Marzo 2008

Geopoesia
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L’Italia in versi
Ada Provenzano - Giorgio Franciosa - Elisa Minerva
 
 

 

 

 

 

 

Japigia
o Messapia
o Salento, sempre “terra tra due mari” vuol dire,
ed è il più terso specchio
dell’antica Madre.

 

Fenomeno forse unico, ciascuna regione, ma potremmo dire ciascuna provincia italiana, ha una propria poesia dialettale. Che nella terra pugliese si articola in un gran numero di linguaggi locali. Perciò non è disdicevole parlare di “Puglie”, anche perché al mosaico delle culture linguistiche vernacolari (compresa quella – eccentrica – della Grecìa Salentina, nel territorio del Capo) si somma quello delle identità architettoniche e urbanistiche, con il Romanico innervato nelle terre del Centro-Nord che tramonta alle soglie dell’universo dei trulli, e svanisce ai confini messapici, dove trionfa il Barocco. Pertanto, tornando alla poesia, dobbiamo tralasciare nomi di prestigio (da Pierri a De Donno, a Savelli, e oltre che ai contemporanei, ai classici) che meritano un discorso a parte.

Il senso di appartenenza a un pianeta “altro”, qual è il Sud, non è mai assente. Scrive Martin Andrade, il quale in Salento fu esule: Dei loro avi / i poeti del Sud custodiscono / il sangue la parola il sudore. Prima di essere Puglia, dunque, questa terra è Sud. Ricorda Vittorio Pagano: …Qui la pietra scolpita si riposa / su fisse onde calcaree – e senza vele, / in se stessa incagliata, altro non osa / che tramutarsi in un astro crudele… // A noi si dona, artefici assolati, / una malia di calme architetture, / dove l’uomo è il pretesto d’un poeta: // la morte a un Sud eterno ci ha votati…
Latitudine, però, infelice. Non soltanto per Vittorio Bodini: Sulle pianure del Sud non passa un sogno… // Le pianure mirare a perdita d’occhio, / senza case, senz’alberi, senza una lettera: / livello di un’assenza a cui sole si sporgono / capre o spettri di capre morte da secoli, / che brucano le amare giade dell’insonnia, / l’acciaio senza luce d’antiche spade, / quando i popoli amari si scontravano / e di sangue tingevano i cieli della preistoria; ma per lo stesso Pagano: Miti del Sud, addio. L’occhio si sbarra / nelle spirali e vi s’accieca… // La Grecia, Roma, i tufi, la pianura / le scogliere del Capo, gli oliveti, / tutto si squarcia – e in alto ne perdura / l’onda, il disintegrarsi, in alto, ai vieti / culmini d’omertà che la paura / innalza agl’ippogrifi… // E saremo i Giasoni per il vello // di tenebra e di piombo, contro i mostri / che partoriamo. Immersi nel rovello / del nulla, graffieremo come rostri / la lapide del sogno… Il cuore è quello / che fu, geloso, avaro, ebbro dei nostri / vecchi tesori – e il canto della prèfica / è la sua cifra orribile e benefica.
La Puglia è un Sud che rinasce dalle sue ceneri, sembra volerci comunicare Elio Filippo Accrocca: Oh, mitica memoria che riemerge / dall’infuocato cielo, dalla terra / contrita, dal marino sepolcro, / umile foglia nell’incerta mano / del fanciullo che ignaro passo muove / tra scheletriti mostri, / è già ventura e grazia, intatta forma / alle favole nuove, a te che andrai / nel mare del tuo vivere a spiegate / vele, col radar nell’aperta mente. Perché se una visione idillica è concessa – una volta tanto – allo sguardo gentile di una poetessa di delicati sentimenti, qual è Lia Leda Leonardi, (Alta è la luna / sul dolmen. / Nell’aria di vetro / ora le pietre / silenti danzano…), ben presto una tensione panica s’impossessa delle anime innocenti, votandole ad oscuri riti sacrificali. Scrive Vincenzo Rella: Dio dei terroni, / che ieri / danzavano a tondo sull’aia / al suono / dell’organetto a bocca / intorno al boccale di vecchio vino, / ora sfangano / nei fradici scarponi / inzuppati di loto. // Lasciali, Dio, ancora sognare / quando fiocca la neve / liquori odorosi di mammole / intorno al focolare, / pietre roventi / sulle Murge spaccate dal sole.
Ogni tragedia è preludio ad un’altra tragedia. Rivoltami la sciarpa sopra il bavero: / tra poco fischierà il treno del Nord…, scrive Antonio Prete. E di rincalzo, Enzo Miglietta: Odore di terra lontana, / altri monti, altri piani, // altri volti. // Forse altre lotte. / E una pena maggiore / di vivere… È Rino Bizzarro, poeta e attore, a darci la misura della psicologia umana dell’emigrato, esule forzato della fame: …Oh Puglia, mio rimorso, tu lo sai, / perché mi sei nel sangue, / che quando il treno fischia, / nel cuore mi tormenta lo spavento / e paura di strade e volti ostili! / Tu conosci ai ritorni la mia gioia / che riempie di parole, / di canti e di preghiere saracene / la gola, gli occhi, il cuore disperato…
Solitudine di chi va, e di chi resta. Come racconta la disperata poesia di Alfonso Gatto dedicata alla “Sera di Puglia”: …Quella sera d’estate udii il pianto. // Era la madre sola / col bimbo d’afa inzuccherato d’ali / che le moriva in grembo, a tamburello / il setaccio di polvere lasciava / il suo crespo velato di sonagli. // Ora è vergogna dire che l’incanto / su tutti tenne la sua mano obliosa, / ma nessuno si mosse. Erano stanchi / di mentirsi pietà, erano dentro / il pianto che piangeva sui cavalli in piedi / ad ascoltarla li fa grandi e soli.
E “disperazione” è termine ricorrente nella poesia del Sud e della Puglia. Scrive Biagia Marniti: Terra di Puglia / che nel mio sangue bruci la cenere / la disperazione degli avi, / il cuore ti chiama amore sconosciuto. / A est a ovest nell’isola sul fiume / paesi e città io amo, ma sono del Sud. / Forse un giorno tornerò alla mia collina / tra ulivi e mandorli cinerini nel sole d’estate, / ai braccianti agli artigiani / fra l’odore del basilico e garofani rossi… Mentre Vittore Fiore dispiega così il suo canto: …Talvolta m’aspetto / di fuggire e da ogni parte l’olivo, / dolce infanzia, con me portare e la vite / in fondo a nuove valli / dove fiorisce la speranza. / Penso a un esilio in cieli alti / e l’erba intenerire fra le dune / ai ciechi sassi / nel silenzio delle campagne. / Terra di sale, di pecore nere, / soli e perduti piovono misteri / dentro di te che sempre fuggo ed amo… // Puglia, amara palude / del sangue, dai cieli vicini, / dalle selve, gonfi di sole, i pini / renosi: fioriscono le pietre / contro i fossi sotto la terra rossa, / le antiche tombe sotto gli oliveti. / Venite erbe, venite le vuote / strade a calcare, mentre / Altamura dalle Murge esce / incontro ai venti del mare aperti. Quelle voci nei campi assorte / e i tanti cieli, c’è Otranto / che brucia fra cielo e mare, / di primavera verso il tuo canale / sei guerre e chiese, / sei tu che gli antichi approdi continui / e per incantagione / solo e perduto piove l’amore…

