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Probabilmente
si può anche scrivere un poema, si può anche costruire
un romanzo, senza crederci. Si possono mettere insieme montagne
di parole, tessere, trame, dipanare intrecci, creare dal nulla situazioni
e personaggi, con un po di arte, un po di artigianato,
ma senza implicarsi, senza tenerci, rimanendo distaccato dal testo,
estraneo allo sviluppo degli avvenimenti.
Ma senza crederci non si può tradurre neppure una riga. Perché
tradurre è un gesto di altruismo, un mettere se stesso, e
la propria lingua, al servizio di un autore e di un lettore; spesso
significa rinunciare alle proprie idee, alla propria visione del
mondo per entrare nelle forme di pensiero, nelle modalità
di comunicazione di un altro che ha scritto in unaltra lingua,
un altro tempo, un altro luogo. Significa rifiutare il proprio stile
per aderire quanto più è possibile allo stile di un
altro; penetrare sintassi, lessico, strutture altre,
pensare con laltrui pensiero, provare i sentimenti di un altro.
La traduzione pretende un atto di umiltà assoluta. Sempre,
quali che siano lautore, il testo, il genere, il tempo, la
lingua. Ma soprattutto quando un autore è un classico, uno
di quei monumenti al tempo e alla poesia che hanno retto ai venti
di tutte le ideologie, alle contestazioni degli studenti di ogni
epoca, ai modelli e alle mode che ciclicamente condizionano e improntano
le storie letterarie.
Per anni per molti anni Rocco De Vitis si è
confrontato con un classico poderoso; con uno di quei libri che
non sentono in alcun modo il peso dei secoli; con un poema che è
uno specchio di destini individuali e collettivi, di furor
e di pietas, di ragione granitica e di rapinoso delirio.
Per Rocco De Vitis, lEneide è stato un libro damore
e di studio, di riflessione e di passione, di analisi e di rigorosa
interpretazione. Tradurre questo poema è stata una maniera
per entrare nel mondo che raccontava e comprenderlo attraverso la
grande arte e lineludibile artificio della poesia. Al traduttore
non bastava conoscere il senso delle parole e la sapienza con la
quale le parole venivano organizzate in struttura, ritmo, combinazione
quasi alchemica di lessico e di forma; voleva altro: sperava di
riuscire a portare nellaltra lingua anche le pulsazioni del
verso, le sensazioni profonde, irripetibili, che suscitava la lingua
originaria, le emozioni che gli davano le storie e i sogni dei personaggi.

Così per anni per molti anni ha cresciuto
quel suo poema. Con un lavoro paziente, meticoloso, attento, teso
a scoprire i segreti del verso, le sue insidie, a scandagliarne
i moventi e gli intenti. Un lavoro appassionato, soprattutto, umile
perché consapevole del fatto di dover fare i conti con la
magia del linguaggio virgiliano, con un modello culturale e linguistico
secolare.
La traduzione punta sullessenzialità della parola,
sul suo potere di rendere unatmosfera, di scendere al fondo
di una situazione, della storia e di una condizione esistenziale
per coglierne il momento e lelemento caratterizzante.
Rocco De Vitis ha cercato di mantenere intatta (per quanto una traduzione
possa permetterlo) la sensibilità e la potenzialità
semantica del linguaggio di Virgilio, sperimentando tutte le strade
per non cadere nella trappola della sonorità vuota, della
cristallizzazione forse appariscente ma fredda e sterile. Attraverso
luso calibrato del lessico e limpostazione del periodo,
De Vitis traduce fedelmente anche le figure dei personaggi, la loro
umanità proiettata in una pluralità di dimensioni.
Enea, prigioniero della morale, del retaggio ideale della sua gente,
del Fato che ha tracciato per lui strade che vanno in una direzione
opposta a quella che le occasioni dellesistere sembrano indicargli;
Didone, martoriata da una passione che si ingigantisce fino a diventare
elemento di dissoluzione, smania ossessiva, si proiettano dalla
pagina allimmaginario con tutta la loro carica poetica e umana.
Che nel suo lavoro di traduzione Rocco De Vitis si sia lasciato
prendere e coinvolgere dal poema e dal mito è assolutamente
evidente. Ma era inevitabile, forse, se si considera questa traduzione,
dopo quella delle Georgiche, lesito naturale di una ricerca
intensa e appassionata, orientata in particolar modo a scoprire
e riscoprire quegli elementi che fanno dellEneide un altare
alla poesia.
Ho conosciuto Rocco De Vitis intorno alla metà degli anni
Ottanta; diceva Virgilio a memoria e lo traduceva simultaneamente.
Me lo ha fatto conoscere Maria Bondanese, che prima ne ha curato
il lavoro e ora ne cura la memoria individuale e culturale.
Ora, per questa Rivista, ne ha tracciato un profilo che non lascia
agli altri molte altre cose da dire. Perché ha sapientemente
combinato biografia, bibliografia, ricordi, documentazione, storia,
affetti. Con discrezione. Con stile. Con passione.
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