Molta gente,
non è più in grado di ripagare
i propri debiti.
E non parlo
soltanto delle
classi meno
abbienti.
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Non lancio anatemi. Avverto soltanto. I più sono convinti
che una crisi non ci sarà soltanto perché negli ultimi
anni non cè stata. Sbagliano: leconomia americana
è già alle corde. Perché il debito pubblico
statunitense ha raggiunto livelli insostenibili, perché il
biglietto verde è ai minimi storici, o quasi, e perché
il mercato immobiliare è evidentemente in recessione.
È vero che qualche miglioramento cè stato, a
cominciare dal deficit, ma è altrettanto vero che cè
poco da festeggiare. Alla base di tutto cè proprio
la debolezza del dollaro che traina le esportazioni. È unarma
a doppio taglio. Nel senso che se continua così cè
il rischio che la valuta americana perda il proprio appeal sui mercati
internazionali e non venga più percepita come bene-rifugio.
E mi riferisco alleventualità che le banche centrali
riducano in un futuro tuttaltro che lontano le proprie riserve
in dollari. Cè già chi lha fatto. Optando,
fra laltro, per leuro. Prendiamo la Russia, per esempio:
la quota della moneta unica europea nei suoi forzieri è in
netto aumento. E non si tratta certamente di un caso unico. Anche
gli Emirati Arabi, la Cina e il Giappone hanno imboccato la stessa
strada.
Per quel che riguarda lo studio recente della Banca centrale europea,
secondo cui la crescita delleuro nei depositi delle banche
centrali è ancora limitata, devo ribadire che ho paura che
si tratti soltanto di una questione di tempo. E oltre tutto, non
ci sono solo le riserve valutarie. È da tempo, tanto per
capirci, che i produttori di greggio si interrogano sulla possibilità
o meno di farsi pagare in euro. E lo stesso potrebbe succedere per
le altre materie prime.
Ricordiamo che per il petrolio cè sempre il rischio
di nuove impennate: da questo punto di vista, lo scenario non è
rassicurante. È sufficiente che un solo Paese decida di tagliare
la produzione delloro nero perché le quotazioni del
barile schizzino in avanti. Penso a un Paese produttore su tutti:
lIran.
Ovviamente, ne risentirebbe linflazione. E a quel punto le
banche centrali sarebbero costrette a correre ai ripari: alzando,
ancora una volta, i tassi. E dal momento che lo stesso governatore
della Federal Reserve, Ben Bernanke, ha accennato al rischio che
linflazione non scenda come previsto, ripeto che i fattori
di instabilità ci sono tutti, e che vanno tenuti nella dovuta
considerazione.

Per quel che riguarda poi il mercato immobiliare, sono in molti
a puntare il dito su di esso. Perché sanno che è già
in recessione. Città come Detroit, San Diego e Boston, per
esempio, hanno da tempo innescato la retromarcia con un crollo delle
quotazioni anche a doppia cifra. E le altre metropoli non sono certo
al riparo da analoghi scivoloni. A risentirne sono soprattutto società
costruttrici, banche e quantaltro. Dunque, non escludo effetti
a catena sugli altri settori. Le prime avvisaglie ci sono già
state con i tracolli, ai primi dellanno, degli istituti di
credito specializzati in mutui sub-prime, vale a dire concessi a
clienti con caratteristiche di affidabilità finanziaria inferiore
agli standard.
Ovviamente, la speculazione cè, ed è un problema
non da poco. Ma il mercato del sub-prime è vasto, e soprattutto
coinvolge, direttamente o indirettamente, diversi pesi massimi della
finanza internazionale. A cominciare dagli hedge fund. E questo
non mi tranquillizza. Anche perché il loro portafoglio è
di fatto ignoto e, dunque, è impossibile appurare se siano
o meno sovraesposti su un determinato mercato, compreso quello dei
mutui. E poi non possiamo far finta che il rischio insolvibilità
non ci sia. La gente, molta gente, non è più in grado
di ripagare i propri debiti. E non parlo soltanto delle classi meno
abbienti.
Si può obiettare che, malgrado tutto, i consumi resistono.
Ma non va dimenticato che nel 2006 il tasso di risparmio delle famiglie
americane è scivolato per la prima volta sotto lo zero, attestandosi
a meno lun per cento. La teoria economica, invece, ci dice
che il livello naturale sia il 4 per cento. Quindi, a conti fatti,
scontiamo un gap del 5 per cento. Che, alla lunga, diventerà
insostenibile.
In conclusione: nel breve-medio periodo parlerei di crescente rischio
di rallentamento per gli Stati Uniti. Il che significa che la parola
recessione non va per niente cancellata dal vocabolario
americano.
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