Tra i poeti che hanno cantato il Gargano, la terra che, al di qua delle colline abitate dai Liburni, allarga gli orizzonti della civiltà dei Dauni, Umberto Fraccacreta è voce sincera, e dunque limpida, sebbene un poco antica. Scrive: …Sulla pendice estrema del Gargano / la masseria giaceva e l’abbagliava / la piana solatia del Tavoliere: / accoccolate sulla bassa costa / ammiccavan le case linde e bianche. / Come branco di capre l’oliveto / selvatico saliva alla montagna / brulla, mentre alle falde si snodava / attraverso boschetti d’elci e d’olmi / il Candelaro torpido e silente… // E mossero i pastori dell’Abruzzo / traendosi le pecore e gli agnelli / verso la Puglia pel tratturo antico / aperto, or è molt’anni, alla vicenda / degli armenti dai monti alla pianura, / dalla pianura al monte. Ed era come / un mondo che migrasse. Per le forre / d’Appennino il maltempo già premeva / alle lor spalle, quando dalla nebbia, / azzurra spada, emerse l’Adriatico… // Grande era l’opra e tempo d’affrettare: / la spiga d’oro già pendea matura. / Albeggiava e la stella mattutina / come un fanal rosso s’inarcava / sul Gargano. Pungeva quasi il fresco. / Subito mosser gli uomini in silenzio / al limite del campo, e là arrivati / ristettero un momento per pregare. / Roco un grido s’udì, e le prime falci / brillaron nel chiarore antelucano…

Universo rurale coronato dalla roccia dello sperone che emerge – nero – dal mare. Con le “vie d’erba” che portano in Campania, in Basilicata, ma soprattutto nella Piana pugliese che ebbe una storia nobilissima tra Castel del Monte e Lagopesole lucano, con Federico II, “Stupor Mundi”, e prima ancora con la civiltà italiota, e con la più grande città dell’antichità italica ancora sepolta, Arpi, dove gli archeologi possono scavare soltanto se sono presenti i carabinieri con le armi in pugno e il proiettile in canna, tale è la tracotanza dei mafiosi trafugatori di opere d’arte; oltre che con quel che è stato salvato della cultura troiano-italica da valorosi amanti delle tradizioni artistiche locali (e non solo locali) e raccolto nel museo di Siponto: anche se per dolente provocazione Guido Pensato scrive: Siponto non c’era, non c’è / è isola remota / gota sparuta / mota sperduta / memoria illusoria / di sogni furenti / di menti perdute / in un vago delirio / di vita smarrita / nel cavo grembo di tufo / nel lembo estremo da cui torniamo. Mentre una Biagia Marniti trasognata ci descrive l’alone di poesia che emerge da Lucera, che fu città in cui l’imperatore Federico II raccolse i saraceni che ebbero l’onore di formare la retroguardia del suo esercito: Riconosco la voce del vento / quella voce che a un tempo / immemore mi riporta. / Ritrovo l’antico cielo / e l’ombra dei pini. / Una strana atmosfera mi avvolge / poi la sensazione dilegua / e l’evento è forse la presenza / delle colonne che mi vengono incontro.

