Cè da
scommettere che
il nuovo Presidente americano,
democratico
o repubblicano che sia, non esagererà con il ripristino della
prudenza
fiscale.
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Cè stato un momento in cui lAmministrazione
americana conteneva a stento la propria gioia nellannunciare
con toni trionfali un calo del deficit federale per lesercizio
2007 a poco più di 200 miliardi di dollari (145 miliardi
di euro), vale a dire l1,5 per cento del Prodotto interno
lordo statunitense. Sebbene il costante disavanzo non contribuisca
certamente a dipingere degli Stati Uniti un ritratto esemplare di
prudenza fiscale, il dollaro vale meno della metà rispetto
al 2004.
Ufficialmente, alcuni democratici continuano a condannare la dissolutezza
di Bush II, auspicando il ritorno al conservatorismo fiscale di
Clinton I. Sotto sotto, tuttavia, molti iniziano a chiedersi perché
un possibile Presidente democratico nel 2008 dovrebbe preoccuparsi
di risanare il bilancio del governo, se il risultato finale potrebbe
essere quello di consegnare nelle mani del prossimo Presidente repubblicano
una fetta di torta maggiore da far regalare a questo o a quellamico.
Certamente, dal 2000 in poi, anche con una normalizzazione dei tassi
di interesse a lungo termine, si è confutata la credenza
che un considerevole disavanzo nei bilanci pubblici statunitensi
condurrebbe automaticamente a maggiori tassi di interesse e a una
minore crescita. Ma è davvero così?

Partiamo dalle buone notizie. La travolgente globalizzazione economica
ha reso la politica di spesa statunitense molto meno determinante
per i tassi di interesse reali internazionali. Anziché unimpennata
di quei tassi, gli esigui livelli di risparmio pubblico e privato
negli Stati Uniti hanno prodotto un pesante deficit di conto corrente.
Il continuo apporto straniero contribuisce probabilmente a frenare
la scalata dei tassi di interesse reali americani di almeno l1,5
per cento, o forse anche più.
Ma diamo a Cesare quel che è di Cesare. La decisione dellamministrazione
Bush di ricorrere in modo drastico allindebitamento, in un
periodo in cui i tassi di interesse a lungo termine sono scesi in
modo altrettanto drastico, non è stata una cattiva intuizione
di mercato.
In un contesto caratterizzato dallo sviluppo asiatico, dalla disponibilità
degli Stati del petrolio a fornire liquidità a basso costo
e dalla bassa domanda di investimento globale, gli Stati Uniti sono
riusciti a prendere a prestito cifre notevoli a tassi molto più
vantaggiosi di quelli immaginabili solo sei o sette anni fa.
Potremmo stare a discutere se i tagli fiscali dellattuale
Amministrazione avrebbero dovuto avvantaggiare meno gli americani
più benestanti, complicando il sistema contributivo. Ci si
può lamentare di come sia stato sperperato tanto denaro per
la catastrofica invasione dellIraq. Ma il deficit targato
Bush non si è rivelato quel disastro di crescita immediato
che alcuni presagivano.
Certamente, quando i rappresentanti di questa Amministrazione iniziavano
a discutere di tagli fiscali, con ogni probabilità non immaginavano
di doversi poi rivolgere alla Cina, allArabia Saudita e alla
Russia per chiedere denaro. I politici americani erano invece sedotti
dal falso convincimento che se il governo avesse tagliato laliquota
marginale dimposta, leconomia sarebbe cresciuta così
tanto che gli introiti fiscali totali sarebbero, di fatto, aumentati.
Purtroppo, sebbene la famosa curva di Laffer dellera Reagan
abbia un suo fondamento di verità, leffetto positivo
non è stato sufficiente ad evitare che i conti federali dellultimo
decennio precipitassero in rosso.
Non dimentichiamo che lacclamata cifra di 200 miliardi di
dollari citata dal Presidente si riferisce al deficit unificato
che include lattivo della Social Security. Senza questo escamotage
contabile (peraltro non inventato dallAmministrazione Bush),
il debito 2007 ammonterebbe a più del doppio.

Sia lOrganizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico
sia il Fondo monetario internazionale ritengono la politica del
deficit statunitense molto più pericolosa di quanto in realtà
non sembri. Gli Stati Uniti dovrebbero accumulare enormi utili in
vista delle imminenti pensioni di anzianità e dei crescenti
costi sanitari.
