Marzo 2008

Ricorrenze
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1808. E a Milano
nacque la Borsa
M.B. - D.M.B.
 
 

La Sala è
animatissima
di operatori che gridano, si
sbracciano,
prendono appunti, e fanno strani gesti, alcuni dei quali non molto
appropriati per compassati uomini d’affari.

 

Difficile, se non proprio impossibile, dire quali siano state le sue vere origini. Probabilmente il nome fu suggerito da un sacchetto, o proprio da una borsa, che faceva bella mostra di sé nell’insegna di una casa di Bruges, nella quale erano soliti riunirsi i mercanti del luogo. Mistero anche sulle origini delle contrattazioni collettive dei titoli. Di sicuro c’è che già nella metà del XIII secolo agiva a Venezia un mercato regolato del debito pubblico. Un secolo dopo, verso la metà del 1300, mercati analoghi erano operativi a Pisa, a Verona, a Genova e a Firenze. Nel 1602 la Compagnia Olandese delle Indie Occidentali concentrò ad Amsterdam la contrattazione pubblica dei propri titoli, creando con ogni probabilità la prima Borsa valori moderna. Mercanti londinesi si riunirono con una certa regolarità sin dal 1688 nella Taverna di Jonathan per contrattare azioni e obbligazioni. Il decreto reale che autorizzava la Borsa di Parigi è datato 1724.
Le Borse moderne nacquero all’alba del XIX secolo. Nel 1801 vennero riorganizzati tanto il London Stock Exchange quanto la Bourse de Paris. Il primo mantenne, nella tradizione anglosassone, la forma di libera associazione di “brokers”; la seconda, invece, divenne ente pubblico. Nel 1808, la Borsa di Francoforte, che aveva operato per più di 220 anni come istituto privato, fu posta sotto l’egida pubblica della Camera di Commercio.
Fu, pertanto, in una fase europea di ristrutturazione e di riorganizzazione di antichi mercati mobiliari che un decreto napoleonico del 16 gennaio 1808 istituì una Borsa anche a Milano.
Le contrattazioni ebbero inizio il 15 febbraio di quello stesso anno, in alcuni spazi messi a disposizione dal locale Monte di Pietà. Non si trattava, però, della sola Borsa attiva nella Penisola, e neanche della principale. Genova aveva mantenuto a lungo, nel declino economico dell’Italia, il rango di piazza finanziaria europea. All’inizio dell’Ottocento la città della Lanterna manteneva il primato nel frammentato panorama della finanza italiana. Tra le nove Borse peninsulari, quelle di Trieste e di Napoli (create rispettivamente nel 1775 e nel 1778) erano le più antiche, e lo stesso Napoleone istituì la Borsa di Venezia (nel 1806) prima di quella milanese.

Per tutta la prima parte del secolo XIX, il numero e la quantità dei titoli trattati furono piuttosto limitati. Nel 1832 le negoziazioni si limitavano a quattro titoli del debito pubblico, saliti a sette dieci anni dopo. Soltanto nel 1858 fecero capolino nel listino le prime azioni, quelle della Società delle Strade Ferrate del Lombardo-Veneto.
Subito dopo l’Unità d’Italia, il mercato mobiliare nazionale venne vivificato dalla creazione del Gran Libro del Debito Pubblico, che consolidava i debiti dei singoli Stati esistenti in precedenza. Per tutta la seconda parte dell’Ottocento, la Rendita 5 per cento fece la parte del leone tra i titoli trattati nelle Borse italiane, anche se una quota importante di essa migrava alla Borsa di Parigi. Tra le azioni, primeggiavano quelle ferroviarie e bancarie.

L’unificazione del mercato finanziario italiano si realizzò soltanto nei primi anni Ottanta: la piazza di Milano non ottenne un primato se non ad inizio secolo. Per lunghi anni gli agenti di Borsa delle singole città cercarono di proteggere il proprio monopolio, giungendo fino a resistere all’apertura, nel luogo delle contrattazioni, di stazioni telegrafiche che avrebbero favorito gli arbitraggi e, dunque, l’emergere delle piazze più efficienti. Solo con il Codice di Commercio del 1882 si frantumò il monopolio dei mediatori locali e si realizzarono di conseguenza le condizioni di una poco costosa possibilità di scelta per tutti gli italiani della piazza sulla quale operare.
Il primato di Milano si concretizzò con l’arrivo a listino delle imprese manifatturiere nell’espansione economica dell’epoca giolittiana. La concentrazione dell’attività industriale nel Nord-Ovest del Paese rendeva naturale il quotarsi a Milano per la maggior parte delle imprese che a mano a mano raggiungevano la dimensione sufficiente. Le 23 azioni che si contavano nel listino milanese del 1895 erano salite a 160 nel 1913.
La piazza di Genova restò importante per i titoli bancari e finanziari, ma, proprio per questa ragione, ricevette un colpo più duro di Milano dalla crisi del 1907. Nel 1913 fu finalmente approvata una legge la cui discussione era iniziata immediatamente dopo l’approvazione del Codice di Commercio. Con essa, il sistema delle contrattazioni assunse il carattere pubblico della Borsa. Nel 1925 gli stessi agenti di Borsa divennero pubblici ufficiali.
La crisi del 1925 e quella del 1929-31, i salvataggi bancari, l’espansione del capitalismo finanziario di Stato e dei cosiddetti Istituti Beneduce ridussero sia il numero dei titoli a listino sia l’importanza della Borsa valori per l’allocazione delle risorse finanziarie.

