Per ridurre il
deficit, il ministro dellEconomia
ha ritenuto più semplice
aumentare le
tasse, sebbene
le tasse italiane siano tra le più elevate dEuropa.
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LItalia è un Paese straordinario: bella gente, unincantevole
campagna con un incredibile passato, cibi e vino straordinari e
uneconomia sofisticata, i cui prodotti sono conosciuti in
tutto il mondo. Già nel 1986, leconomia italiana superava
del 9 per cento quella del Regno Unito, ma dal 2000 la crescita
economica in Italia ha subìto una fase di stagnazione e la
sua tanto decantata competitività è diminuita così
drasticamente che il surplus commerciale di 46 miliardi di euro
di dieci anni fa è crollato fino a diventare un deficit di
9 miliardi nel 2006.
Ma che cosa è accaduto? Negli anni Novanta lItalia
si è battuta per adeguarsi alle inchieste di Mani Pulite
e ai criteri imposti dal Trattato di Maastricht. Al 2 gennaio 1999,
lItalia ha notevolmente svalutato la lira e adeguato la sua
politica di bilancio, dopo grandi privatizzazioni. In questo modo
ha realizzato i criteri imposti da Maastricht (con il suo rapporto
debito/Pil in calo verso il 109 per cento) ed è entrata a
far parte dellUnione monetaria insieme ad altri dieci Stati
membri dellUe. In ogni caso, due fattori (spesa in disavanzo
e svalutazione) hanno rappresentato una sorta di droga che ha incoraggiato
la crescita in modo quasi patologico, ritardando lapplicazione
di misure più efficaci per mantenere la competitività
del Paese.
Ma quanto è grande il problema? Nel 2001 la crescita economica
ha subìto un rallentamento, per poi entrare in una fase di
stagnazione, con appena lo 0,9 per cento lanno. La popolazione
ha smesso di crescere, gli investimenti hanno smesso di crescere,
e, cosa più importante, il capitale ha smesso di crescere.
Lincremento della produttività del lavoro è
stato -3 per cento per i sei anni successivi al 2000, pari al -5
per cento annuo. La produttività totale dei fattori era ancora
peggiore. In altre parole, lItalia sembrava essere in piena
fase di involuzione.
Mentre la produttività registrava un andamento negativo,
lItalia è entrata a far parte dellUem. Linflazione,
almeno nel breve periodo, è aumentata quando si è
passati dalla lira alleuro. I dettaglianti, non avendo dimestichezza
con le monete delleuro, hanno aumentato i prezzi. Se prendiamo
gli aumenti salariali e detraiamo laumento della produttività,
otteniamo la crescita in termini di costo unitario del lavoro
lessenza della competitività. Mentre il costo unitario
del lavoro in Italia è aumentato del 22 per cento nel 2006,
quello in Europa è salito solo del 2,4 per cento. Ne è
derivato un netto calo della quota italiana delle esportazioni a
livello di commercio mondiale, passando dal 4,7 per cento del 1994
al 3,7 per cento del 2005. Il saldo della sua bilancia commerciale,
una volta pari a 46 miliardi di euro, recentemente è diventato
negativo, quando nel 2006 le importazioni sono aumentate del 14
per cento.

Ho avuto lopportunità di esaminare attentamente la
strategia di sviluppo nazionale italiano e di conoscere i problemi
che contribuiscono al dilemma della competitività. Il primo
riguarda la rigidità del mercato del lavoro, così
come riguarda il divario ideologico incolmabile e il sistema politico
frammentato. LItalia è fortemente sindacalizzata. Ciò
non rappresenta un problema di per sé, ma gli accordi negoziati
nel corso degli ultimi trentanni hanno dato luogo a un sistema
non flessibile. La cosa peggiore sono le restrizioni sulle assunzioni
e sui licenziamenti situazioni che qualunque economia dinamica
deve poter affrontare liberamente. Come mi ha raccontato più
di un dirigente italiano, «il licenziamento non esiste sulla
carta!». Un altro mi ha spiegato che «se licenzi un
dipendente, anche per giusta causa, devi andare davanti a un giudice
che solitamente ti fa riassumere il dipendente e ti chiede i danni».
