Marzo 2008

Un’opera iniziata, ma non compiuta (1992-2004)
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Iscrizioni latine nel Salento
Luciano Graziuso
 
 

 

 

 

Personaggi
che hanno segnato l’impronta del luogo, e non
risultano nelle storie ufficiali, fanno sentire
la loro voce
attraverso
le epigrafi.

 

L’Associazione Italiana di Cultura Classica (A.I.C.C.) di Lecce da più anni – dal 1990 per essere precisi – è impegnata in un’impresa di vaste dimensioni culturali: quella di raccogliere una per una, paese per paese, le innumerevoli iscrizioni latine, che ancora, più o meno leggibili, “parlano a noi” dai muri delle chiese e dei castelli, dei palazzi baronali, delle diverse dimore signorili, ma che possono leggersi anche nelle più umili case a corte, nelle sperdute masserie del Salento, sulle torri di difesa che presidiano le coste e le campagne del nostro territorio. Un’opera, un intervento di necessità urgente, anche e soprattutto perché di anno in anno qualcuna di queste iscrizioni scompare, sotto i colpi del tempo edace, ma ancor più dei picconi e delle ruspe, che nulla sanno di... latino.
L’idea di una raccolta mi era balenata molti anni fa, quando da giovane, peregrinando da una località all’altra, mi capitava di leggere iscrizioni – latine e non – che per me erano sempre ricche di significati, sia che riportassero un avvenimento, una notizia, un monito o anche una semplice curiosità: spesso enigmatiche, queste iscrizioni, o frammentarie, e che costituivano perciò un problema da risolvere, un testo da integrare.
Thànatos athànatos, ta loipà thetà: ossia “Solo la morte è immortale, tutto il resto è mortale” – così leggevo intorno agli anni Cinquanta nel Duomo di Lucca, vicino al celebre monumento funebre di Ilaria del Carretto, opera di Jacopo della Quercia, transetto a sinistra.
Incominciavo così, per il gusto di ricordarle e conservarmele, una prima, anche se disordinata raccolta di schede con epigrafi.
Dal greco al latino. Un bel florilegio, di cui ecco alcuni dei saggi raccolti: ad Amalfi, presso la presunta casa natale, due esametri ricordano l’invenzione (vera o supposta che sia) di Flavio Gioia:

Prima dedit nautis usum magnetis Amalphi.
Amalfi dette per prima ai naviganti l’uso della bussola.

e il secondo:

Inventrix praeclara fuit magnetis Amalphi.
Fu Amalfi illustrissima ad inventare la bussola.

E sul sacro monte de La Verna in Umbria, ecco con un pentametro l’avvertimento breve ma solenne per il visitatore:

Non est in toto sanctior orbe mons.
Non c’è in tutto il mondo monte più santo di questo.

Nei pressi del famoso ponte in legno di Bassano, ecco un elegante distico che lega la città al ponte famoso:

Clara situ fulget Bassanum antiqua per orbem
quam pons nobilitat ligneus in fluvio.
Splende nel mondo la famosa e antica Bassano e la nobilita sul fiume il ponte di legno.

E a Roma, nella Galleria Borghese, sotto la statua berniniana di Apollo e Dafne, ecco gli esametri ammonitori, fattivi apporre dal Cardinale Barberini:

Quisquis amans sequitur fugitivae gaudia formae
fronde manus implet baccas seu carpit amaras.
Chi per amore va dietro ai piaceri della bellezza che fugge
si riempie le mani di foglie e coglie frutti amari.

Si potrebbe continuare con infiniti esempi. Ma anche nel mio piccolo paese natio, Vernole, e nelle sue ancor più piccole cinque frazioni e su tutto l’intero territorio, mi andavo accorgendo che le iscrizioni latine non mancavano.
Un mio zio, Eugenio De Carlo, prefetto del Regno, sopraelevando la sua abitazione nel 1928, vi faceva incidere solo quattro parole, ma altamente significative:

Parva domus magna quies.
Piccola la casa, ma grande è la quiete.

