Dicembre 2007

Il Musicista, il genio, la febbre malsana

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Il caso Wagner
Sergio Bello  
 
 

 

 

 

 

 

Quell’entusiasmo reciproco nasceva dal fatto che i due uomini si erano
riconosciuti come artisti tedeschi, anzi, come artisti della “nuova
Germania”.

 

C’è il sospetto che la musica di Wagner sia pericolosa, faccia nascere pessimi pensieri, sia peccaminosa, procuri una febbre maligna. In un suo film Woody Allen lanciò una delle sue folgoranti battute: – Quando ascolto il preludio dei Maestri cantori di Norimberga sento l’impulso di invadere la Polonia –. Anche a chi non viva in uno stato d’animo guerrafondaio, l’ascolto di quel potentissimo pezzo orchestrale ispira senza dubbio una sana carica di energia.
Thomas Mann insiste spesso su un versante opposto: due suoi personaggi, il piccolo Hanno nei Buddenbrook e Gabriele Klöterjahn in Tristan, muoiono uccisi dall’estasi prodotta dalla musica wagneriana, filtrata nel loro sangue come malattia. Nell’uno e nell’altro caso, Wagner agisce come un veleno.

Esiste dunque davvero un legame tra l’arte wagneriana e il tossico del nazionalismo? È indubbio che le considerazioni di Wagner sull’inferiorità della razza ebraica, espresse nel saggio Il giudaismo nella musica, siano imperdonabili. Ma si dovrebbe chiamare in causa l’intero plurisecolare antisemitismo diffuso in tutta l’Europa, non solo in Germania. In sé, la musica wagneriana, che si colloca sempre a un livello alto, non ha alcuna attinenza con quei rancorosi sentimenti situati a un livello così basso. Se il nazismo volle farla sua e riempirla dei propri significati, la colpa è dei nazisti. Detto questo, è innegabile che l’arte wagneriana sia quel che si dice un caso. Il “caso Wagner” non è soltanto una formula di circostanza usata per definire qualcosa di insolito. In questa accezione, il termine “caso” si accosta volentieri al nome di molti artisti, soprattutto musicisti. C’è il compositore di musiche profondissime e sublimi che commette un omicidio feroce (il caso Ciajkovskij), che si mutila dinanzi alla memoria dei posteri distruggendo quasi tutta la propria opera (il caso Duparc), che muore insieme con tutti i propri manoscritti poiché dalla sua casa spara da solo contro le truppe nemiche in avanzata ed è polverizzato da una cannonata (il caso Magnard).
In genere, l’eccezionalità che giustifica la parola “caso” è costituita da un’anomalia legata alle circostanze coeve, e soltanto in quell’epoca tale da essere avvertita come qualcosa di anomalo. Nessuno, attualmente, definirebbe “musica teatrale” le Cantate di Bach, come fece qualche critico musicale lipsiense intorno al 1740; nessuno, ascoltanto il Quartetto n. 2 di Schönberg, salterebbe indignato sulla sedia per via di «un do che non dovrebbe esserci secondo le regole dell’armonia», come fece nei primi anni del Novecento il critico Ludwig Karpath.

Per Wagner è obbligatorio fare un discorso diverso. Egli rappresentò un caso culturale rispetto alla cultura d’Occidente nell’epoca in cui visse e che dominò con la propria esondante presenza, ma continua ad essere un caso, anzi il caso per eccellenza nella storia delle arti, ancora oggi. L’anomalia che egli rappresentò e tuttora rappresenta va molto al di là della rivoluzione da lui introdotta nel linguaggio musicale, nell’armonia e nell’orchestrazione, nell’uso dei motivi conduttori e nel rapporto tra melos e tessuto armonico: percorsi importantissimi, ma non sufficienti a capire l’assoluta novità del “Musikdrama” wagneriano, concepito come opera d’arte totale e somma di arti diverse; insufficienti, soprattutto, a farci capire in pieno la grandezza del pensiero estetico e, in senso lato, filosofico di Wagner.