E alla messa in cassa integrazione, naturalmente, hanno fatto seguito
lunghi periodi di pagamento dei sussidi di disoccupazione, accollando
un peso intollerabile allo Stato.
Negli Stati Uniti, invece, il licenziamento a discrezione del datore
di lavoro richiede appena due settimane, con il pagamento di sei
mesi di disoccupazione. In parte come conseguenza, la disoccupazione
in Italia negli ultimi 15 anni si è aggirata intorno al 9
per cento, con cifre molto più alte per il Sud e molto più
basse per il Nord, mentre negli Usa si è aggirata intorno
al 5 per cento.
Comunque, nel 2003 lItalia ha iniziato a fare progressi con
la Legge Biagi. Due dei tre sindacati nazionali dei lavoratori hanno
accettato di provare ad abolire, almeno temporaneamente, le restrizioni
sui licenziamenti per le aziende con un numero minore di dipendenti.
Da quel momento lassunzione dei lavoratori temporanei ha vissuto
una grande espansione e il tasso di disoccupazione in Italia si
calcola sceso al 6,5 medio per cento, nonostante la lenta crescita.
Ciononostante, era rimasto ancora notevole margine per ritardare
il pensionamento, per la flessibilità dellorario di
lavoro e forse per condizioni più convenienti per le ferie
e le vacanze, per lassistenza sanitaria e persino per condizioni
più restrittive sulle variazioni di località o di
livello di inquadramento.
Un secondo problema correlato è leccessiva regolamentazione
dello Stato. Nel 2006 la Banca mondiale ha collocato lItalia
all82° posto in classifica per la facilità di svolgere
unattività, al di sotto della Colombia (79°), del
Kazachstan (63°) e della Mongolia (45°). Ciò che
ha contribuito a questo triste primato sono stati i mercati fortemente
regolamentati. Secondo lo studio della Banca mondiale, in Italia
ci vogliono 284 giorni per acquisire una licenza per metter su un
negozio, contro i 181 giorni dellIrlanda, i 133 della Germania
e i 69 degli Stati Uniti. Per far rispettare un contratto, gli italiani
devono intraprendere 40 procedure, avendo così bisogno in
media di circa 1.210 giorni. Ancora una volta ogni confronto è
sfavorevole, se si pensa allIrlanda (18/217), alla Germania
(30/394) o agli Stati Uniti (17/300).

Il terzo problema è linsufficiente competizione a
livello di istruzione superiore. La competizione per le cattedre
universitarie è bloccata da «patrocinii, amicizie e
posti di ruolo garantiti», come lamentava di recente lEconomist,
e anche la competizione tra le università per richiamare
gli studenti è debole. LItalia sembra avere troppe
università (diluendo le risorse governative) che hanno accettato
soprattutto candidati del luogo. La percentuale di laureati è
la più bassa in Europa, e di questi solo pochi hanno conseguito
una laurea tecnica.
Una scarsa competizione influisce sul business; certamente fa parte
della struttura dellindustria in Italia. Il settore privato
è più frammentato rispetto a qualunque altro Paese
dEuropa. Cioè, la dimensione media di unazienda
industriale è di soli 9 dipendenti, se paragonata alla media
allinterno dellUnione europea, pari a 16; le aziende
di servizio hanno una media di 3 dipendenti ciascuna, se paragonata
alla media di 5 dipendenti dellUe.
La conseguenza di questa microrigidità e della lenta crescita
economica sono stati i problemi di budget che hanno sommerso almeno
gli ultimi tre governi. Mentre molti dei più grandi Paesi
Ue hanno incontrato difficoltà nel raggiungere gli obiettivi
fissati nel Patto di crescita e stabilità per ridurre il
deficit di bilancio, quello dellItalia è notevolmente
cresciuto dal 2001, non raggiungendo gli obiettivi sin dal 2003.