La salvezza è forse nel prolungamento del passato? Nell’afoso clima delle transumanze, che pure condizionarono la storia e l’economia di tanta parte dell’Italia del Sud? Scrive infatti Marcello Ariano: Parlami, voce buona dei tratturi, / prima che sul terrazzo / scendano falene / a coinvolgermi in cerchi e malombre… Oppure è nella forza centrifuga, cioè nell’uscita di sicurezza da una civiltà contadina ormai fuori tempo, dopo due rivoluzioni industriali? Così sembra sottendere Salvatore Ritrovato: Trasvolato uno stormo di pernici / lontano dai sonagli degli armenti / dal ronzio delle granaglie / spigoloso sui tratturi / come il frullo di un ricordo / da un altro mondo, lontano / nell’imbuto di doline / che rovinano nel mare, / in nicchie amare…; mentre rientra nelle pagine ingiallite della storia la “skyline” dei borghi antichi, assediati ormai dalle periferie anonime, figlie del benessere-malessere del dopoguerra. Registra Cristanziano Serricchio: …Il ceppo s’annida fra pietre / antiche, amiche, vive di tutti / gli anni insieme vissuti, calcificate / nella carne d’ognuno di noi, / di me, di te, dei nostri figli, / dal sole che ancora le sfalda. // Resteremo come le formiche / a correre lungo il muro / fra l’interrato nido / e il coppo lustro in cima. // Già da tempo le casupole hanno / embrici sconnessi e i sottani / in ombra giochi poveri di ragazzi / tra mura di cinta diroccate. / Dagli spalti sentinelle assolate / salutavano a fischio / robuste lavandaie, gambe e braccia / nude nell’acqua, e strizzavano / panni e voglie sugli scogli…
Bari del “primum vivere”, remoto dal barocco “philosophare”, e della concretezza, del pensiero veloce, del linguaggio secco e immediato. Bari che lavora e che stempera i sogni tra il lungomare crespato e il cielo rigato da chiassosi gabbiani. Bari locomotiva, fascio di muscoli, grido di mercante, afrore di fronti. Bari dei modernissimi registri di Daniele Giancane: Allora le notti volavano leggere / sui gradoni dei vicoli antichi / Michele ogni giorno / quattro volte alla fontana / la carriola partiva cigolando… / Michele fatica e sorride / la faccia sempre più pece / sotto il sole beffardo / ma lui sorride e scrolla le spalle… E Bari generatrice di poeti del disagio, perciò in fuga verso latitudini più meridionali, nelle terre del “philosophare”, appunto. Al modo di Vittore Fiore, nato sui mari del tonno. O al modo di Vittorio Bodini: Come un polpo sbattuto ancora vivo contro lo scoglio / si arricciolavano i miei pensieri / a Bari fra le barche verdi e gli inviti / favolosi dei venditori / di quella iridescente pena; ma io / non avevo che una moneta / d’impazienza e di notte, / una moneta nera dei paesi / dell’interno, che soffoca le case / fra orizzonti di corda su cui oscilla / la tarantola – un’altra pena…

La costa adriatica barese butterata dall’Adriatico, poi. Con gli incantevoli scorci polignanesi descritti da Luigi Fallacara: Qui s’alzano le grotte e, sulle grotte, / le case rosee e bianche, provvisorie / pareti d’una fragile presenza, / o solo appena, cubi d’esistenza. / E il mare si rigira nelle grotte / come un capo assonnato di respiri, / avvolto d’alghe, di sogni e di notte. / Qui non l’opera umana è ciò che dura, / non è la terra col suo solco oscuro, / ma un estremo del pianeta, un resto / di calcare lucente, arso e celeste. / Superficie scavata a conche, a lame, / di dove, rabbuffate nel pelame, / azzurre capre contemplano il vuoto. / Quando sorge la luna, il promontorio / ha le sue stesse lucentezze ed ombre. / Allora, uomini avvezzi a ogni disastro, / salgon dal mare ed entrano nell’astro. Oppure scolpiti nella poesia di Lino Angiuli: Qui / dentro il ventre della pietraviva / tutto quanto il marenostro si confina / con la magniloquente voglia / di ricreare ora per allora / il lungo palpito dell’annoluce / sul quale vedo galleggiare ancora / una manciata di millenni al timone. / Così come / l’azzurrognola bellezza della storia / le dolci cantilene, della calce / delle case che spariscono nel sole. / E quelli / i nostri benedetti santi marinari / di buon mattino vanno alle patate / poi scendono a spassarsela in paese / oppure acchiappano centotré aquiloni / di notte infine sognano salato / come sta scritto in tutte le bibbie / il primo mare non si scorda mai.
E sempre lui, Angiuli, ancora con le sue lettere spedite al mondo. Una da una città di confine, Savelletri, sotto il cono d’ombra delle Serre fasanesi: Lo zampino del sogno / ci fa cigolare le mezzelune in fiore / sotto il libeccio mangiaufo a tradimento / che ci sbuffa africa in faccia / quando l’occhio smarrisce i confini / del giorno acquerellandosi nel cielo / lì dove abitano un sacco di sud / fili chitarre chiesemadri e coppole. / Tuttiquanti / in cerca di fortuna come noi peraltro / che navighiamo tenendoci per mano / dentro la pancia d’una madrebarca / capace di guardare dentro gli occhi il mare / e di fargli figliare favole salmastre…
La regina di tutte le chiese romaniche pugliesi, con le “pitture di pietra”, cioè con le sculture che sostituiscono la pittura, grazie alla docilità del carparo. È in Ruvo di Puglia, descritta da Biagia Marniti: Hai la forza di un drago nel ricordo / Cattedrale, / dalle aperte ali come uccello, / sobrio rosone / con dodici piccole clavi, / portale con grifoni / seduti su agili colonne, / alla cui base leoni stilofori / i ragazzi scavalcano di corsa…
C’è una Puglia di mezzo. Non tanto in terra brindisina, che fu Salento nord-orientale, e che nelle balze occidentali saldò la Messapia verso Manduria dalle ciclopiche mura. Quanto nella falcatura tarantina, unica terra di marinai spartani, poi deduttori di una colonia, anch’essa unica, in Gallipoli. Comunque, di Brindisi, dove Virgilio finì di scrivere l’Eneide, dice Vittorio Bodini: …Alla fontana col secchio / i carrettieri / voltavano le spalle / a quell’ovale e quasi esule specchio / ove la sera calmava reti / ed un viola d’obblio, e annidati / in qualche parte dell’onde / i piccoli gabbiani / chiedevano la storia / di Moby Dick che muove solitario / sugli oceani assoluti. // E un palmizio era a guardia della fonte / che come un ladro io guardavo. / Ladro del tempo che ci ruba tanto. / Era qui che i crociati abbeveravano / i loro cavalli.

