Al Sud manca
il supporto di una classe dirigente che sappia
investire sulla sua gran voglia di fare.
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Quando sento dire da un qualunque politico che il Sud «sarà
il motore dello sviluppo» mi coglie d’istinto un moto
di rabbia feroce. Di tutte le demagogie da incalliti magliari, questa
è forse la più offensiva, dal momento che la situazione
di molta parte del Sud resta tragica, e lo dico con amore e disperazione.
Perché il Sud possa diventare motore del Paese si devono
realizzare condizioni che nessun progetto politico o economico realmente
prevede, e alle quali nessuno sta lavorando. Dunque, piantiamola
una volta per tutte di far ricorso all’ipocrisia delle false
dichiarazioni d’intenti, che hanno dato sostanza alla storia
dell’arretratezza meridionale da mezzo secolo a questa parte.
Certamente, sul piano dell’antropologia umana, alcuni primati
il Sud ce li aveva già, e quello che a me sembra più
rilevante, oltre alla bellezza della natura e alla grandezza della
letteratura, aveva a che fare con il tessuto delle relazioni. Al
Sud si doveva faticare per sentirsi soli. Gli scambi formali erano
limitati al minimo, l’aplomb “britannico” era sommerso
da una propensione a volte persino afosa al dialogo e alla confidenza
unilaterale, i contatti tra le persone erano quasi sempre occasione
per dirsi e darsi qualcosa di autentico. La voce, la vita dell’altro
sapevano toccarti nel profondo.
Saranno anche segreti romanticismi di chi è stato costretto
ad assumere la maschera dell’impassibilità, girando
il mondo per lavoro: ma chi è “sudista” ed è
stato a lungo lontano dalla sua terra, dalla sua lingua tagliata,
dalle sue antiche atmosfere, ha una nostalgia struggente di quel
che ha lasciato, anche perché è consapevole che altrove
tutto è diverso, distaccato, a volte algido.

Napoli era città emblematica della socializzazione. Ma non
occorre andare tanto lontano: Lecce era città dell’affabulazione,
del parlar forbito, del “deinde philosophare” contrapposto
al barese “primum vivere”. A volte ci si doveva nascondere
per godere di un poco di non-socialità, di privatezza. E
non è trascorso molto tempo, da allora. Napoli non è
più la stessa. Roma non è più la stessa: bellissima,
splendente come sempre, ma l’aria non è quella di prima,
tenera, sensuale, “stuzzicarella” nemmeno se illuminata
da un “friccico de luna”. Lecce non è la stessa:
colta, raffinata, come sempre luminosa sotto un cielo che sbalordì
uno spirito smagato come Piovene, ma ormai sulla china di comportamenti
“scandinavi”, un po’ frigidi, non sobri ma quasi
spigolosi, e a volte glaciali.
Altro che Sud motore del Paese. Si sono invertiti un processo evolutivo,
una tradizione, e sta emergendo il dato nuovo della solitudine,
della malattia che ci allontana gli uni dagli altri, irrimediabilmente
riducendoci, alla fine, a tristi monadi solitarie.
Sì, motore del Paese! Ma ci facciano il piacere! Dopo anni
di rincorsa, l’industria del Sud ha ancora il fiato corto:
se da una parte continua a soffrire il gap di sviluppo e di capitali
nei confronti delle grandi imprese del Nord, dall’altra non
riesce neppure a “monetizzare” la sua situazione di svantaggio,
come si verifica in aree simili, per offrire costi competitivi e
attrarre così maggiori investimenti. E tutto questo non lo
dice l’astrologo, ma la Svimez, che puntualmente continua ad
analizzare la situazione del Mezzogiorno.
Risulta dunque che nel 2006 il prodotto interno lordo delle regioni
meridionali è cresciuto a ritmi inferiori rispetto a quelli
del Centro-Nord (1,5 contro 1,9 per cento), confermando una tendenza
che dura ormai dal 2004. Anche gli investimenti dall’estero
e l’export restano lontani dai valori medi dell’Italia.
Sul fronte del lavoro, poi, non ci sono dubbi che i senza impiego
siano al minimo storico del 15 per cento, ma è anche vero
che gli ultimi dati Istat indicano una diminuzione anche degli occupati.
Tradotto in soldini, tutto questo vuol dire che forse nell’ultimo
anno si è creato davvero qualche nuovo posto di lavoro, ma
che sicuramente è cresciuto di più il numero di coloro
i quali hanno affidato i propri destini al lavoro nero o all’emigrazione
verso il Nord. Che non a caso nel 2005-2006 è tornata quasi
ai livelli drammatici degli anni Cinquanta e Sessanta. Fenomeno,
anche questo, dovuto ai nodi gordiani che soffocano il settore industriale
nel Sud: «Su questo fronte, in realtà, qualche segnale
di ripresa si vede, ma andrebbero superati alcuni vincoli strutturali
che ancora impediscono all’economia del Sud di reagire positivamente
alle sfide della competitività internazionale».
Gli elementi critici sono quelli di sempre: criminalità,
infrastrutture insufficienti (al Sud finisce solo il 31,3 per cento
degli investimenti, e i cantieri sono i più lenti d’Europa),
burocrazia nazionale indegna di un Paese moderno, amministrazioni
locali farraginose, microimprese sottocapitalizzate, scarsi investimenti
in ricerca e tecnologia. Proprio su questi ultimi due aspetti insiste
Svimez, per sottolineare come la politica industriale degli ultimi
anni, volta a favorire l’aggregazione di piccole imprese e
la creazione di un tessuto di realtà innovative e dinamiche
da far crescere all’ombra dei rarissimi colossi presenti nell’area
(Fiat, Stm, Ilva, Erg), sia sostanzialmente fallita. E la situazione
non sembra certo destinata a migliorare nei prossimi anni, visto
che il Piano di rilancio Industria 2015, presentato un anno fa dal
ministro per lo Sviluppo Economico, dedica al Sud un’attenzione
del tutto insufficiente.
