Proliferano anche per questo gli
Ultimi, gli esuli volontari della
fame, gli espulsi
da aree che
potrebbero essere trasformate in
pingui giardini.
Si moltiplicano i poveri e i dannati.
|
|
La legge che anticipa la disponibilità della cittadinanza
italiana per gli immigrati era da tempo materia di accese controversie
fra giudizi o pregiudizi favorevoli e contrari. La normativa, nei
suoi termini essenziali, prevede la riduzione da dieci a cinque
anni di residenza regolarizzata per chiedere il passaporto, come
accade in Gran Bretagna o in Francia: gli aspiranti devono dimostrare
unadeguata conoscenza della lingua italiana, e devono prestare
un giuramento, mentre ai loro figli la cittadinanza spetterà
per nascita sul nostro territorio.
È pensabile che sentirsi cittadini, con doveri
oltre che con diritti, possa prevenire la formazione di turbolenti
ghetti etnici e favorire lintegrazione sociale. Fra le obiezioni
avanzate senza pregiudizio contrario alla legge, il quotidiano dei
vescovi, Avvenire, si è chiesto se «un
passaporto fa lintegrazione»; Galli della Loggia ha
domandato come ottenere che venga accettata in pieno, insieme con
la cittadinanza, anche la nostra Costituzione, dai valori ai princìpi,
fino a un ripudio esplicito delle precedenti regole
di convivenza; la sinistra radicale ha osservato che il concetto
di ripudio contraddice la Costituzione sul tema della
libertà religiosa. Eppure non di questo si tratta, ma soltanto
di costumi o di regole del vivere sociale incompatibili con i nostri
princìpi e con le nostre norme costituzionali.
Intanto, le cronache dallEuropa continuano a segnalare che
dopo gli episodi terroristici e i torbidi sociali in varie aree
europee, affiora una crescente cautela rispetto alle speranze riposte
nellintegrazionismo. Non per niente Magdi Allam ha ricordato
che a Londra gli attentati «sono stati opera di terroristi
suicidi con cittadinanza britannica», e che il 40 per cento
dei musulmani con la stessa cittadinanza, malgrado quello status,
continua a reclamare lintroduzione e lapplicazione letterale
della sharia, vale a dire della legge islamica.
Nel nostro Paese ora si discute a volte sullargomento persino
secondo calcoli di proselitismo elettorale. Come potrebbero votare
i neo-cittadini, quando avranno ottenuto anche i diritti elettorali?
Giovanni Sartori ha pronosticato che «faranno voto di scambio:
si daranno al miglior offerente». I musulmani che prenderanno
la cittadinanza «prima vorranno listruzione separata,
poi le moschee».
Sui temi centrali della controversia, numerose voci avvertono che
la cittadinanza più facile comporta un parallelo e più
efficace controllo dellimmigrazione clandestina, se realmente
è praticabile, insieme con la necessità di rinunciare
alle frequenti sanatorie, che hanno comunque operato come richiami
o inviti. Ma quanto spazio è ancora disponibile, nella società
e nelleconomia, per altri flussi della manodopera di stampo
migratorio? Allinizio di giugno, a Prato, (20 mila immigrati,
pari a oltre il 10 per cento della popolazione della città
toscana), il sindaco avvertiva in una lettera a un quotidiano: «Non
siamo in grado di assorbire ancora eventuali regolarizzazioni».
E forse nessuno sa, perché non se ne discute in alcun luogo,
che gli africani, e questi soltanto, sono ormai 852 milioni.
Pochi argomenti riescono a scavare, dentro di noi, un solco altrettanto
profondo, e altrettanto pochi vengono rielaborati in modo altrettanto
estremo, come limmigrazione. Comè accaduto negli
ultimi tempi, con i provvedimenti governativi che hanno ribaltato
le norme varate dal governo precedente, con gli scontri fra immigrati
in un quartiere degradato di Padova e con la decisione di crearvi
un muro, dalle operazioni dei servizi britannici che
hanno arrestato oltre venti musulmani accusandoli di terrorismo:
islamici, ma di nazionalità britannica. Oltre che con larresto
di altri islamici, con la retata in Italia in ambienti anchessi
islamici.
