Un esercito
composto in gran parte di generali. Generali con
stipendi alti, amici influenti e la virtù dellobbedienza.
Ma i soldi
dove sono andati
a finire?
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Una banca anomala, in cui i soldi si prendevano e non sempre venivano
restituiti: lo ha sostenuto il nuovo amministratore delegato di
Sviluppo Italia, Domenico Arcuri, secondo il quale bisognerebbe
«restituire il maltolto ai contribuenti», perché
di tutto si è occupata lAgenzia pubblica del Tesoro,
almeno fino alla scorsa primavera, tranne che dei compiti per i
quali era stata creata, vale a dire per lo sviluppo, per gli investimenti,
per la programmazione.
Tutto quello che Arcuri sa lo ha imparato alla Luiss di Roma, dove
è stato dapprima studente e in seguito docente, fino a quando
ha scalato le posizioni di vertice della Arthur Andersen e poi della
Deloitte. Per poi si deve intendere allindomani
della scandalosa cantonata che la Andersen prese certificando i
bilanci di Parmalat, di Cirio e della Giacomelli: unautentica
truffa con dramma per i risparmiatori, con il conseguente crollo
di credibilità della stessa società di consulenza,
che toccò proprio a lui fronteggiare, chiamato in fretta
e furia al vertice per una missione che definì «memorabile
turnaround». In quella circostanza linversione a 180
gradi gli riuscì. Da allora, lo accompagna la fama di professionista
per le imprese impossibili, compresa quella di porre rimedio ai
disastri di unholding pubblica che nacque per attirare investimenti
dallestero e per far germogliare nuove aziende, ma che in
soli cinque anni si è trasformata in un mostro con 17 società
regionali, 15 controllate (che a loro volta hanno 25 subcontrollate)
e 124 società partecipate.
Dentro le scatole societarie agiscono 339 uomini che avrebbero dovuto
gestirle (168 consiglieri di amministrazione, 93 sindaci e 78 membri
degli organismi di vigilanza, cui si aggiungono 153 consiglieri
nominati da Sviluppo Italia nelle società partecipate). In
totale, fanno 492 componenti, i quali hanno intascato sei milioni
di euro ogni anno di soli compensi. Per fare che cosa? Sostiene
Arcuri: «Per generare disordine e per disperdere valore. E
potrei elencare decine di casi, a dimostrazione di quel che dico.
Un dato su tutti: quando sono arrivato, il gruppo aveva 1.800 dipendenti,
di cui il 63 per cento dedicato ai servizi di staff e il 37 per
cento alle attività di line, cioè a produrre ricavi.
Di più: la catena di comando è quantomeno bizzarra:
un dirigente governa due quadri e tutti gestiscono cinque impiegati.
E mi fermo qui, per carità di patria...».
Un esercito composto in gran parte di generali. Generali con stipendi
alti, amici influenti e la virtù dellobbedienza. Ma
i soldi dove sono andati a finire? Il nuovo d.g. dà un indizio:
«Su 230 milioni di ricavi 2006, il 55 per cento (circa 130
milioni) sono stati affidati allesterno. E non sempre erano
soldi legati a progetti. Curioso per una società di 1.800
persone! Ma ora abbiamo voltato pagina. La domanda che attualmente
ci si deve porre però è unaltra: mentre accadeva
tutto questo, doverano la politica, il sindacato, i mass media?
Esclusa qualche rara eccezione, nessuno ha tentato di capire che
cosa accadesse in una società che faceva acqua da tutte le
parti, con i soldi dei contribuenti».
Ora si vuol fare sul serio, si è deciso che anche lItalia,
come tutti i Paesi del mondo civile, debba e possa avere unagenzia
pubblica al servizio dello sviluppo, che serva ad attrarre investimenti
esteri, a sviluppare i territori, a creare imprese. Una struttura
leggera, che sia anche il più possibile virtuosa.