Da Roma a Vernole, dalle grandi dimore e dai rumori annessi e connessi alla Capitale – anche a quei tempi! – si passa a contemplare la pace della casetta in un piccolo paese. Si era ancora senza energia elettrica a Vernole, perché proprio nel 1928 fu portata la luce, dall’allora Società generale pugliese di elettricità.
Entrando poi nel cortile dell’abitazione di Eugenio De Carlo, su una lapide di marmo si potevano leggere i primi otto versi del secondo epodo di Orazio:

Beatus ille, qui procul negotiis,
ut prisca gens mortalium
paterna rura bobus exercet suis
solutus omni fenore
neque excitatur classico miles truci
neque horret iratum mare
forumque vitat et superba civium
potentiorum limina.

Beato colui che, lontano dagli affari, come l’antica stirpe umana, coltiva i campi paterni con i suoi buoi, libero da ogni debito, né, come il soldato, è mai svegliato dal brusco suono della tromba di guerra, né ha paura del mare infuriato e si tiene lontano dalle piazze e dalle superbe soglie dei cittadini che detengono il potere.

Ma sempre a Vernole, e proprio accanto all’abitazione di cui si è parlato, un altro De Carlo – Francesco, sacerdote – aveva fatto incidere sulla piccola finestra al primo piano della sua modesta casa un distico elegiaco, in cui l’abitazione, come se parlasse dichiara la sua piccolezza, senza invidia però per quelle grandi dei ricchi:

Parvula sum Jomus et magnis non invideo superbis
sit maior vobis est satis ista mihi.

Sono una piccola casa e non invidio quelle grandi dei superbi,
abbiatene pure una più grande; a me questa basta.

La data è del 1848: ricordando la storia, se ne può dedurre che mentre in Europa succedeva davvero “un quarantotto”, Francesco De Carlo, anche lui orazianamente, si accontentava della sua piccola casa, nella sua piccola Vernole.
Questa confidenza con Orazio non sorprenda: ho ereditato da casa mia un vecchio grosso volume datato Neapoli, 1791, apud Januarium Migliacci contenente Quinti Horatii Flacci opera. Interpretatione et notis illustravit Ludovicus Desprez, Cardinalitius Socius ac Rhetor emeritus, etc. etc.
Tutto in latino quel volume, dal sommario per ogni componimento alle note, alle interpretationes, una specie di “versione in prosa”. Ma quel che meraviglia è, in fine del volume, l’Index rerum notabilium et Vocabulorum omnium, quae in Horatio leguntur, con puntuali rimandi al numero della pagina e al verso del componimento (da p. 669 a p. 776). Tutto senza l’ausilio dell’elettronica e dei computer di oggi.
Chiusa questa parentesi oraziana, ritorniamo alle iscrizioni: mi accorgevo con l’esperienza che, mentre per importanti edifici di importanti città, esse venivano – anche se non sempre e tutte – riportate su testi di storia dell’arte, di storia locale, di guide turistiche (come per esempio quelle del Castello di Acaia), per tutte le altre invece il silenzio era assoluto e costante, sicché, oltre ad esser conosciute se non da chi vi passava accanto e aveva voglia di leggerle e sapeva tradurle e interpretarle, esse correvano il rischio di andare in rovina col vecchio edificio che le ospitava e scomparire per sempre.
Ma come fare per raccoglierle tutte e in modo ordinato? Puntando su quanto, benché poco, era a mia disposizione, volli provare, e così, in uno dei primi numeri della rivista Lu lampiune, furono pubblicate (aprile del 1987) quelle da me raccolte per Vernole e frazioni: una quarantina.
Dalla mia prima raccolta inedita di iscrizioni racimolate qua e là, si era passati ad un “corpus” più omogeneo, ad una pubblicazione, anche se limitata; un passo avanti s’era fatto.
Si trattava del resto di iscrizioni a me note, perché viste e riviste, lette e rilette mille volte; per me costituivano un patrimonio affettivo, significavano anche il primo impatto con la lingua latina, quando ancora non conoscevo la declinazione di “rosa, la rosa”; ma l’articolo piacque anche ad amici lettori, che me ne segnalarono altre, sconosciute, e mi esortarono, se possibile, a continuare nel lavoro e allargare il campo della ricerca.
Ci voleva però un salto di qualità, per lanciarsi nell’ardua impresa. E il salto ci fu, quando, verso la fine degli anni Ottanta, fu possibile agganciarsi all’Associazione Italiana di Cultura Classica, sezione di Lecce, la più idonea a sposare quest’iniziativa, e passare così da un articolo di rivista ad un volume vero e proprio, anzi ad una serie di volumi.
Si inventarono allora i Quaderni di iscrizioni latine nel Salento, da dedicarsi ciascuno ad uno o più centri: dal 1992, data di edizione del primo “quaderno” su Otranto, si è arrivati, nel 2004, al sesto di questi quaderni, con le iscrizioni di Trepuzzi e Squinzano, Cavallino e Galatina. In totale, 925 le iscrizioni raccolte, 51 le località esaminate: un bel numero, ma io, ad occhio e croce come si dice, avevo preventivato una ventina di volumi, con circa seimila iscrizioni. Ci sarebbe perciò ancora tanto altro da fare; manca, per esempio, Lecce, cui un solo quaderno non basterebbe, e Gallipoli e Nardò e tanti altri Comuni (piccoli, alle volte), che formano la fitta ragnatela dei centri del nostro Salento.

