa
comunitaria favorisce in campo nazionale il raddoppio e in qualche
caso la moltiplicazione per tre dei mezzi finanziari europei impegnati
per stimolare la crescita e combattere la disoccupazione. Si spera
che effetti non meno positivi ottengano molte altre imprese che,
con la sua controffensiva d’autunno-inverno, l’Europa
utile sta portando avanti o prepara.
Fermiamo la nostra e la vostra attenzione su un’iniziativa
che è di attualità in questa stagione in cui, concluse
da parecchie settimane le vendemmie, sono arrivati sul mercato i
“novelli” 2007. Si tratta della riforma dell’organizzazione
del mercato comune vitivinicolo. Contiene una serie di proposte
adottate dalla Commissione europea per portare competizione, ripresa
e infine successo in un settore che ha un peso notevole nell’economia
europea, ma che da qualche tempo sembra avere imboccato il tunnel
della crisi. Vediamo il problema, cominciando dai dati essenziali.
Le aziende vitivinicole dell’Unione europea sono 2,4 milioni,
occupano una superfice di 3,6 milioni di ettari, circa il 2 per
cento dell’intera superficie agricola dell’Unione. Il
vino da esse prodotto nel 2006 ha rappresentato il 5 per cento del
valore dell’intera produzione agricola comunitaria. È
tanto e sta diventando troppo. I consumi interni nell’Unione
diminuiscono, le importazioni da Paesi extracomunitari invece aumentano,
aumentano anche le esportazioni di vino europeo fuori dai confini
dell’Unione ma di poco, pochissimo. Con la conseguenza che
una notevole percentuale della produzione dei Paesi dell’Unione
resta invenduta e un buon numero di aziende vitivinicole è
in serie difficoltà. Per evitarle o ridurle finora l’Europa
comunitaria ha profuso un’enorme quantità di soldi a
fondo perduto, pagando con i suoi finanziamenti il vino che non
si vendeva. Si è arrivati a spendere annualmente, meglio
sarebbe dire a sprecare, 500 milioni di euro, oltre un terzo della
somma – 1 miliardo e 300 milioni di euro – che rappresenta
il totale dei fondi europei destinati ogni anno alla vitivinicoltura.
E questo senza risolvere la crisi o soltanto rallentarla. È
avvenuto il contrario. Stime recentissime hanno annunciato che se
non si cambia rotta, e radicalmente, entro il 2010-2011, le eccedenze,
cioè le quantità di vino invendute, raggiungeranno
il 15% del totale della produzione.
Di fronte a queste prospettive, dopo oltre un anno di ricerche,
di interventi di esperti, di contatti con i rappresentanti di aziende
dell’intera Unione, è scattata, con le proposte adottate
dalla Commissione europea, una vera e propria conversione a “U”.
Come sta già avvenendo per l’intera PAC (la Politica
Agricola Comune), di cui l’organizzazione comunitaria per il
settore vitivinicolo fa parte, la strategia dell’assistenzialismo
fine a se stesso è stata letteralmente gettata alle ortiche
e si è inaugurata una nuova, rivoluzionaria linea che fa
dell’impegno per la qualità, la promozione e l’imprenditorialità
le basi per trovare l’uscita dal tunnel prima e avviarsi poi
verso un successo internazionale.
In 200 mila ettari di terreno agricolo dove l’uva produce vino
di bassa qualità le vigne verranno estirpate: non con l’intervento
di gendarmi dotati di bulldozer, ma con il consenso e la collaborazione
dei produttori cui verranno assicurati adeguati risarcimenti. Le
aziende che producono vino di buona qualità verranno invece
incoraggiate ad espandersi: anche in questo caso con aiuti europei.
Saranno vietate tutte le pratiche cui si ricorre per arricchire
artificialmente il tasso alcolico del vino, tra cui il cosiddetto
“zuccheraggio”, cioè l’aggiunta di zucchero
nei mosti. Sarà rivisto e migliorato il sistema di etichettatura
delle bottiglie. Saranno incoraggiati, sempre con sostegni economici,
la formazione professionale dei vitivinicoltori e l’insediamento
di giovani agricoltori. E infine, ultimo ma non minore, si darà
il via ad una grande operazione per la promozione del vino europeo.
Le ricerche, gli studi, le consultazioni che hanno preceduto l’intervento
della Commissione europea hanno permesso di constatare che la crisi
delle eccedenze non esisteva o era di proporzioni contenute dove
la produzione era di buona qualità e dove più attiva
e intelligente era la promozione dei vini. Erano rimedi locali,
ma potevano trovare applicazione su tutto il territorio dell’Unione
europea. Di qui l’impegno per un generale miglioramento della
qualità da realizzare con gli indirizzi di cui prima abbiamo
indicato i punti fondamentali. E di qui anche la decisione di far
scendere in campo una promozione generalizzata e intelligente che
prenda il posto dei rari interventi spontanei e occasionali finora
attuati, batta e ribatta sulla qualità e i prezzi dei vini
europei prima all’interno dei singoli Paesi dell’Unione,
poi su tutto il territorio dell’Europa comunitaria, infine
nel resto del mondo dove sono notevoli le possibilità di
imporsi sulla produzione storicamente giovane, sostenuta più
dalla buona volontà che dall’esperienza, spesso nemmeno
economicamente attraente proveniente da altri Paesi. Tutto questo
con un impegno economico elevato, investendo nella promozione 120
milioni di euro all’anno, dunque poco meno di un decimo dei
fondi europei dedicati al settore vitivinicolo (1 miliardo e 300
milioni di euro) ma con la convinzione che siano soldi spesi bene.
Per merito dell’Europa utile, dunque, un futuro di trionfi
e di successi economici per il vino dell’Unione, la possibilità
che esso torni ad essere, come avveniva fino a poche decine d’anni
fa, il più noto, il più amato, quindi il più
bevuto del mondo? Forse. Ma già da ora, sicuramente, la prospettiva
di una ripresa di questo settore. Grazie all’Europa utile,
che con questi e tanti altri interventi ottiene dai cittadini amnistie,
almeno indulgenze, nei casi peggiori disattenzione per le delusioni
piccole, talvolta anche grandi che l’Europa politica infligge
al suo popolo: e anche a se stessa.
|