LOcse e il Fmi condividono le stesse preoccupazioni anche
per gli altri Paesi ricchi. Ben Bernanke, presidente della Federal
Reserve, chiosava in modo eloquente le ultime buone notizie in materia
fiscale, parlando di «quiete prima della tempesta».
Il Congressional Budget Office, ad esempio, prevede che la spesa
pubblica statunitense su Medicare (programma di assicurazione medica),
Medicaid (programma di sovvenzione medicinali) e Social Security
(programma di previdenza sociale), attualmente a circa l8,5
per cento del Prodotto interno lordo, salirà al 15 per cento
entro il 2030 e al 20 per cento entro il 2050.
Ma che senso ha arrovellarsi cercando di immaginare scenari sicuri
di spesa previdenziale e sanitaria, quando le politiche attuali
sono così palesemente insostenibili? È chiaro che
il sistema previdenziale di Social Security può essere sistemato
adeguando letà pensionabile alle aspettative di vita
e aumentando moderatamente limposizione fiscale. Lassistenza
medico-sanitaria implica invece problematiche ben più complesse
per equilibrare la distribuzione e gli incentivi in materia di assistenza
di qualità e di innovazione.
Una cosa è garantire a tutti lo stesso diritto di accesso
allassistenza medica quando le spese sanitarie ammontano al
5 per cento del Prodotto interno lordo, come si fece nei primi anni
Cinquanta. Unaltra cosa è farlo quando la spesa sanitaria
erode il 16 per cento di quel Prodotto, come avviene oggi, e sarà
ancora più problematico se questa percentuale salisse al
30 per cento, come alcuni economisti di spicco, del calibro di David
Cutler, Robert Hall e Charles Jones, prevedono. Con una spesa sanitaria
al 30 per cento del Prodotto interno lordo, ogni sforzo volto a
mantenere la parità di trattamento assomiglierebbe a una
manovra di stampo prettamente marxista.
In verità, il problema delle enormi incongruenze derivanti
da politiche insostenibili riguarda la maggior parte dei Paesi.
Certamente, alcuni di loro non saranno in grado di risolvere le
inevitabili frizioni intergenerazionali, provocando una paralisi
con considerevoli implicazioni per i tassi di interesse, di inflazione
e di crescita. Ma questo potrebbe anche non accadere e, nel caso
degli Stati Uniti, è difficile dire quale sarà lesito
della politica di tagli fiscali del Presidente. Forse non sfoceranno
in una catastrofe a catena, ma in semplici discussioni sulla spesa
pensionistica e sanitaria. Naturalmente, la discussione potrebbe
anche accendersi in un dibattito catastroficamente feroce.
Se volessimo indicare un tallone dAchille che presto mostrerà
il nervo scoperto nelle politiche del deficit americano, allora
dobbiamo segnalare la forte dipendenza dal finanziamento estero.
Il governo prende in prestito circa 800 miliardi di dollari allanno,
oltre il 6 per cento del Prodotto interno lordo. È incredibile,
se si considera che lindebitamento Usa riguarda approssimativamente
i due terzi del risparmio netto totale di tutti i Paesi in attivo.
Sebbene un riequilibrio delleconomia mondiale potrebbe aiutare
ad abbassare il deficit di conto corrente statunitense questanno,
le economie globali e americana rimangono piuttosto vulnerabili
di fronte a scenari che forzano verso riequilibri più rapidi.
Una scossa geo-politica che imponesse agli Stati Uniti di tagliare,
diciamo per metà, il suo deficit commerciale e di conto corrente
risulterebbe piuttosto destabilizzante, facendo crollare il cambio
medio ponderato del dollaro rispetto ad altre valute del 20-25 per
cento.
Cè da scommettere che il nuovo Presidente americano,
democratico o repubblicano che sia, non esagererà con il
ripristino della prudenza fiscale. Purtroppo, mantenere questo approccio
potrebbe condurre a un naufragio, soprattutto se i tassi di interesse
reali globali dovessero crescere in misura sensibile.
La propensione del governo americano verso il rosso potrebbe anche
essere stata fortuitamente tempestiva, ma alla resa dei conti quel
che conta è il deficit.
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