Si iniziò con il “quaderno” di Otranto, che vide la luce nel 1992 e conteneva ben 61 iscrizioni, raccolte con la massima diligenza dal compianto Antonio Corchia, che della città martire conosceva ogni angolo di strada, di chiese, di piazze. Numerose le illustrazioni a corredo dei testi. Appartengono ad Otranto due fra le iscrizioni più antiche, le due di Casa Arcella, risalenti al periodo imperiale romano. Scontate, nella Cattedrale, le numerose iscrizioniche ricordano l’eccidio operato dai Turchi nel 1480.
Un gran numero di iscrizioni è situato nelle chiese, grandi e piccole, di cui il nostro territorio è ricco. E molte di esse risalgono al ‘600 e al ‘700, secoli contrassegnati da un gran rifiorire di edifici sacri; spesso ristrutturazione di più antichi: è il fiorire anche da noi dell’arte barocca, esplosa dopo il Concilio di Trento (1564); si vuole proclamare, nel più solenne ed eclatante dei modi, il trionfo del Cattolicesimo sul mondo protestante. Anche le iscrizioni risentono di questa atmosfera, con il ricorrere ad espressioni altisonanti, a volte vere e proprie figure retoriche. La lingua usata non può essere che il latino, la lingua di Roma e, come appare dai testi, la si sapeva usare a dovere, quasi sempre.
Due anni dopo, nel 1994, appariva il secondo “quaderno” con le iscrizioni di Vernole e frazioni (48 in tutto), Maglie (31) e Casarano (38): un totale di 117 iscrizioni, raccolte e commentate rispettivamente da Luciano Graziuso, Emilio Panarese e Gino Pisanò.
Nel volume veniva citata un’iscrizione recente, recentissima, del 1990, nella chiesa del Sacro Cuore di Casarano, riferita alla Passione di Cristo dipinta da Lionello Mandorino:

Perfecit Mandorino opus hoc, Filograna donavit.
Mandorino realizzò quest’opera, la donò Filograna.

Ben rappresentato in questo (e in genere in tutti i volumi) anche il periodo rinascimentale, con molte iscrizioni civili, che spesso si ispirano alla caducità della vita, al disprezzo delle ricchezze, con inviti all’onestà, al bene operare, o che esaltano il viver tranquillo, senza eccedere in inutili sfarzi e spese non necessarie.
Risuona spesso la paura dei Turchi, come in Vernole n. 15, Strudà n. 13; Acquarica nn. 7 e 8.
Ricordiamo la più breve, Acquarica n. 7; si legge sulla torre di una masseria fortificata e con essa si vorrebbe incoraggiare il lettore a non temere, a prepararsi per respingere l’assalto: grande il pericolo, ma non meno grande il coraggio:

Si consistant adversum me
castra non timebit cor meum.

Se contro di me si dovessero appostare gli accampamenti nemici,
il mio cuore non avrà paura.

La data è del 1717: vale a dire che il pericolo turco era ben vivo anche due secoli e più dopo il “sacco” di Otranto, 1480. È citazione biblica: Salmi, XXVI, 3.
Da Maglie, n. 114, ecco l’epigrafe:

B.M.V. Reginae Poloniae
Legio XXV Lanceariorum maioris Poloniae
Malleis clade in arma rinata
Imaginem hanc pietatis signum
dicavit
XXIX IV MCMXLV.