Ma è Taranto che ruba la scena. Con Raffaele Carrieri: Tace il gallo fra spugna e lancia / splende il sole nella bilancia. / Miei paesi di tante croci / senza fiumi senza foci / miei paesi di lune e gufi / col demonio dentro i tufi. / Sul calvario Gesù giace / come luce nella calce; o ancora: Immoto era il falco / sulla cima dell’olmo. / Batteva il tuo zoccolo / la fertile terra mia / senza ferire la cicala / che al mio canto s’univa / nella ressa degli arbusti… Con Giacinto Spagnoletti: Stasera vedrò ancora / una stria di celeste / unire il tuo pallore quieto / al cuore invisibile dei boschi. // In un’aria diversa / custodirò le tue ombre / così attente nell’ora più persa, / e il fluido dei marciapiedi / da cui s’innalzano voci d’amore / che una musica sempre frastorna… Con Alda Merini: Nelle prime sostanze, nelle prime / luci dell’alba quando viene il vero / peccaminoso senso dell’angoscia / quando il tempo perde terreno / ed arde per la delicatezza del fiore / quando germoglia il senso della vendetta / sulle propaggini buie / e tu ascolti il vituperio del vento / qui a Taranto fra i gelsi ed i fiori / allora scende il tempo del delitto / quello che mortifica la tua voglia d’amare / e che manda spirali sanguinose / sopra il tuo seno intatto / allora la foglia libera / vibrerà di intenso pudore / e la tua vena di pianto / sarà disseccata per sempre / ma adesso reggi le corte briglie del tempo / o poeta che scavi nella notte / la tua sostanza. Mentre Angiuli riporta alla memoria le antiche tragedie, innervate nel nome dei paesi – come Roccaforzata – che furono protagonisti e vittime: Una folla di onde vagabonde entra / esce nelle parentesi tonde dell’occhio / alzando la voce per farsi sentire / da una famiglia di cartari tarlati / velieri fantasma che vagano nel tempo / con un bel carico di aurore saracene / da una parte all’altra all’altra / vanno…

E c’è la Puglia estrema, ai confini della terra, che culmina non si sa se con una o un’altra Punta, la Meliso oppure la Rìstola: in ogni caso, luoghi di anime che tornano “col cappello in testa”. Japigia o Messapia o Salento, sempre “terra tra due mari” vuol dire, ed è il più assiduo e poliedrico Parnaso del Sud, il più terso specchio dell’antica Madre. Come sintetizza Bruno Epifani: ...Qui generò mercanti e tessitori / la magnagrecia / e nomi sapienti addussero / timide pulicarie, / pallide sementi di biade (nutrici di cavalle) / contro un mare d’assenzio / mangiato dalle grotte… // Qui / Pitagora dedusse il numero: / principio e fine / d’ogni congiunzione di pensieri; / luce di fede / e musica / di navigati mappamondi… Riecheggia il più tardo Salento di Bodini: Qui c’erano accademie / e monaci sapientissimi: / o città gloriose / di sporcizia e abbandono! / Nel mattino senz’uomini allattano i figli / le donne sulle porte o lungamente / si pettinano. / E che neri capelli, che capelli / che non finiscono mai, / fra quelle case bianche con le file / di zucche gialle sulle cornici!...; o di Vittore Fiore: …Venga Lupo Protospata a dirci / le antiche invasioni e il massamutino / passi e il cotone e le spezie e il lino / per arabe mani. / Gallipoli, un vento azzurro guidò / me bambino fra le tue case / fino alla chiesa del Mal Ladrone: / fu allora che tra bene e male / Conobbi un divario. Appena finito / il mare gridava le sue perdute / speranze la Magna Grecia / e come in un’antica armonia / la ragione fu l’uno / e il due la scienza / e tre l’opinione / e il quattro fu sensazione. / Qui venne Pitagora / e giorni felici conobbe / chi cantò la lira. / Torneranno i volti umani, / le belle forme sinora celate / dove ora solitaria Metaponto / la sabbia lascia al vento di lontane / pietre spoglie di gloria e un’aria secca / trascina tra i campi gonfi di sole. / Noi cogliamo cicorie / tra le Murge e lumache, / un filo d’erba, rinasce la speranza. / All’Adriatico i miei giorni / inclinano, a questi cieli grigi. / Qui anche l’Addolorata / ha spade d’argento nel petto, / qui anche a me la parte di dolore / riportano dalle piazze / le voci che alle incerte luci dell’alba / all’asta comprano i braccianti. / E se tu nuovo sangue / in me sei, terra natale, / meglio aprire le braccia dagli approdi / dell’antico meditare.
E la memoria di ciò che non fu, che non si ebbe mai, oltre ogni illusione: la “neve sdorata” (dice Antonio Errico) che seppelliva il pane di Antonio Verri: …Si potesse noi portar giù due carri di quella neve / morbida / che servirebbe a mia madre a riempirmi le tasche / a coprire il campo come con cenere / (come faccio a spiegarti i misteri / del pane, l’inverno senza neve / le notti senza luna, i frisi? / o le rivolte senza senso, i contraccolpi / le secche risposte di mio padre, i suoi tormenti / i ceci fritti, i baci in bocca a fine d’anno) / oh come faccio a spiegarti che qui il niente / non può trovare casa, che non siano molto distanti / dalla vita. O che solo questo è la vita…