Si riuscirà a disboscare le società regionali («tranne
Calabria e Campania, nelle quali le resistenze allazzeramento
sono fortissime», mette le mani avanti Arcuri), a dimezzare
gli organici (da circa 1.800 a 750), a ridisegnare larchitettura
societaria facendo leva su tre società (impresa, territorio,
investimenti esteri), ad impedire che i politici facciano pressioni
per la riconferma di 500 tra consulenti e contrattisti a tempo che
erano finanziati da Sviluppo Italia? Tra la liquidazione totale
della holding e la vecchia elefantiasi, sembra esserci una terza
via da seguire: quella di rimettere insieme i pezzi di questa macchina
disastrata, che ha saputo soltanto perdere ogni appuntamento con
la Storia.
«Il governo Zapatero, nel prologo del suo piano sul turismo,
con scadenza 2020 proprio così: 2020! scrive
testualmente: dobbiamo usare come benchmark lItalia perché,
nonostante le potenzialità infinite, ha fatto di tutto per
non valorizzarle». Messaggio chiaro: il turismo è la
grande occasione mancata di Sviluppo Italia.
Storia fin troppo semplice da raccontare: alla nascita della holding,
furono raggruppate tutte le controllate della vecchia Insud, uno
dei carrozzoni dellintervento straordinario nel Mezzogiorno.
Dentro cera di tutto: dalla proprietà di villaggi dati
in gestione a terzi, alle quote di partecipazione in Valtur. Qualche
anno dopo venne costituita una società, Italia turismo,
alla quale vennero conferiti tutti questi asset. Allo stesso tempo,
il capitale venne aperto a una cordata di imprenditori privati che
si stabilì entro una certa data avrebbero dovuto
acquisirne la maggioranza, (con il superpremio finale di 132 milioni
a fondo perduto). Ma quello del turismo è un asset fondamentale
dello sviluppo economico del nostro Paese: perché, allora,
lo Stato deve rinunciare a giocare un ruolo di primo piano? Perché
non si può prima costruire un progetto e poi condividerne
la realizzazione con i privati? Così si decide di non cedere
Italia turismo. Convocata la cordata di imprenditori,
si comunica che allo Stato non interessano quote di partecipazione
di minoranza. Perciò si può cominciare a collaborare
partendo da questa premessa. Interessa? Sembra proprio di sì.
Ma intanto i nuovi vertici della holding pubblica stanno lavorando
al censimento delle strutture alberghiere in carico e, nello stesso
tempo, ai nuovi progetti di sviluppo. Ogni tanto si scopre che cè
un albergo in più: ultimo caso saltato fuori, a Pantelleria.
Ma ci sono anche segnali molto positivi: limpegno era stato
subito apprezzato da Giscard dEstaing, presidente del Club
Med, che annunciò di voler investire 70 milioni di euro nel
turismo italiano, mentre un buon numero di imprenditori italiani
chiedeva di poter comprare qualcosa. Solo che, se lo Stato ha intenzione
di vendere una società, non può farlo brevi manu:
deve bandire una gara, coinvolgere un advisor, stabilire tempi,
modalità e soprattutto il prezzo. È esattamente quello
che si farà, se si deciderà di uscire da questo importante
business.
Altro punto dolente, quello dei porti turistici. È noto che
la Francia ha cinque volte le Marine italiane; che la Croazia è
un modello di efficienza e di capillarità che con limpianto
societario messo a punto dallItalia eguaglieremo esattamente
tra un secolo. Lidea è stata quella di costituire una
società ad hoc, Italia Navigando, ma chi rappresentava
il Tesoro volle affidare a un privato il 12,5 per cento delle azioni,
compreso il ruolo di amministratore delegato. Risultato: per cercare
imprenditori disposti a investire in Italia, non si è pensato
a Paesi come il Qatar o gli Emirati Arabi; si sono spesi 30 milioni
di euro per viaggi negli Stati Uniti, in Canada e in tutti i Paesi
europei. Decine e decine di delegazioni hanno fatto la spola fra
aeroporti e grandi alberghi di mezzo mondo, senza che ci sia stato
alcun investimento diretto nel nostro Paese. Un vero affare per
le casse dello Stato! E unaltra occasione perduta per lo sfruttamento
della miniera senza fondo che potrebbe diventare il turismo nel
Paese che ha il 70 per cento delle opere darte realizzate
dalluomo!
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