Il XXV reggimento di cavalleria di una più grande Polonia, ricostituitosi in armi a Maglie dopo la disfatta, dedicò quest’immagine alla Beata Maria Vergine della Polonia, simbolo di pietà (per i Polacchi) verso di lei - 29 aprile 1945.

Sta nella chiesa madre di Maglie, con sopra un bassorilievo dello scultore magliese Giuseppe Conte. Fu voluto dai soldati polacchi che soggiornarono nel Salento verso la fine della Seconda guerra mondiale. È attestata la presenza di soldati polacchi anche in altre iscrizioni, come in Alessano, 2, “quaderno” n. 4.
Nel 1995 vede la luce il “quaderno” n. 3, con le iscrizioni di Melendugno e Borgagne, Parabita, Tricase e frazioni: 153 in tutto, raccolte da Carmen Mancarella, Loredana Barone e Mario Monaco.
Colpiscono i frequenti distici elegiaci in territorio di Melendugno, la gran mole di iscrizioni latine moderne nel Santuario della Madonna della Coltura a Parabita (inizio anni ‘40) e l’accurato impegno filologico, quale appare dalle note apposte da Mario Monaco, che per l’area di Tricase scopre e reintegra sapientemente più di un testo.
L’iscrizione n. 43 di Tricase avverte:

Virtus hominem exaltat
vitia et divitia eundem praecipitant.

La virtù esalta l’uomo, i vizi e le ricchezze lo fanno precipitare in basso.

E, ancora, si può citare quella n. 53, coeva, della seconda metà del Cinquecento, su casa signorile, che parimenti ammonisce:

Sumptus redditum non superet.
La spesa non sia superiore al guadagno.

Consigli validi per ogni età, come si vede; anche se in ogni età allegramente disattesi.
Nel “quaderno n. 4”, edito nel 1998, il numero delle iscrizioni raccolte sale a 251, comprendendo ben 17 paesi fra Comuni e frazioni, tutti situati nell’estremo sud della penisola salentina, il Capo di Leuca.

Opera a più mani tale volume, perché, oltre ad Antonio Caloro, cui spetta la parte relativa alle iscrizioni di ben 13 dei 17 centri passati in rassegna, è da ricordare anche, per i restanti 4, la collaborazione di Francesco Fersini, Padre Antonio Leonio e Mario Monaco.
Le località esaminate sono precisamente: Alessano e Montesardo, Salve e Ruggiano, Morciano di Leuca e Barbarano, Patù, Castrignano del Capo e Giuliano, Salignano, Marina di Leuca e il suo Santuario, Gagliano del Capo, San Dana, Corsano, Tiggiano e Specchia.

Qualche esempio: Montesardo, n. 1

Tempus ordo num
erus et mensura
MDXXIII.

Il tempo è ordine, numero e misura 1523.


La relativa nota così commenta. «È assai difficile collocare in un ambito preciso le quattro parole dell’epigrafe, tante sono le accezioni che ciascuna di esse comporta. Possono riferirsi tanto alla matematica, quanto alla musica, tanto alla filosofia, quanto alla poesia, alla metrica... Montesardo – continua la nota – era famosa in passato per le sue scuole: è ad una di esse che si riferisce, probabilmente, questa iscrizione».
Nella n. 5 di Barbarano c’è invece un’accogliente esortazione ad entrare nella propria casa: Amice, ingreditor (Amico, puoi entrare!), così si legge, con altre considerazioni. Siamo nel 1711: «Omaggio – sottolinea la nota – all’antico senso di ospitalità della gente del Capo, anche se ci sfugge il nome del cittadino cortese».
Sulla croce posta sul piazzale di Santa Maria di Leuca si legge:

Hic mendacii signa superstitio
vidit olim
videat colatque nunc fides
Salentinae gentes XX saeculi
veritatis justitiaeque trophaeum
Ecce vexillum
venite adoremus.

La superstizione qui vide una volta i segni della menzogna; ora la fede della gente salentina del XX secolo veda e adori il trofeo di verità e di giustizia. Ecco il vessillo, venite, adoriamo.