È la stessa Puglia ritratta da Ennio Bonea, che descriveva il medioevo degli anni Cinquanta e dei primi anni Sessanta, il tempo lento della nostra storia, l’ossificazione della nostra società: Sulle piazze degli antichi baroni / ov’è fissata la storia del Salento, / piatto lago di terra, di roccia e di tabacco, / tempesta di ulivi e di vigneti, / stanno scalzi i villani, senza canti, / che lasciano i figli scalzi nelle strade / e nelle case con le porte aperte / le vecchie madri col fazzoletto nero / pronte al lamento di prefiche su un morto. / Salento, terra di case bianche / e palazzi con facce di spagnoli sghignazzanti / sotto i tronfi balconi barocchi, / terra di chiese e campanili, / condannata alla sete, coi Santi / che portano le sarde nella bocca. Al modo di Donato Moro, che visse in pieno la civiltà contadina e ne seguì poi la crisi e la disfatta: Non so dove la terra del Salento / confina con il mare. / Fattura e l’aria salsa / la sete nel cielo. // I miei fratelli / coperti di fustagno / arano mare e terra / con la bocca riarsa, / bevono l’acqua / in anfore d’argilla / che alzano solenni in mezzo al sole. / Sulla terra e sul mare / più aspri dell’ulivo secolare.
Le visioni contrastanti non mancano, sono persino eclatanti. C’è la terra aurorale di Girolamo Comi: Cristalli di luce varia / spaccano l’ozio dei suoli / per fecondarlo di voli / di cantici, d’aromi e d’aria, / e perché l’ansia del dire / s’incanti nelle matrici / rocciose delle radici / e nel loro sordo fiorire; c’è il mare onirico del poeta di Lucugnano: Frusciante di un sorgivo brulichio / di rutilanti smeraldi rispecchi / la giovinezza d’azzurri perfetti / modulandone il respiro nativo. // Un pullulare di vivide flore / palpita nei tuoi abissi col fulgore / delle rugiade che ad ogni stella / rapito ha l’ambra d’una madreperla… O il micromondo (nido domestico e rifugio ultimo) di Ercole Ugo D’Andrea: Bianchi paesi e bianchi / cimiteri, / folti d’uve e di croci, / salso vento greco e fiero / gelsomino di Spagna, / onda di luna piena musicale, / mia terra, mia piccola patria, / astrale ti fai / (così rapida precipita la notte ) / e trionfi prostrata / nella solarità. Ma c’è soprattutto la terra cui si addice la tragedia sovrastante, come in Quasimodo: Questa è la terra di Puglia e del Salento / spaccata dal sole e dalla solitudine… / È terra di veleni animali e vegetali: / qui esce nella calura / il ragno della follia e dell’assenza, / si insinua nel sangue di corpi delicati / che conoscono solo il lavoro della terra, / distruttore della minima pace del giorno…; come nell’immigrato (al modo di Bodini, e del nato in esilio Vittore Fiore) Giovanni Bernardini: A quest’ansito sordo del cuore / non gigli schiumosi infiora il mare / né l’antica pianura un arco incurva / di luna e di tremore. / Qui il cavo silenzio delle ore / disperde suoni solitari, / lampi iridescenti nell’occhio / del pastore in mezzo ai pioppi / che il respiro coglie di stormi e venti / al sud in fuga oltre la siepe mossi; come nello stesso Vittore Fiore: E qui, se mai verrai, l’estate / quietamente si sfanno obelischi / e cattedrali come sortilegi / consumano in esilii avventurosi. / Prossimi alle scogliere noi / parleremo del Sud, dell’Europa, / dell’uggia e del campo di tabacco / che avanza in bilico tra noi e il mondo; di Bodini, infine, nelle più che recidive immagini della sua terra d’approdo, dopo la rotta terragna intrapresa dalle plaghe di Bari: La luce è un’altra bestia sulle case / da aggiungere al bestiario / la cui favola / sa di sputi e minacce, / il geco, la tarantola, / l’aggressiva cicala, / la civetta…; e altrove: …Angeli pterodattili sorvolano / quello stretto cunicolo in cui il giorno / vacilla: è un’ora / che è peggio solo morire, e sola luce / è accesa in piazza una sala da barba. / Il fanale d’un camion, / scopa d’apocalisse, va scoprendo / crolli di donne in fuga / nel vano delle porte e tornerà / il bianco per un attimo a brillare / della calce, regina arsa e concreta / di questi umili luoghi dove termini, / meschinamente, Italia, in poca rissa / d’acque ai piedi d’un faro. / È qui che i salentini dopo morti / fanno ritorno / col cappello in testa.