Le questioni aperte da questo musicista, e oggi più che mai scottanti, anzi arroventate, non sono emergenze culturali di illustre risonanza storica coinvolgenti l’Europa del tardo secolo XIX (epoca peraltro decisiva, matrice di tutte le nostre inquietudini) e riguardanti Eduard Hanslick o Friedrich Nietzsche o Giuseppe Verdi, più o meno ostili a Wagner per motivi diversi. Quelle questioni ci riguardano da vicino.
Il vero caso Wagner è la somma di problemi permanenti che nell’opera wagneriana hanno avuto il loro nodo cruciale: la posizione eternamente problematica dell’artista nella società, l’autentico rapporto della musica con l’universo, la relazione tra arte e politica, la scoperta che la musica è onnipotente e può permettersi di scavalcare ogni regola tradizionale, a costo tuttavia di un’espansione che è anche autodistruzione.
Quest’ultimo è anche il problema che nel ‘900 ha più angustiato i musicisti: l’alternativa terribile tra la conservazione del linguaggio tradizionale, il cui prezzo da pagare è il nobile ma sterile epigonismo, e l’innovazione senza limiti, il cui prezzo può essere l’alienazione dal pubblico, la babele dei linguaggi musicali, la dissoluzione delle forme e quindi della riconoscibilità da parte di chi ascolta, ossia la solitudine dell’artista.
Certo, anche quel che Nietzsche definì allora, in un breve scritto, “il caso Wagner”, ha un significato che ci investe direttamente. Nietzsche incontrò direttamente Wagner per la prima volta nel novembre 1868 a Lipsia, dopo che per anni, sin dall’adolescenza, era andato in estasi al pianoforte suonando il preludio di “Tristan und Isolde”. Il fatto che anche Nietzsche conoscesse la musica in maniera eccellente e fosse un buon compositore dilettante non fece che aggravare, più tardi, la crisi insorta nei rapporti tra i due uomini di genio.
L’uno e l’altro si ammirarono di primo acchito. Si entusiasmarono a vicenda. Duole dirlo (non perché si tratti di posizioni oscene e censurabili, ma perché era un tema culturale alquanto effimero, galleggiante sulla superficie della storia d’Occidente), in gran parte quell’entusiasmo reciproco nasceva dal fatto che i due uomini si erano riconosciuti come artisti tedeschi, anzi, come artisti della “nuova Germania”.

Oggi può apparire strano che Nietzsche, più tardi ammiratore della mediterraneità, (Carmen di Bizet da lui contrapposta al “Ring des Nibelungen”) e sarcastico canzonatore della cultura universitaria germanica, abbia partecipato con convinzione alla guerra franco-prussiana del 1870, durante la quale, per inciso, si ammalò probabilmente della sifilide che lo avrebbe condotto nel gennaio 1889 all’esplosione della follia.
Nel 1876, quando venne inaugurato il Festsplelhaus di Bayreuth ed ebbe luogo il primo festival, Wagner volle che fosse Nietzsche a scrivere e a pronunciare il discorso inaugurale, “Richard Wagner a Bayreuth”. Eppure, già allora Nietzsche apparve meno convinto, già critico, già a disagio, anche se pochi anni prima aveva immaginato la nuova Germania retta da un ideale triumvirato di uomini sommi, il politico (Bismarck), l’artista (Wagner) e il filosofo (lui medesimo).

Il dissidio tra Wagner e Nietzsche ebbe il suo punto di irreversibile caduta nell’avversione prodotta nel più giovane dei due dal libretto di “Parsifal”, opera scandalosamente “cristiana” agli occhi dell’anticristiano Nietzsche. Non avrebbe dovuto forse Wagner, nel quale la lettura di Schopenhauer aveva prodotto un benefico trauma, una benemerita lezione di anticristianesimo, continuare ad essere nemico della “redenzione”, così come aveva fatto splendidamente nel finale del “Ring des Nibelungen”? La trasmutazione di tutti i valori, sommo progetto dell’ultimo Nietzsche, non doveva implicare l’abbandono della morale cristiana, fondata – secondo il filosofo – sull’illibertà del pensiero? Nietzsche aveva incontrato per l’ultima volta Wagner a Sorrento, nel 1876. Poi, deluso, abbandonò gradualmente l’amicizia con lui, e con i virulenti scritti del 1888, Il caso Wagner e Crepuscolo degli idoli, (ironica e allusiva inversione del titolo Il crepuscolo degli dèi), annientò persino nella propria anima, appunto, l’idolo di un tempo. Da pochi anni Wagner era morto. A Venezia, nel 1883.

 

   
   
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