È una testimonianza indelebile del passato, dell’anno giubilare 1900.
Nel 2000, il “Quaderno n. 5”, che raccoglie 175 iscrizioni, appartenenti a Galatone, Diso e Marittima, Andrano e Castiglione, Lizzanello, Collepasso e Tuglie. Ricercatori, Vittorio Zacchino per Galatone (38 iscrizioni); Filippo Cerfeda per Diso (33), Marittima (31), Andrano (23) e Castiglione (6); Dorina Martina per Lizzanello (17); Maurizio Paturzo per Collepasso (9) e Tuglie (19).

Mettiamo a fuoco anche qui alcune iscrizioni: partiamo dalla n. 1 di Galatone, dove si parla di una chiesa in cui officiavano sacerdoti “latini ritus”, ossia di rito latino, in opposizione perciò a quelli di rito greco-bizantino. Testimonianza di un dualismo religioso, politico e culturale, su cui poi finì col prevalere la Chiesa romana, non senza lotte e contrasti.
Personaggi che hanno segnato a volte l’impronta del luogo, ma che non risultano nelle storie ufficiali, fanno sentire la loro voce attraverso le epigrafi: ecco, in Galatone n. 14, Fabio Fornari, brindisino, vescovo di Nardò dal 1583 e morto in Galatone il 20 febbraio 1596, buon conoscitore del diritto canonico, indisse un Sinodo, riformò i costumi, riedificò la chiesa matrice di Galatone, si schierò apertamente a favore del rito latino nella contesa con il rito greco. Si ricordi per inciso che da poco si era concluso il Concilio di Trento e si era vittoriosamente combattuta la battaglia di Lepanto (1571).
Altro vescovo degno di nota è quell’Antonio Sanfelice che sembra parlarci dalle epigrafi di Galatone, ai nn. 4, 15, 26: nato a Napoli da nobile famiglia e morto a Nardò nel 1736, molto colto e buon mecenate, istituì l’Archivio e la Biblioteca, che porta ancora il suo nome; ma si segnalò soprattutto per il forte incremento impresso all’edilizia religiosa della diocesi; del resto, suo fratello era un valente architetto, operoso a Napoli nella prima metà del ‘700.
Interventi dalla sede pontificia sono attestati per Galatone nelle iscrizioni a nn. 25, 27 e 28: siamo nel 1796, alla vigilia dell’invasione napoleonica in Italia, ed è Papa quel Pio VI dalla vita assai travagliata e morto in esilio in Francia nel 1798.

A Lizzanello, in una lunga ed elegante iscrizione, la n. 5, sono tessute le lodi di Giorgio Antonio Paladini, “signore di Lizzanello, Melendugno ed altri Feudi”, morto nel 1656; a quel che si dice, persona veramente encomiabile, come signore e padre di famiglia, valoroso in battaglia, accanito difensore – contro i Turchi – della fede cattolica.
Per Tuglie, nella prima iscrizione e con richiamo anche nella n. 12, si ricorda l’opera di don Vito De Santis, arciprete dal 1733 al 1785.Durante il suo lungo arcipresbiterato ebbe cura di far eseguire a sue spese i lavori di ampliamento della chiesa, con l’aggiunta di due altari laterali.
A Marittima, nel cimitero, l’iscrizione n. 20 riporta, su lastra marmorea, tre brevi parole: Abiit, non obiit (È andato via, non è morto). Ricorda Mons. Vittorio Boccadamo (1918-1996), che ha lasciato pregevoli monografie sul suo territorio. Dice la nota relativa: «Tralasciando le solite invenzioni mitologiche, diede più importanza alle statistiche, alle dinamiche degli eventi storici, ai registri parrocchiali, ai Catasti onciari, agli avvenimenti più recenti, che molte monografie locali trascuravano e tuttora trascurano. Su questa strada [annota Filippo Cerfeda] si può considerare un vero pioniere: le sue Ricerche storiche su Diso risalgono infatti al 1966». Da notare l’icasticità dell’espressione latina.
Anche in questo “quaderno” possono leggersi epigrafi con precetti e osservazioni di carattere morale, specie in edifici civili. Qualche esempio: Galatone, n. 230:

Virtus vulneratur, sed mori non potest.
Si può colpire la virtù, ma essa non può morire.