Hanno la sostanza delle dee-madri, le donne salentine; hanno la loro flemma arcana, la tempra risoluta, l’anima in segreto movimento, la compassione intrepida. Sono madri dolorose, ricorda Fabio Tolledi: …Tu, donna e salentina / che hai sole nella pelle / e delusione sconfitta impotenza nelle mani… / …anche tu / vuoi scavare nelle rughe del tempo / e rincorri la memoria / restando incollata e salda alle contraddizioni, / questa è l’unica nostra eredità // l’unico tesoro della nostra memoria offesa. Sono donne disperatamente eroiche, come quelle di Donato Moro: Quando affrontano il giorno sui cammini / col fazzoletto in testa e il vando nero / hanno lo sguardo fiero e un metro fisso / di marcia sotto la roggia del sole. // Non parlano non cantano / non guardano dintorno / cavalcatrici di strade e di sentieri. / I segreti pensieri ruotano lentamente / magri falchi su bisogni elementari. // Nessuno le vide nascere / nessuno ancora le vedrà morire. / Destino affamigliato le porta alla campagna / che anela fra le rocce come la loro bocca. // Al giro indifferente del cielo e di rapaci / le scarpe in mano vanno su asfalti provinciali / o lungo carrare polverose. / Finiscono d’un tratto dietro case di pietra / e lasciano solo ombre d’occhi neri. Gli stessi occhi un poco demartiniani descritti in metonimia da Salvatore Bello: Belle occhi neri / specchi di tarantole, / ballano al ritmo delle zappe / che aprono il cranio della terra, / canto d’amore, di disperazione / sete che non si spegne / al bacio della brocca / di creta. // Tornano ai giacigli / le belle / vestendo a lutto sogni // e magri seni. O quelle – oniriche – di Claudia Ruggeri, solitaria “poetessa della meraviglia”: Donna del piano porta stati nere / per tutte strade per aligi annotta, / per l’angelo perso illanguidito steso / dentro al ceppo e torno torno mila / grana incenso dice parole, e per la / cascina delle barbe e per la làmpana, l’insensata / affretta… (Fu, la solitudine, scaturigine di “solitarietà”, male dell’anima di Ruggeri e di altri poeti salentini. Come Salvatore Toma, per esempio; il quale, forse riecheggiando un altro maudit conterraneo, Carmelo Bene, ha scritto fra l’altro: Vivere in eterno / coi tuoi versi… / passare alla storia / per rara genialità… / essere ricordati… ma / ne vale la pena? / ne ho visti di trucidati / in luridi convegni / indagati frugati fustigati / menzognificati e sfruttati / imbavagliati di motivi inesistenti / storpiati reinventati…! / meglio una morte / sola per noi soli / quest’ultima emozione / questo scoppio di felicità / questo smembramento leggero).
Le città, per concludere. E Lecce-Rudiae-Lupiae in primo piano. Con i versi di Bodini: Biancamente dorato / è il cielo dove / sui cornicioni corrono / angeli dalle dolci mammelle, / guerrieri saraceni e asini dotti / con le ricche gorgiere… // …Un’aria d’oro / mite e senza fretta / s’intrattiene in quel regno / d’ingranaggi inservibili fra cui / il seme della noia / schiude i suoi fiori arcignamente arguti / e come per scommessa / un carnevale di pietra / simula in mille guise l’infinito. Con la nostalgia di Enrico Bagnato: A Lecce l’alba / ha cori / di galli e di campane, // e gentile un profumo / d’aranci ch’esala / da giardini casalinghi. // Città mia, a ogni ritorno / dal tuo grembo d’antichi / tufi mi desto / a nuova nascita. Con la foto in bianco e nero di Pierluigi Mele: Imbrunisce. Le strade si svuotano / a rilento come oliere. / Una pioggia d’Africa sul parabrezza / delle auto in corsa, nessuno sa / per dove: sempre è l’ora / in città di andarsene. / Quieti siedono i contrabbandieri / di sigarette, legati ai semafori. Con quella, in campo lungo, di Enzo Panareo: …Questa è l’ora / ineguale d’acquario / quando per la tangente la noia / infreddolita fila una canzone / che sa di tabacco / sbriciolato, grigia come ferro / che morde. // È l’ora / di donne sfuggenti nei neri scialli / d’ombra ed il frusciare d’erbe, / irose per lunga arsura / non è dei cupi rancori / la buona rivincita. Erra così / nell’aria lubrica del crepuscolo / il taglio di voce che fende / la lacrima cerea nella luce che vibra. // Per guizzi d’oro passa la memoria / che si dirada in cime / a verdi fatti sterili // svagati. O con quella impressionistica di Ercole Ugo D’Andrea: Infilo Porta San Biagio. / Un giallo delirio di pietra / solo che filtri il sole. // Lecce-fresia, / Lecce-lupino, limone, / Lecce-mimosa sensitiva / a ogni balcone. Con le immagini onomatopeiche degli haikù di Giovanni Francesco Romano: Zoccoli allegri. / L’acqua ora canta / nelle brocche di rame; oppure: Un grillo canta. / Pullula melodiosa / acqua di luna; o infine: Cantano donne / lontano. Che tristezza / muove le foglie!
Il versante più salso, quello Adriatico. Otranto presa da saraceni malmostosi, allora i versi per la cripta dei Martiri si fanno nenia con Vittorio Pagano: Tra i gorghi, più giù, cantastorie, / alla lima della mia luna / affilano musiche ustorie, / si svolge il teatro, s’aduna / la plebe di marmo – e nessuna / lampada incendia le memorie / chiuse in archi di penitenza / mentre rombano i passi senza / sogni cupi, senza cortei, / tracciando le vie provvisorie / ch’eludono gl’incubi miei…; e si fanno prospettiva storica (e poetica) in quelli di Antonio Verri: Otranto ha gustosissimi grumi di neve / un lungo discorrere della memoria / vuota silenzio invernale nella mia mano / bianca di turco spolpato. // È lontano ricordo anche l’aria / che penetra tutto che tutto riempie / è ricordo il mare che guarda masse / corpi d’abbandono, memoria ancora / – cristalli morbidi mutanti… – scrostata pazienza di casucce di storia.