Risultato? Un divario sempre più marcato non soltanto rispetto
al Nord, ma anche nei confronti dei Paesi emergenti: in concreto,
non c’è impresa italiana che, tra Calabria e Slovenia,
scelga la prima per i suoi impianti. E non si incoraggia l’avvio
del motore promesso dai predicatori del tempo perduto senza adottare
per il Mezzogiorno una fiscalità di vantaggio, ad esempio,
come hanno fatto con successo in passato altre aree economicamente
depresse, come l’Irlanda, il Galles, il Midi francese e le
sacche povere della Grecia e dell’Iberia.

Declina l’estate con un dolcissimo settembre, e uno che abbia
un po’ di curiosità delle cose del mondo e che non intende
parlare o scrivere senza cognizione di causa va a saggiare il polso
del Sud alla barese Fiera del Levante, quella che ci apre gli occhi,
presentandoci il Mezzogiorno che ci piace: non quello dei fatti
di cronaca e delle vicende criminose (che sono perfettamente uguali
a quelle del Nord), e neanche quello – splendido – che
amiamo di più, della cultura, dell’arte, dei paesaggi
da brivido. Ma il Sud che ha voglia di fare e di intraprendere,
di “vendere” se stesso sui mercati, di crescere e di prosperare.
In realtà, proprio questo Sud è la parte del Paese
che la politica ha penalizzato, danneggiandolo sempre più,
negli ultimi tempi: con i presidenti di Regione in caduta libera,
col flop dei “governatori” turisti non per caso, e con
gran codazzi al seguito, in nome di nebbiosi progetti di relazioni
economiche con grandi Paesi, con gli sperperi e con operazioni non
sempre limpide sulle quali indaga – a volte ostacolata –
la magistratura, e via elencando. Vien da pensare al summit alla
reggia di Caserta, a conclusione del quale si sono promessi un bel
po’ di quattrini all’Italia mediterranea. Si manterrà
la parola? E se pure si manterrà, servirà a qualcosa?
Suspicione legittima. Perché al Sud manca il supporto di
una classe dirigente che sappia investire sulla sua gran voglia
di fare. Ed è il Sud il primo a pagare per l’assenza
di due politiche cruciali per la crescita: la riduzione (veloce,
e soprattutto autentica) delle imposte e la flessibilità,
anche in uscita, del mercato del lavoro.
Piaccia o no, se si vuole avviare quel dannato motore le tasse al
Sud vanno tagliate, non solo perché è giusto, ma perché
si deve tener conto di chi sono i “competitori” del Meridione
nell’era della globalizzazione. I Paesi balcanici si stanno
riempiendo di grandi strutture turistiche internazionali. Quei luoghi
sono più suggestivi della Sicilia, di certe fasce costiere
e interne della Calabria o della Basilicata? Per nulla, ma esibiscono
due tratti ai quali i grandi investitori internazionali non possono
restare indifferenti. Primo: il rischio-Paese è inferiore;
e qui conta senza dubbio la grande incompiuta della politica italiana,
cioè la lotta alla criminalità organizzata; ma conta
anche l’incertezza normativa che avvolge ogni ambito della
vita italiana. Semplificare è necessario per attrarre investimenti
esteri. Una multinazionale non può permettersi di mettere
in campo risorse in una realtà nella quale i suoi manager
non sono in grado di sapere con ragionevole certezza che ciò
che è illegale oggi lo sarà anche domani, e viceversa.
Ma, in seconda battuta, i Paesi balcanici hanno anche imposte molto
contenute. Il Montenegro ha una flat tax del 9 per cento. Dalla
Slovacchia in giù, hanno praticamente abolito l’imposta
sul capital gain: e noi “armonizziamo”, sì, la
tassazione sulle rendite finanziarie, ma spostandola verso l’alto!
Simultaneamente, proprio al Sud, dove la disoccupazione è
di gran lunga più alta che al Nord, servirebbe un mercato
del lavoro autenticamente flessibile. Si aggiunga il fatto che il
capitale umano di qualità tende purtroppo ad emigrare. Senza
flessibilità in uscita, l’incentivo delle imprese a
“sposare” per la vita nuovi lavoratori è davvero
modesto. Immaginiamo di essere una multinazionale dell’intrattenimento:
andremmo a dislocare un nostro albergo in una zona magari bellissima,
ma dove c’è grande incertezza sui diritti di proprietà,
dove sono necessari mesi per ottenere un’autorizzazione, dove
i cartelli del crimine, ma anche singole famiglie mafiose, reclamano
– minacciose – il pizzo, dove le tasse sono alte, e dove,
nel caso che le cose vadano male, o magari non ci sia sintonia tra
datore di lavoro e impiegato (“fannulloni” inclusi), è
praticamente impossibile licenziare?
Non è che ci siano molti masochisti, fra gli amministratori
delegati delle multinazionali. Il Sud ha tutto per vincere le sue
sfide. Ha angoli di liberismo e di paradiso che possono e debbono
essere mostrati al mondo. Ma servono le istituzioni giuste. Due
scrittori (l’economista italiano, ma che opera negli Stati
Uniti, Alesina, e il giornalista specialista Gavazzi) hanno detto
che si tratta di un’appropriazione indebita, perché
il liberalismo non sta né a destra né a manca. Allora
facciamo noi un’altra provocazione: il liberismo o è
“terrone” o non sarà.
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