Con questa
vicenda, secondo la Russia, è stata caricata unarma,
e nessuno può
prevedere quando partirà il colpo,
né quale potrà
essere il bersaglio.
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LEuropa dei Sei era nata per dissolvere i nazionalismi violenti.
LUnione europea, quasi senza rendersene conto, ha smentito
quellidea storica, decidendo di proteggere e di inserire nella
Comunità il Kosovo, uno Stato che ha come propria ragion
dessere la segregazione etnica. I fautori del riconoscimento
sostengono che la mossa era ineluttabile, dopo il naufragio della
diplomazia; affermano anche che non di vera indipendenza si tratta,
ma di una sorta di finzione: il nuovo Stato sarà un protettorato
europeo, come dal 1999 lo era dellOnu e della Nato. Ma unEuropa
che parla così, mostrandosi schiava della necessità,
rivela la propria inconsistenza. LUe, puntando sulla forza
civilizzatrice di un protettorato, sbarazza i kosovari
di responsabilità fondamentali.
La lezione che si ricava è che oggi lEuropa non sa
più la storia che fa, e sembra avere scordato che la storia
è tragica.

Ed è tragica per lEuropa quanto per i Balcani. Per
quanto concerne lUnione europea, si conferma la malattia grave
che ci colpisce da anni: incapace di unirsi, abolendo i diritti
di veto posseduti da ciascuno Stato, lEuropa ridiventa preda
dei dèmoni. Lintera sua politica di allargamento ormai
è allinsegna del nazionalismo ritrovato. Ogni nuovo
Stato, anche microscopico, al quale si promette ladesione,
avrà il suo diritto di veto, neppure temperato dalla coscienza
viva nei Paesi fondatori dei propri storici errori
e orrori. La partnership con gli stessi Stati Uniti si trasforma
in patologica rivalità mimetica. Diverremo potenza planetaria
anche noi, se scopriremo lo Stato-nazione e se ne creeremo persino
di nuovi. Ma con una variante: se lEuropa fosse una federazione
allamericana, sopporterebbe queste variazioni di appartenenze
interne; nelle condizioni attuali, essendo una somma di mini-sovranità,
rischia la degenerazione. Cioè, rischia di fare proprio quel
che non vorrebbe: di riaccendere le identità etniche, facendosene
garante, e dissimulandole.
Questo ritorno dei nazionalismi è drammatico anche per i
Balcani e per gli organismi internazionali. Prospettando lindipendenza
sotto protettorato, i ministri degli Esteri inglese e francese affermarono
nel 2007 che lo status quo non poteva essere accettato,
e che le aggressioni serbe non andavano dimenticate. In realtà,
è lo status quo che oggi si accetta, e lo smemoramento
dilaga in nome dellautodeterminazione, vale a dire in nome
della liberazione dei popoli. Con novantanni di ritardo, lEuropa
vive il suo «momento wilsoniano», come lo definisce
lo storico indiano Erez Manela. Lautodeterminazione dei popoli,
proposta dal presidente Thomas W. Wilson tra il 1918 e il 1919,
è riproposta da un Vecchio Continente immemore di quel che
già allora essa nascondeva: i protettorati, i conflitti,
le ipocrisie, la violenza delle disillusioni.
Balcanizzazione non è, a dispetto della storia
degli ultimi anni, un neologismo della nostra lingua. Lidea
che in Europa sia attiva una tendenza alla frammentazione in mille
patrie di tutte le dimensioni, anche minuscole, è nellaria
da almeno mezzo secolo. Anche così si è manifestato
il nazionalismo, esploso durante lOttocento, ma attivo
anche attraverso il termine parallelo e positivo di
patriottismo ancora ai giorni nostri. Di fatto, la mappa
politica attuale dellEuropa è frutto sia di processi
di unificazione, come quelli realizzati dallItalia e dalla
Germania, sia di frantumazione: dellImpero absburgico, di
quello ottomano, e, in anni recentissimi, dellUnione Sovietica.
I Balcani, regione a lungo soggetta agli Imperi di Vienna e di Costantinopoli-Istanbul,
rappresentano il culmine del processo di frammentazione, tanto da
dare il proprio nome allintero fenomeno. Del quale il Kosovo
è solo il più recente, ma purtroppo sospettiamo
non lultimo capitolo. Ma è lintero Continente
ad essere esagitato, da alcuni anni, da un ritorno di fiamma dei
nazionalismi regionali, dagli estremi confini settentrionali
e occidentali, giù giù, fino alle più fluide
frontiere con la turbolenta area mediorientale. In un processo duplice
e apparentemente paradossale, la smania di nuove, esclusive piccole
patrie si fa più acuta, proprio nel momento in cui
lEuropa sta faticosamente cercando di percorrere la strada
dellunificazione.
Il problema è definire la legittimità di queste pulsioni,
e valutare i rischi che implicano. Casi come quello dellex
Cecoslovacchia, separatasi di comune accordo e in un mirabile esempio
di civiltà tra i due Stati della Cechia e della Slovacchia,
o come quello della Serbia e del Montenegro, sono purtroppo leccezione.