Poco più in là Santa Cesarea con la sua storia sulfurea, riscattata dalla poesia di Ercole Ugo D’Andrea: Le vecchie rammendano sugli usci, / le ragazze ricamano gli addii, / le more nessuno le coglie / la melagrana è quasi compiuta. // Sta cadendo la sera, / da più sere incendiano le stoppie, / qui tutto è quotidiano e eterno / al testimone puro e finale, / le icone nei muri sono celesti e rosa: / i colori dell’anima bambina. Poi Castro annidata fra la roccia, a un tiro da Badisco dove Enea, della stirpe di Teucro, in fuga da Ilio, con gli occhi di Acàte avvistò la sponda italica. Da questo acrocoro, i saluti di Lino Angiuli: …Stamattina / nuovo di zecca il mellone del sole / fa ritorno da un ricordo turcomanno / piantato tra i solchi brulicanti blu / insieme a semi di elleniche meduse / lische di sogni sentori d’odalische, ribaditi dove il mare sprofonda alla Finibusterre di Punta Meliso: Che si dice da quelle parti? dove / sicuramente mirto è trasparente? e / melograno snocciola i suoi più garbati silenzi? / uno ad uno senza dare nell’occhio? e che vi pare? del nostro destino? / sbattuto da mezzogiorno a mezzanotte? come se dobbiamo pagare per forza / il pegno di un peccato? commesso contro l’idolo guercio dell’essenza? // Eppure / sappiamo mettere una pietra affianco all’altra / sappiamo conversare col maestrale che / incazza il mare cambiandogli le idee / sappiamo come prendere per mano un oleastro / e battezzarlo in nome del mediterraneo noi. // Eppure / quanti sacrifici al totem del passato / sbarchi imbarchi di carne umana / e quanti viaggi come quello vostro / verso la terra in cui ogni parola sboccia / come una profezia sul tronco dell’inverno.
Si risale verso nord, ora le acque sono joniche e bagnano la colonia tarantina di Gallipoli, che fu dapprima isola, poi appendice legata alla terraferma dagli archi di un ponte seicentesco. La città “sui mari del tonno” diede i natali a Vittore Fiore, il quale in seguito avrebbe malinconicamente scritto della sua decadenza: E tu bianco di mura / così lontano e solo intorpidisci, / lì, oltre il mare, son isole perse / su acque azzurre. / Ecco, se entri al piano solitario, / di là per sempre il mio paese aspetta, / traverso gli archi suoi la Spagna cola / un sonno antico lentamente viola. Mentre Elio Romano incrocia le immagini in un ellittico gioco cielo-terra: …Un aquilone / nel vento di scirocco. // Tra coni di luce, / dall’alto delle case bianche / leviga i colori / di vita nuova / bella e procace. // Danza con Demetra / sulle spume impetuose / di Gallipoli / (è già libeccio). // Dipana matasse dell’abbandono, / di azzurro dimenticato…
Il Salento dove, come scrive Lucio Romano, Sirene di cantieri sono / antichi rumori di zappa: una terra-corte-dei-miracoli che ha sempre atteso (inutilmente) la buona novella, mirando stelle e pietre. È scritto il destino della terra salentina senza eroi: Il mio Sud / non ha un Luther King / né un Evers / che offrano sangue / alle terre assetate / per quelli di domani, / ma piaghe e lacrime / sole e piante piegate. // Scendono a sera / dai cieli ancora rossi / nere civette sui campanili / a gridare i mali del domani. La voce dei giornalieri emerge dolente dai versi: Ogni giorno con zappe ed aratri / coltivammo cuori di rocce: / raccogliemmo piante bruciate / raccogliemmo raggi di sole. // Ovunque andiamo il Sud ci accora… Si partiva dopo pochi addii verso cieli meno azzurri e plaghe sconosciute ma forse, dice Romano, più generose: Fischiavano treni / fischiavano corde dell’anima… E si lascia alle spalle la terra dell’eterna civiltà neolitica. Quella descritta da Donato Moro: Qui tutto è sempre alle origini / il male che corrode è la fatica, / zappe pesanti calano / rintoccano picconi sopra tufi / su lastre d’arenaria raggelate. / Fanciulli stretti al gioco sulle soglie / guardiani ignari di deserte case, / le donne alla raccolta in mezzo ai campi / il volto dell’uliva, / ma quando a sera intonano / antichi canti d’amore / a udirle sui pagliari s’alza la luna.
Le latitudini immutate (se non in apparenza) dell’infelicità. Galatina, per esempio, secondo Martin Andrade: Sui campi di papaveri / strisciano le macare. / In osteria / il settebello abbaglia. / Il frinire delle cicale / apre le palpebre della ragazza / morta ieri l’altro. / Passeri malandrini / stanno a cinguettare in piazza / e donne dai corpi levigati / – taciturne – / sognano il morso dell’amore. // Ad un angolo, / una tarantola dagli occhi azzurri / ed un tatuaggio sulla schiena / sceglie la sua preda. La terra del rimorso ha il suo luogo del “passaggio”, della crisi che ritorna, tra il selciato della strada e il pavimento (e l’altare, e il pozzo) della chiesetta di San Paolo, confine estremo di paganesimo cristianizzato. Rammenta Nico Mauro: In un dissolversi / di buio e di spazio / appaiono le grigie ante / d’una impossibile chiesa / e un cerchio umano / più d’uno / aspetta, / e lento / un tramestio di ruote / percuote selci / e sandali di ferro / di logori animali / echeggiano / in un’aria satura / di tempo, vecchia / di vecchi racconti. Mentre scrive Vito Antonio Conte: La mia vita è qui / tra questi ulivi / torturati dal vento / in questa terra / che collinando / scende ad est / mezzo fuoristrada e mezzo furgone / un’altra giacca di crosta di pelle / scarpe grosse / nonostante l’alternarsi delle stagioni / (che ci sono ancora) / la vecchia casa / respiri in gran parte andati…