Fatti molto diversi, ma che racchiudono come ha scritto di
recente Ilvo Diamanti una sorta di bipolarismo ideologico
che tende a far convergere tutto: immigrazione, terrorismo, Islam,
ordine pubblico... Il mondo e la verità sembrano essere divisi
in due: il rigore da una parte, la solidarietà dallaltra
(a sinistra, con il concorso del mondo cattolico); la sicurezza
di qua, lintegrazione di là; la distanza e lautodifesa
a destra, il multiculturalismo a sinistra. Mentre è divenuto
evidente, negli ultimi anni, che neppure il multiculturalismo garantisce
lintegrazione.

Si pensi al Regno Unito dove, dopo gli ultimi arresti, in seguito
al sanguinoso attentato di oltre un anno fa, ci si interroga proprio
sul modello multiculturale, sul quale gli inglesi continuano
a investire con molta convinzione e con impegno forse maggiore di
prima. E oggi fanno fatica a capire. Perché sono coinvolti
giovani cresciuti in un contesto aperto, tollerante (parola che
Diamanti trova «orrenda», essendo «etnocentrica»),
democratico, multiculturale appunto che riconosce
legittimità e garantisce rappresentanza alle differenti etnie
e religioni? Perché questi giovani scelgono di aderire a
visioni integraliste e fanatiche, fino al punto di combattere con
violenza contro il loro stesso Paese, aprendo un conflitto irriducibile
fra identità religiosa e cittadinanza?
In ogni caso, anche altre ricette, considerate più o meno
miracolose, una volta sperimentate più a fondo sembrano in
difficoltà. Si pensi alla Francia, la terra che più
di ogni altra nega il modello multiculturale, in nome della centralità
e della laicità dello Stato, dove tutti sono francesi se
accettano le norme e i valori della Repubblica. E si pensi a Parigi,
dove la rivolta delle banlieues ha messo in luce come
le comunità etniche, negate per diritto, si sono formate
e riprodotte di fatto sul territorio, e dove, nonostante lattenzione
allintegrazione e alla socializzazione delle periferie, e
nonostante il diritto di voto e di cittadinanza concesso a tutti,
la protesta è esplosa con violenza inaudita, per settimane,
senza specifici ed evidenti motivi, se non lincapacità
del modello francese di integrare.
Il fatto è che non ci sono soluzioni sicure e durature per
affrontare le grandi migrazioni dei nostri tempi. E lideologia
che oppone le ragioni della sicurezza a quelle dellaccoglienza,
il rigore alla solidarietà, non serve. Il multiculturalismo
che permea il linguaggio e le azioni di una parte politica rischia
di giustificare e di accentuare le divisioni della nostra società,
invece di ridurle, e di moltiplicare i conflitti fra gruppi, invece
di superarli, senza che la teoria del securitismo approdi
a sponde diverse.
Con questa amara constatazione: data limpossibilità
di controllare tutte le coste e i confini; data linadeguatezza
delle quote degli ingressi stabilite rispetto alle richieste del
mercato del lavoro; data limpossibilità di frenare
le masse crescenti di persone in fuga dalla fame, dalla miseria,
dalle malattie e dalla guerra; dato tutto questo, gli stranieri
hanno continuato e continuano ad arrivare in misura massiccia nel
nostro Paese, e a restarvi, in massima parte da lavoratori irregolari,
riserva abbondante per il lavoro nero, richiesto da alcuni settori
del sistema produttivo; oppure da clandestini, bacino magmatico
cui attingono le attività criminali, diffuse sul territorio.
In questo modo, alla durezza ideologica si è sommata la bassa
capacità di controllare realmente il fenomeno.
Per integrare, occorre disporre di uno specifico modello di cittadinanza
che preveda diritti ma anche norme da osservare, un modello in base
al quale realizzare politiche sociali, formative e urbane, perché
se consentiamo che nelle città e nelle metropoli, nei medesimi
punti, confluiscano e si concentrino grandi flussi di stranieri,
spesso clandestini o irregolari, per lo più di identica provenienza,
possiamo dichiararci certo multiculturali o securitari, ma ci scontreremo
comunque con le stesse difficoltà incontrate nel ghetto padovano.
Solo che da noi questo modello non cè. Le politiche
urbane, più delle amministrazioni, le improntano gli immobiliaristi.
Quelle del lavoro, facendo di necessità virtù, le
praticano gli imprenditori. Mentre quelle educative sono, da anni,
al centro di riforme e apparenti rivoluzioni, che in realtà
procedono per prove e per errori, un taglio qui e un rammendo più
in là, umiliando gli insegnanti, e deprimendo la scuola pubblica
senza qualificare quella privata.