I motivi sono svariati. La lenta crescita economica ha rallentato
le entrate, mentre la mancanza del consenso politico e i sempre
più elevati obblighi verso una popolazione che invecchia
hanno esercitato una pressione al rialzo sulle spese. Una seconda
conseguenza a più lungo termine di questi deficit è
che il debito, in termini percentuali del Pil, è passato
nuovamente al 107 per cento e il pagamento degli interessi sul debito
(anche se con tassi più bassi) assorbe il 9 per cento del
bilancio statale.
Per ridurre il deficit, il ministro dellEconomia ha ritenuto
più semplice aumentare le tasse, sebbene le tasse italiane
siano tra le più elevate dEuropa. Diminuire le spese
è quasi impossibile per via della frammentazione allinterno
del sistema politico e per la convinzione ideologica molto diffusa
nella società di poter prendere dallo Stato.
Inoltre, sono in fase di crescita sia le pensioni sia i costi sanitari,
date le maggiori aspettative di vita degli italiani.
Soltanto dopo il 2003-2004 le aziende italiane iniziarono a reagire.
Gli adeguamenti implicano fusioni e migliori economie di scala,
catene di fornitura più ampie e meno costose e un migliore
finanziamento attraverso la deregulation delle banche italiane,
e persino lo spostamento della produzione in Asia. In questi sforzi,
lItalia ha tratto beneficio dalleuro, che ha ridotto
gli interessi pagati sul debito pubblico e privato. Solo negli ultimi
dodici mesi questi adeguamenti hanno cominciato a dare buoni risultati.
Nel 2006 lexport italiano è aumentato dell11
per cento. E se non fosse stato per lenorme importazione dellItalia
di petrolio e gas a caro prezzo, il suo saldo commerciale forse
sarebbe tornato positivo. Come hanno precisato i responsabili delleconomia,
nella prima metà di questo decennio ha avuto luogo una profonda
ristrutturazione del settore manifatturiero, e lattuale ripresa
ne è il primo segnale.
Simultaneamente, però, tutti hanno riconosciuto la necessità
di portare avanti le riforme: non lanno prossimo, ma subito.
Questo è il punto di vista del Fondo monetario internazionale.
Altri Paesi europei si stanno adeguando. La Cina sta diventando
più forte, lIndia sta decollando ora, e i mercati mondiali
continuano la loro globalizzazione. Gli elevati costi energetici
non muteranno, e la Cina sarà un centro manifatturiero a
basso costo per i decenni a venire. È decisamente più
facile per un osservatore come me far notare problemi anziché
formulare soluzioni. Mentre la politica italiana rende difficile
la liberalizzazione, molti italiani sono frustrati dalle tasse elevate,
da una debole istruzione superiore e da uneccessiva regolamentazione
governativa. Ecco da dove dovrebbero iniziare le riforme.
LItalia deve crescere in produttività, in capitale
di rischio e in ricerca. Deve avere più ingegneri e programmatori
di pc, e mercati finanziari più efficienti. Deve ritardare
letà della pensione, soprattutto per gli impiegati
della pubblica amministrazione, deve aumentare le ore lavorative
e deve collaborare con i sindacati per incrementare la flessibilità.
In via preliminare, deve chiarire proprio ai sindacati i costi della
non-flessibilità, e far pressione sui lavoratori perché
si assumano la responsabilità della crescita. Deve esercitare
pressioni perché venga migliorata listruzione superiore,
forse seguendo lesempio americano, con maggiore privatizzazione,
più concorrenza tra facoltà, e reindirizzando i finanziamenti
governativi verso ingegneria, biotecnologia, scienze e management.
In sintesi, cercherei di trattare lItalia come unazienda
che deve essere concorrenziale. Deve competere contro altri Paesi
top, come il Giappone, gli Stati Uniti, la Germania. E deve competere
contro produttori di massa a basso costo, come la Cina per le merci
e lIndia per i servizi. Dunque, pensiamo allItalia come
ad una SpA. Ma facciamolo adesso. Perché, se non adesso,
quando?
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