E i paesi stupendi dell’interno, i gioielli della cultura grica, e gli altri che fanno corona, per i quali canta Cosimo Corvaglia: …Vedrà nell’afa rossa tremolante / come lumini dentro il camposanto / la mia gente con le anfore di creta / intorno a fili d’acqua alla fontana, / la mia gente dagli occhi miti e neri, / dalla pelle di bronzo e d’amaranto, / dal viso modellato di terriccio, / i miei vecchi dal sorriso scavato, / segugi di ombra inseguiti dal sole, / che in piazza attendono i figli / svizzeri fiamminghi e torinesi / masticando sui soliti sedili / sussurri rantolosi di trinciato. / Quando nelle ore lente del tramonto / il cielo si fa di mosto denso / e le case bianche sono come / novizie soffuse di pudore / ornate di collane di tabacco / nel brivido di alberi di luce, / inzupperò pane d’orzo nel riccio / che l’uomo vende tra erba di mare / con verso singhiozzante nei crocicchi… Ad uno di essi Nello De Pascalis dedica alcuni versi: Quel bosco, / al buio o quasi buio / e Cardegliano, Specchia… / da lì siamo passati / annusando i venti, la terra / impregnata di odori / e d’orme di uccelli e lì, / dei giovani che fummo, / sono sparse parole e voci / e tracce, archiviate tra uliveti / e colpi di vento… All’albero di un altro Biagia Marniti ha rivolto il suo discorso poetico: Sole d’inverno, / campagna annuvolata, spoglia, / viti ormai sterpose / e foglie gialle incuneate a scudo, / cosa mi dite / del grande carrubo di Parabita / e del Castello che lontano guarda il mare? / Terra, ricca di arance e melograni / con alberelli di insolita gaggia, / a me vi lego / nel rapido incontro novembrino, / sospeso come un ponte / fra Nord e Sud / nel cerchio del carrubo… Mentre Giovanni Bernardini rammenta il suo approdo nel porto dell’allegria: Esiste un giorno nella mia vita lontana, certo il più bello, / che questa penisola della penisola a sud-est protesa / salutai come gemma, fiore dei due mari, pupilla degli occhi, / rivedendola lieto, il cuore in tumulto esultante, / a stento a me stesso credendo d’avere lasciato la Foresta Nera / e le regioni settentrionali fumide ancora di battaglie…
Un “esterno”, ispirato a Vittorio Pagano da un paesaggio di Vincenzo Ciardo: Leuca d’un’ansia (o un’ala) si contiene / fremida al bordo sonnacchioso… // …Oh Leuca ! bel riquadro d’oro / si scialba, e solo un cuore fa cornice / alla tela di sonno che ti finge… // E noi abbiamo, rigurgito canoro, / le Sirene negli occhi – esca felice / ai morti, al sogno d’una nostra Sfinge. E un “interno”, una memoria che fa rivivere chi più non c’è, nella “Casa del tavolo ovale” del poeta (e vignettista) Melanton, Antonio Mele: Sono andati via tutti… / A chi volesse di noi / non servirebbe neanche risalire le scale / né spingere appena quella porta / così dolcemente socchiusa / per entrare di nuovo in paradiso. / Le pareti vibrano ugualmente / di voci e di sussurri, / le pentole nere nel camino sono ancora calde / e il tavolo ovale, benché nudo, / profuma intenso di pane e di racconti. / C’è quel silenzio quasi di meriggio / quando l’estate gonfiava il basilico sui balconi / e dagli scuri serrati delle finestre / il bagliore del sole disegnava sul pavimento / lame di luce taglienti come pensieri… // Siamo tutti sempre lì…
Immagini. Sensazioni. Ed emozioni. Antonio Verri: …Sgomentano le viste / scricchiolano i cardini / il mare viscido è in festa / i rosoni, il Gran Turco / della letteratura / le tonnare, una vita strutturata / le sepolture i pianti / c’è un Sud in tutto questo / un cielo torbido nerastro / gli ostracismi vischiosi / le bufere di calce / le morti, ma / che triste faccenda / correre dietro al suono / delle campane delle Scalze! E gli aneliti vani, e le parole desolate della rivolta senza riscatto, e l’effimera libertà del canto… Più tragica che grande, la nostra storia. Ricorda Vittore Fiore: Venivano al nostro fresco mare, a Leuca, / fedeli avventure, / ecco sui dorsi dell’onda / c’erano secoli alla deriva, / uomini secoli per cercare / meridiane paure / e sulla costa abbandonata / fiato e fiato d’altri cieli, / d’altre case marine, / navi precoci di morte, / di silenzi. Di mare in mare / uomini prima di noi / costruirono una casa, una tomba, / neri secoli anche, / come sonno dalle paludi, / le distrussero, / più nessuno sa quanti anni / dietro di noi, / quando già molti destini / erano emersi dagli scogli. / Uniamoci contro la morte, amici, / lo dicono non uno, ma mille anni / nel vasto mare di Leuca. / Per sempre l’avrei taciuto / se da secoli intorno / i cespugli, le case fanno questo, / fanno freddo nel cuore / se pietre e pietre / reggono l’aria calda del Salento. / Anche le lapidi sono entrate, / erano forse storie necessarie, / come una giovinezza sfiorita / laggiù dentro di noi / ai cieli dei paesi senza gridi / presso case cretose, / quando ognuno in estate / da anni ed anni / ha un sole negli occhi, / s’affila una pianura. / Uniamoci, amici, ogni giorno / crepita una nuova tomba, / i morti riposavano sul cuore / compresi i vivi / attraverso una sola terra ormai. / Chi l’aveva detto? / Dove ogni rupe è sola, / dove ogni albero è duro silenzio, / ogni uomo fuga sulle labbra / uniamoci, amici, è Leuca, / in un deserto d’erica, quell’aria.

(5 - continua)

 

   
   
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