Senza data, ma del ‘500: si esprime qui la volontà e la sicurezza dell’uomo rinascimentale ad operare rettamente, perchè presto o tardi – anche se con qualche battuta d’arresto – il valore, la “virtus” trionferà. È datata 1821 l’iscrizione n. 18 a Diso:

Ubi thesaurus vester erit, ibi et cor vestrum erit.
Dove c’è il vostro tesoro, là ci sarà pure il vostro cuore.

Di matrice evangelica (Matteo, 6, 21), essa esorta a non considerare troppo i beni terreni, vera “prigione” dello spirito.
Sempre avvertimenti morali contengono le numerose iscrizioni che ornano il castello di Andrano, di cui eccone alcune:

Non nobis solum nati sumus.
Non siamo nati soltanto per noi.

Optimum omnium est bene agere.
Di tutte le cose la migliore è comportarsi bene.

Rotat omne fatum.
Il destino fa girare ogni cosa.

Sulla brevità e inconsistenza della vita umana ci ammonisce Collepasso, n. 1:

Fuissent quasi non essent
de utero translati ad tumulum.

Vissuti come se non fossero mai esistiti, passati dall’utero al tumulo.

Nei secoli scorsi anche da noi imperversarono terribili epidemie: puntuali, alcune epigrafi ne danno conferma: in Diso, n. 19, è dedicato un tempietto a S. Oronzo pestilentiae propulsator, ossia a colui che ci tiene lontano dalla peste; a Lizzanello, nelle epigrafi nn. 9 e 10, si ringrazia pubblicamente San Lorenzo, protettore della città, per il cessato pericolo del colera e si ricordano i casi mortali, di colera, intorno al 1869.
L’iscrizione n. 33 di Galatone, alla via Pietro Micca, sulla facciata del magazzino ora di Antonio Caputo, con ricchezza di nomi e particolari, ci informa della ricostituzione, anche in quel di Galatone, di un’Accademia arcadica, denominata Romanus Parnassus, che, oltre a cenacolo di poesia, si rivela apertamente schierata a favore dei Borbone: siamo nel fatidico 1799 e Ferdinando IV, rientrato a Napoli dopo la parentesi della Repubblica Partenopea, viene osannato dai poeti arcadi quale sovrano «felice, augusto, trionfatore». Così conveniva, anche allora.
Ma l’iscrizione che, almeno per me, ha destato maggiore sorpresa, richiamando l’attenzione di tutti, è stata la n. 2 di Collepasso:

Monumentum
posteritati commendandum
Antonii Leuzii Contareni
domo Tripoli
puelli suavissimi ac summae spei
quem binos annos natus
a libertate servum
ob ingenii elegantiam
atque ad optima quaeque discendi
expeditissimum
filium adoptarunt
de eo amantissime semper merituri
Patricii coniuges Carolus Leuzius
et Maria Contarena
ex Ducum Venetorum stirpe
Collispassi domini
acerbissimo fato raptum
hoc in templo
ubi baptismate inauguratus est
moestissimi sepeliundum curaverunt
vixit annos VI mensis VI dies XX
decessit a(nte) d(iem) X Kal(endas) Iul(ias) MDCCLXXII.