In conclusione, e in sintesi: le polemiche portate avanti da opposte
sponde rivelano le nostre ataviche debolezze, la fragilità
della nostra identità nazionale (tricolori al vento soltanto
in occasione di partite di calcio, e solo se vinciamo!), la fragilità
delle nostre istituzioni, la fragilità della nostra politica;
e la nostra incapacità di progettare e di definire un modello.
È confermata, specularmente, la nostra vocazione allarte
di arrangiarci, perché «di fronte alle regole, al civismo,
allo Stato, troppo spesso noi anche noi ci sentiamo
stranieri. E immigrati. Clandestini».
Le difficoltà della cultura tradizionale degli italiani
ad aggiustare le lenti con le quali guardano alla società
contemporanea determinano una specie di effetto boomerang: il modo
in cui essa cerca di tutelare soggetti de-privilegiati rischia di
essere controproducente proprio dal punto di vista di un impegno
efficace per ridurre le disuguaglianze e per rafforzare la coesione
sociale.
Prendiamo il caso dei lavavetri. Ladeguatezza dellordinanza
fiorentina sotto il profilo giuridico può essere forse anche
discutibile, ma le critiche si sono soffermate soprattutto sulle
finalità del provvedimento. Lo stesso presidente della Camera
ha voluto sottolineare che sarebbe stato meglio partire dal racket,
piuttosto che da coloro che stazionano nelle vicinanze dei semafori
di tutta Italia. E il ministro della Solidarietà sociale
ha parlato di «ingiustizia». Così anche esponenti
del mondo cattolico, i quali hanno ribadito che le misure più
efficaci sono quelle volte allintegrazione; concetto ribadito
da don Vittorio Nozza, presidente della Caritas, il quale ha messo
in guardia dallaffidarsi solo ad azioni di legalità.

Insomma, per un vasto fronte culturale le condizioni di forte disagio
dei lavavetri immigrati (o degli ambulanti abusivi che spesso e
volentieri vendono merci contraffatte, occupando anche aree di alto
valore artistico o religioso) devono giustificare il fatto che le
istituzioni chiudano gli occhi. Viene in questo modo legittimata
una sorta di relativismo legale, in nome del quale chi compie unazione
finisce per contare più della legalità dellazione
stessa.
Dalla parte opposta, per giustificare lintervento, si è
insistito sul ruolo del racket nellorganizzare il lavoro dei
lavavetri (e degli ambulanti). Ma questa giustificazione è
debole, perché lascia intendere che, se non ci fosse il racket,
il fenomeno si potrebbe tollerare. Il punto essenziale è
invece che il relativismo legale mina la fiducia dei cittadini nelle
istituzioni e accresce la percezione dellinsicurezza. Eccoci
dunque alleffetto boomerang: la tolleranza verso determinati
comportamenti non soltanto i lavavetri violenti, i venditori
abusivi, i tossicodipendenti, gli spacciatori per strada, i nomadi,
ma anche la prostituzione, le risse tra bande di ubriachi, le occupazioni
abusive di locali accresce il senso del degrado urbano e
linsicurezza. Siamo tra i Paesi in cui la paura di essere
oggetto di unazione criminosa è già ai livelli
più alti (riguarda oltre il 30 per cento della popolazione,
il doppio dei Paesi scandinavi; ma è molto cresciuta nelle
regioni del Nord e del Centro, dove raggiunge spesso picchi ben
più alti).
La conseguenza è duplice. Intanto, linsicurezza porta
chi può permetterselo a lasciare le zone più colpite.
Chi resta spesso si tratta dei più anziani
si rinchiude e si isola sempre di più. Si rompono così
le reti sociali che esercitano un controllo sui comportamenti devianti.
Alla fine, linsediamento della criminalità è
favorito e tende a crescere. Si voleva più solidarietà,
si ottiene più criminalità.