La storia del secondo dopoguerra è più nota. A una forte crescita delle quotazioni fece seguito, a partire dal 1962, un clima di sfiducia nei titoli azionari che proseguì senza soluzione di continuità fino a tutti gli anni Settanta. La Borsa si resse soprattutto sulla contrattazione dei titoli del debito pubblico in rapido aumento. Negli anni Ottanta la comparsa dei fondi di investimento di diritto italiano, la ripresa della crescita economica e alcune innovazioni, quale la custodia centralizzata dei valori immobiliari, diedero nuovo impulso alla Borsa di Milano. Nel 1985 comparve a Piazza Affari il primo tabellone elettronico. Tra il 1992 e il 1994 la contrattazione gridata fu sostituita da una piattaforma elettronica con telematizzazione degli scambi e con dematerializzazione dei titoli.
Tra le privatizzazioni di fine secolo-millennio ci fu anche quella del mercato azionario, con la creazione di Borsa Italiana SpA. Si chiuse la lunga fase storica, iniziata con l’Imperatore corso, che vide le Borse valori dell’Europa continentale distinguersi da quelle del mondo anglosassone, caratterizzandosi come espressione della volontà dei pubblici poteri di garantire le regole del gioco capitalista attraverso enti di propria diretta emanazione.
In un sito (“historytour.it”) che celebra il bicentenario della nostra Borsa si vede un signore che, seduto su una panca della Sala delle Grida di Palazzo Mezzanotte, sede della Borsa milanese, legge tranquillamente un giornale. E all’attrice che gli chiede se sia un investitore, risponde che, avendo la pensione minima, è lì soltanto per assistere, e gratis, ad una sorta di spettacolo teatrale.

In effetti, la Sala è animatissima di operatori che gridano, si sbracciano, prendono appunti, e soprattutto fanno strani gesti, alcuni dei quali non molto appropriati per compassati uomini d’affari. Ma apprendiamo, sempre dal sito, che questi movimenti delle mani hanno significati precisi e rigorosamente riferiti a temi economici.
Ad esempio, il signore che con l’indice e il pollice si afferra la lingua, sta semplicemente acquistando un pacchetto di Eridania, mentre un altro, che muove le mani a coppa, rivolte verso il petto, allontanandole vistosamente dal corpo (come a indicare una taglia di seno molto abbondante, chiarisce ancora il sito) altro non fa che vendere azioni Pirelli.

Questo accadeva fino a qualche tempo fa. Oggi il signore che leggeva il giornale godendosi lo spettacolo degli “esagitati” della Sala delle Grida sarebbe costretto a cambiare programma: per vedere uno spettacolo teatrale, dovrebbe andare proprio a teatro. La Sala è silenziosa, da quando è stata trasformata nella meno divertente Piazza Affari Congress and Training Centre.
Oggi l’economia parla attraverso schermi senza voci, che hanno sostituito grida e gesti con numeri di cristalli liquidi e con grafici variamente colorati, rendendo certamente l’informazione migliore, più accurata, e disponibile a tutti. Un giorno le grida erano – appunto – l’unico modo di trasmettere le notizie nei tempi ristretti in cui si decideva di comperare e di vendere pacchetti azionari. E la Sala delle Grida era un mondo ristretto, piccolo, forse accessibile a pochi che, se non addetti ai lavori, avevano davvero del tempo da perdere. Siamo passati dalle urla degli operatori al silenzio degli schermi, per rendere l’informazione universale, per consentire agli investitori di conoscere in tempo reale l’andamento dei titoli e decidere in conseguenza. Segno dei tempi che reclamano una propria identità, la tecnologia avanza, e non c’è nostalgia che tenga.

 

   
   
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