L’iscrizione è preceduta dalle lettere greche alfa e omega (principio e fine) ed è seguita dal monogramma greco ictùs (pesce) per indicare Gesù Cristo, figlio di Dio, Salvatore. (Monumento funebre da affidare ai posteri, di Antonio Leuzzi Contarini, tripolino di nascita; fanciullo soavissimo e di grandi speranze, a due anni di età [reso] schiavo da libero [che era], vivacissimo d’ingegno e capace di apprendere il meglio del sapere, [lui] adottarono come figlio i nobili coniugi Carlo Leuzzi e Maria Contarini della stirpe dei Dogi di Venezia, signori di Collepasso, che, per averlo così amorevolissimamente accolto, avrebbero sempre ben meritato; strappato da acerbissimo fato, mestissimi [i genitori adottivi] vollero che fosse sepolto in questo tempio, dove, col battesimo, era stato iniziato [alla fede cristiana]; visse sei anni, sei mesi e venti giorni; morì il 22 giugno 1772).
L’epigrafe è nella chiesa della SS. Trinità, sulla predella dell’altare maggiore.
Ma come può spiegarsi, alla fine del Settecento, la presenza in Collepasso di un ragazzo nato a Tripoli e qui adottato dai signori del luogo? L’ipotesi più verosimile è che questo bambino all’età di due anni fosse stato rapito e poi venduto come schiavo dai nostri, in una delle incursioni dei cristiani sulle coste musulmane dell’Africa mediterranea: la pirateria infatti veniva esercitata attivamente sia da parte musulmana che da parte cristiana e nel corso dei secoli si possono stimare da 400 a 500.000 gli schiavi musulmani vissuto in Italia, specie nel Mezzogiorno e nelle Isole. Ecco allora in una “nostra” epigrafe, ai più ignota, la preziosa testimonianza di un fenomeno poco conosciuto, per noi un po’ scomodo e perciò poco divulgato dalla storiografia ufficiale.
L’ultimo “Quaderno” della serie, il n. 6, vede la luce nel 2004. Esso presenta le iscrizioni di Trepuzzi (18), Squinzano (27, più 10 non più esistenti, ma di cui si conserva memoria), Cavallino (29), Galatina (101). Per un totale di 167 iscrizioni. È dovuto all’impegno di tre giovani studiosi, che ripondono al nome di Valentina Vissicchio, Enrico Spedicato, Elisabetta De Giorgi.
Gustiamo qualcuna di queste iscrizioni. In Trepuzzi, n. 17, può cogliersi un’altra dichiarazione di ospitalità:

Sinceris januam
numquam claudo amicis.

Agli amici sinceri non chiudo mai la porta.

È del secolo scorso; breve ed elegante per il ricercato allontanamento di sinceris da amicis, la prima e l’ultima parola, irrealizzabile in italiano.
Nella n. 3 di Squinzano sembra di leggere una pagina di cronaca locale a carattere civile e religioso: si ricorda una solenne visita del Cardinale Ascalesi, accolto dal vescovo Gennaro Trama, circondato dai nobili e dal popolo plaudente, il 23 agosto 1919. Seguì un incontro in Municipio, per salutare gli amministratori del Comune e da lì impartire nuovamente la benedizione.
Quasi tutte le iscrizioni di Cavallino sono ubicate nel Castello o nelle vicinanze di esso; si fa conoscenza con i componenti dell’illustre famiglia dei Castromediano, delle loro parentele, di alcune loro imprese.

Per Galatina, risale al 1795 la n. 12, dedicata a Ferdinando IV, Re, Augusto, Invitto, come al solito; ma si apprende anche che per suo interessamento fu ampliata la città e rifatta l’attuale Porta Luce; a lui si deve ancora l’opera di prosciugamento delle paludi circostanti, civium saluti infestissimae (Assai dannose alla salute dei cittadini).
Sempre in Galatina, nella n. 30, è una campana che parla:

Mariae perdolenti
in dolore tristis
in gaudio jucunda
laudes Deo persolvo.

In onore di Maria Addolorata, triste nel dolore, lieta nella gioia, rendo lode a Dio.


Spesso, a proposito di campane, si ricorre a questa forma di prosopopea.
Lo Spirito Santo si invoca nella n. 56 per essere protetti dalle insidie di Satana; forse è del Cinquecento:

Procul a nobis perfidus absistat Satan a tuis viribus
confractas sanctus assistat spiritus a tua sede demissus.

Stia lontano da noi il perfido Satana, [allontanato] dalle tue forze. Lo Spirito Santo, inviato dalla tua sede, aiuti le [nostre] forze infrante.

Più semplice risulta, su un’abitazione di via Lillo, al numero civico 28, la n. 70:

Omnia tempus habet.
Tutte le cose vanno fatte a loro tempo.

Risale al 1795 e riporta una massima biblica (Eccl. III, 1).
E per finire, sempre a Galatina, la n. 80:

Regnantibus impiis
ruinae hominum.

Sotto il governo dei disonesti c’è la rovina dei cittadini.

Risale al Cinquecento, ma il detto, soprattutto in questo tempo di sfiducia e di stanchezze, è sempre di grande attualità.

 

   
   
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