Ma cè una seconda conseguenza. La crescita dellinsicurezza
aumenta la diffidenza nei confronti degli immigrati in generale,
fino ad alimentare fenomeni di vero e proprio razzismo. Le ricerche
mostrano che reazioni di paura sono particolarmente diffuse fra
gli strati sociali medio-bassi, bacino di consenso tradizionale
del progressismo italiano. È evidente che questo rende sempre
più difficili azioni volte ad accrescere lintegrazione
sociale degli immigrati e la coesione. Esattamente lopposto
dellobiettivo sbandierato da chi antepone la solidarietà
alla legalità, dimenticando di chiedere rigore nei confronti
della cosiddetta microcriminalità: è appena il caso
di ricordare agli smemorati, pronti quantaltri mai alle dotte
citazioni, che Beccaria sosteneva che essa andava perseguita allo
stesso modo della maggiore delinquenza. Non fare rispettare la legalità
di fatto mina la possibilità di una solidarietà e
di unintegrazione efficaci.
Si potrebbero fare altri esempi di effetti boomerang legati a una
cultura obsoleta: non soltanto la tolleranza verso limmigrazione
irregolare, ma anche in tema di lavoro lidentificazione
di flessibilità e precariato, o lidea dellorario
ridotto e della tassazione degli straordinari come strumenti per
accrescere loccupazione, o la strenua difesa di pensionati
cinquantenni...
Che coshanno in comune questi esempi? Lidea di matrice
ottocentesca che la difesa di soggetti sociali disagiati debba prevalere
rispetto al funzionamento imparziale e impersonale delle istituzioni,
o rispetto a considerazioni più generali sulle conseguenze
di determinate azioni per linteresse collettivo. In fondo,
è lidea, presente nellambito delle sub-culture
marxiane e catto-marxiane che hanno segnato la storia del Paese,
che la difesa immediata dei più deboli degli Ultimi,
secondo il linguaggio cattolico, ora ripreso anche dal Presidente
della Camera sia automaticamente generatrice anche di vantaggi
collettivi, indipendentemente dalle forme che assume. E pertanto
la politica deve continuare a prevalere sulle istituzioni.
Nella società contemporanea questa visione ideologica
che in fondo diffida delle argomentazioni empiricamente fondate
rischia di creare sempre più effetti perversi e di
essere controproducente rispetto agli obiettivi stessi di riduzione
delle disuguaglianze che si vorrebbero perseguire. Non è
laccettazione del dispotismo della realtà
a rendere difficile la strada di una parte della politica italiana,
ma il dispotismo dellideologia con cui una parte di essa si
ostina a leggere la realtà.
Chi persino nel nome del cattolicesimo, soprattutto quello
che va dai secoli bui alle soglie liberatorie
dellIlluminismo sostiene che laccanimento sugli
Ultimi e sui poveri ha qualcosa di sospetto, nel senso che è
un velo che copre ben altre indecenze e più inquietanti e
scandalose latitanze dello Stato, evidentemente è legato
a dottrine che levoluzione storica planetaria ha messo in
liquidazione, per la prima volta senza spargimenti di sangue, senza
contro-rivoluzioni armate e, in ultima analisi, senza possibilità
di ritorni. Citare il passato, piegandolo alle proprie sconsolate
nostalgie, non fosse altro che per una sorta di chiamata di complicità
etiche e politiche da dispiegare nellazione governativa attuale,
è sicuramente gioco strumentale al limite del disprezzo della
ragion critica altrui. Così è nel richiamo della questione
della povertà e del nomadismo nella storia dEuropa,
vale a dire la storia di come nacque la questione sociale e di come
la carità medievale avrebbe finito col degradare, producendo
nello stesso tempo la secolarizzata assistenza pubblica ma anche
la grande esclusione e la pratica di punire-bandire i poveri senza
lavoro: i poveri «un tempo santificati e poi criminalizzati»,
che in alcune disposizioni medievali venivano chiamati inutili
al mondo e che nel Seicento inglese vennero soprannominati
deserving poors, cioè poveri che lo meritano.
Ed eccolo, il colpo basso: «Anche questa degenerazione è
parte delle radici dEuropa, e specialmente delle sue radici
cristiane», narrate per esempio dallo storico Bronislaw Geremek,
ex dissidente e poi ministro degli Esteri polacco, oltre che da
studiosi della questione sociale, come Robert Castel.
Seguiamo il filo quintessenziale del discorso portato avanti dagli
appassionati sostenitori delle visioni doppie nella realtà
trascorsa. Essi affermano: è tra la fine del Medioevo e linizio
del Rinascimento che il povero senza lavoro diventa figura equivoca,
impaurente. Lo si vuole assistere e al tempo stesso allontanare,
recludere. Lesclusione degli Ultimi (soprannumerari, Inutili
al Mondo) conosce il punto massimo nel momento in cui la civiltà
sembra più raffinarsi: nel Rinascimento, quando si cominciano
a sognare utopie di società e città ideali. I massacri
di San Bartolomeo, che uccisero duemila protestanti a Parigi e diecimila
in Francia, hanno sullo sfondo lutopia cinquecentesca di una
società perfetta, armoniosa, fondata sullamore e sulla
fede indivisa.
E questo sarebbe stato non tanto uno stereotipo in ogni caso
tipico dellanticattolicesimo di ogni tempo quanto addirittura
litinerario dellEuropa, «il suo sprofondare e
il suo risollevarsi»: lillusione di poter allontanare
dagli occhi il povero, bandendolo. Perché sarebbe stato proprio
così, bandendo gli Ultimi, che nellOttocento e nel
Novecento è nata ma necessariamente sotto il segno
della violenza rivoluzionaria la Questione Sociale. Allora:
lesclusione degli ultimi non nasce oggi, risale al Medioevo,
e diventa persino organizzazione carceraria per via di grandi crisi,
come quella determinata dalla peste ai primi del Cinquecento: più
che mai in quelloccasione nasce la figura del povero, simultaneamente
assistito e colpevole, comunque senza tetto, o, come si diceva allepoca,
«dimorante dappertutto».
E quali scopi avrebbe avuto lemarginazione-reclusione? Molti.
Uno religioso, in particolare a partire dalla Controriforma: è
una guerra santa contro i pericoli del tempo che erano il vagabondaggio
e la mendicità, considerati «disordine dei poveri».
Gli ospizi del Cinque-Seicento (Pitié Salpêtrière,
Bicêtre, Compagnia del Santissimo Sacramento nella capitale
francese) intendono fare ordine. Ha uno scopo politico incoraggiato
dalla Chiesa: il povero è classe pericolosa, va segregato
o, nella migliore delle ipotesi, raddrizzato. E ha scopi igienici.
Quando gli attuali fautori della mano dura usano la parola decoro,
riecheggiano i miti neoplatonici dellarmonia perfetta, che
resuscitano inconsapevolmente. Decoro non è soltanto ordine,
ha una sua connotazione estetica, coniuga il bello a vedersi e il
bello morale, laspetto e il comportamento.
Ma solo questo fa parte delle radici cristiane dellEuropa?
E le lotte del Cristianesimo perché gli Ultimi non fossero
trattati come criminali e la povertà non apparisse delittuosa,
tanto per far capo a qualche Libro che risale a un paio di migliaia
di anni fa, e che non si chiama Capitale né Saggio
sui costumi e lo spirito delle nazioni, ma Vangelo,
o che non è stato scritto da uno storico intriso di partigianeria
luterana o atea o politeista? E la resistenza nata dentro lo stesso
universo cattolico, già nel 500, con Filippo Neri che
difendeva gli zingari persino in opposizione a Pio V, (papa Ghisleri,
che avrebbe voluto bandirli da Roma non in quanto zingari, ma in
quanto empi); e con Vincenzo de Paoli, che si ribellò
agli ospizi-prigioni; così come dentro luniverso secolarizzato,
con le sommosse di artigiani e di operai, e nell800 con lidea
socialista? E le reti di dormitori, spedali, rifugi, conventi che
accoglievano tutti, ma soprattutto i poveri, non soltanto lungo
le vie che portavano ai pellegrinaggi a Roma o a Gerusalemme, o
a Monte SantAngelo, ma anche al Monte Tauro, ad Oropa, al
Sacro Monte di Varallo, persino a Santa Maria di Leuca, che apertamente
contraddicevano il filone escludente e razzista insito nella stessa
ideologia illuminista (proprio Voltaire insegni)? Chi può
negare che la religione sia stata protagonista, in tutto questo,
nel bene assai più che nel male? Ma ammetterlo, per certi
comunicatori ingaggiati, evidentemente significa concedere nervose
ammissioni.

E vuol dire, prima dogni altra cosa, negare che i poveri
non li ha creati la religione, perché per la maggior parte
li hanno messi al mondo la politica e la politica economica, la
storia complessa dello sfruttamento delluomo sulluomo,
il feudalesimo di classi dominanti con privilegi persino eslege
giunti fin quasi alle soglie del secolo breve, il tragico
XX secolo, nato con una guerra di sterminio e tramontato con il
crollo dellultimo arcaico impero.
Il nostro Paese è al centro di un mare assediato da centinaia
di milioni di poveri, governati, in non pochi casi, da cieche teocrazie
o da ciniche organizzazioni familistiche che hanno in pugno le più
cospicue risorse energetiche del pianeta, e che pertanto non hanno
alcun interesse a far scalare di un solo gradino sociale le popolazioni
che dominano, tenendole in bilico fra indigenza e nazionalismo,
fra ignoranza e fanatismo.
È facilmente immaginabile, dunque, che nei prossimi anni,
e forse anche nei prossimi decenni, nuove e crescenti ondate di
diseredati percorreranno le rotte del Mediterraneo, dirette a Nord,
in parte verso la Grecia e la Spagna, in più gran parte verso
lItalia, fermandosi o irradiandosi in una fase successiva
verso i Paesi dellEuropa comunitaria. È persino ovvio
riconoscere che ci si troverà al cospetto di un fenomeno
di amplissima portata, di migrazioni epocali, con mutazioni storiche
difficili da governare. Ma non per questo si potrà eludere
il problema, trincerandosi dietro buonismi di maniera, oppure rifugiandosi
nei sogni di utopie egualitarie.
È bene prendere chiaramente coscienza del fatto che intolleranza
e paura sono un binomio micidiale che è in grado di creare
cortocircuiti che vanno invece prevenuti. Ciò significa che
le istituzioni tutte le istituzioni non possono latitare
di fronte al rischio che i cittadini siano spinti a coltivare in
buona fede o per disperazione la micidiale illusione che la soluzione
sia quella draconiana di purificare questa
sfera da tutti i corpi estranei: perché a questo
punto è facile stabilire dove si comincia, ma impossibile
capire dove si andrà a finire.
(Teocrati e capitribù familisti, possessori di quantità
inimmaginabili di petrodollari, al modo dei nostri ipocriti predicatori
dellideologia anti-occidentale, sanno benissimo che fino a
tutto il XV secolo si moriva in massa per epidemie o per carestie.
Dopo la scoperta dellodiatissima America, che ha dato allumanità
trentasei tipi diversi e tutti evoluti di patate, il mais, i fagioli,
il pomodoro e quantaltro, si moriva sempre meno per carestie,
grazie alla coltivazione su scala crescente di questi prodotti nei
campi del resto del mondo. Dunque: ci sono immensi territori che
non sono sfruttati per le produzioni agricole, soprattutto in Africa
e nel Vicino e Medio Oriente, dove si lascia avanzare il deserto,
perché la ricchezza per pochi è sottoterra,
ed è una ricchezza che garantisce sempre per quei
pochi dominio e potenza. Proliferano anche per questo, o
soprattutto per questo, gli Ultimi, gli esuli volontari della fame,
gli espulsi da aree che potrebbero essere trasformate in pingui
giardini. Si moltiplicano a velocità esponenziale i poveri
e i dannati, perché ben altre forze, politiche, economiche,
e religiose, ma che più nulla hanno a che fare con il Cristianesimo,
manovrano le chiavi della depressione sociale, del controllo dei
mezzi di produzione, (compreso un latente luddismo), dei poteri
indistinti, della giustizia sommaria nel nome di leggi che non sono
state sfiorate dalla Ragione, e via dicendo).
Nascono da tutto questo, e da altro ancora, diffidenza, paura, richiesta
di pugno duro, limitazioni drastiche a presenze extracomunitarie.
Non è lo Stato burocratico e oppressivo quello che invocano
gli abitanti del Nord Italia, ma quello che sa manifestare con chiarezza
il vantaggio tra i costi e i benefici della sua presenza. E non
è quello clientelare, formato dallintreccio tra assistenzialismo
e mafiosità, quello che reclamano le nuove generazioni del
Sud Italia. Presenza dello Stato vuol dire dimostrazione che gli
appartiene il monopolio della forza e dellautorevolezza per
le garanzie di democrazia, di libertà, di sicurezza per tutti
i cittadini, tanto nelle strade delle città settentrionali,
quanto nel tessuto economico e sociale delle città meridionali.
Senza che questo significhi pretesto per dilaganti occupazioni del
potere pubblico in tutti i settori della nostra vita civile. Perché
il Paese sbanda quando lo Stato è assente, ma soffoca quando
è eccessivamente presente.
|