La norma, quando il nazionalismo affiora virulento, salta il fossato,
e decide di iscrivere al circolo dei grandi Stati che
sono soltanto entità etniche, è quella che hanno offerto
alla nostra osservazione Croazia, Bosnia e Serbia negli anni Novanta,
e che ha riproposto il Kosovo poco fa: feroci scontri militari,
conflitti internazionali, antichi oppressori (i serbi,
nellultimo caso) che si trovano ad essere oppressi.
Così attualmente Europa e dintorni contano una buona dozzina
di nazionalismi, più o meno accesi, che aspirano alla piena
indipendenza. Tutti ugualmente legittimi, o tutti altrettanto ugualmente
illegittimi: dipende dalla prospettiva con la quale ci si accosta
al problema.

In realtà, non esiste alcun criterio per stabilire che cosa
sia o meno una nazione, e dunque per distinguere le istanze lecite
da quelle che non lo sono. Lantropologo americano Benedict
Anderson ha coniato una fortunata ed efficace definizione: la nazione
è una «comunità immaginata». Che è
come dire: non esiste alcun principio oggettivo, non cè
alcuna norma certa che consenta di descriverla; un certo gruppo
umano è una nazione quando sente di esser tale, quando immagina
di essere unentità autonoma e autosufficiente.
A noi italiani sembra scontato che la nazione coincida con larea
in cui si parla la stessa lingua, perché questo è
il tratto distintivo e oggettivo della nostra comunità
immaginata, anche con alcune aree regionali o provinciali
sostanzialmente bilingue. Ma basta dare unocchiata al di là
dei nostri confini per trovare le smentite: nellAustria germanofona,
che mai vorrebbe essere confusa con la Germania; nella Svizzera
multilingue; nella Francia che raccoglie soltanto una parte dellampia
porzione del mondo francofono.
Come ci ha insegnato un altro antropologo di scuola anglosassone,
Walker Connor, le nazioni si appigliano costantemente, per definire
la propria identità, a «criteri oggettivi», che
tuttavia come tali funzionano solo nel momento in cui occorre opporsi
a unaltra nazione: quella limitrofa o quella egemone, nello
Stato dal quale ci si vorrebbe svincolare. I croati insistono sul
loro essere cattolici quando vogliono differenziarsi da quei serbi
con i quali hanno in comune la lingua (salvo scriverla i primi in
caratteri latini, i secondi in cirillico); ma per non confondersi
con gli altri loro vicini, cioè i cattolici sloveni e quelli
ungheresi, battono proprio il tasto della differenza linguistica.
La Svizzera non può contare su omogeneità linguistiche
o religiose: e allora lavora sul piano della storia e delle istituzioni,
facendo coincidere la propria identità con la secolare tradizione
di indipendenza dai vicini Imperi e con loriginale
formula politica fondata sulla democrazia diretta. Lingua, religione,
storia, tradizioni, sono tutti elementi oggettivi che,
visti dallinterno, funzionano, tanto da apparire persino scontati.
Eppure, appena lo sguardo si allarga, è difficile considerarli
poco più che pretesti.
Il cammino dellUnione europea, lungo ormai più di cinquantanni,
sembrava aver trovato nonostante le non poche resistenze
particolari una sintesi accettabile per le identità
nazionali. Invece, antichi e nuovi nazionalismi sono riaffiorati
proprio nel momento in cui lintegrazione continentale ha iniziato
a farsi più forte, complice anche linstabilità
dellarea orientale appena disancorata dalle catene sovietiche.
Il fenomeno si ripete tanto allinterno dellUnione, quanto
in quelle regioni i Balcani, appunto che sanno che
prima o poi finiranno per entrarvi. Oppure, esattamente con gli
stessi meccanismi, nellaltro grande collettore presente sul
territorio europeo, quella Russia post-sovietica che al suo interno,
soprattutto nel Caucaso, include ancora numerosi aspiranti alla
propria piccola patria.
Il fenomeno, a ben guardare, non è poi così paradossale,
e va di pari passo con la simultanea affermazione del regionalismo.
In Italia abbiamo sotto gli occhi il ruolo giocato dalla voglia
di decentramento, dallaffermazione delle identità locali,
dallimpegno per la tutela di storia e di tradizioni particolari.
Il tutto in modo identico si ripete nellintera Europa, dalla
Spagna alla Germania, dalla Francia allUcraina. E a volte
sfocia in vere e proprie spinte separatiste, quando esiste un qualche
appiglio oggettivo cui aggrapparsi. E poco importa se
Bruxelles ha saggiamente deciso che le stellette della bandiera
europea rimarranno dodici, indipendentemente dal numero di Stati
membri. Tanta prudenza non sembra basti a scoraggiare lo tsunami
che investe mezzo mondo con laspirazione allindipendenza
di nuove piccole patrie.
Il Kosovo indipendente ha innestato un sottile, velenoso contagio
su vecchie ferite e sulle diatribe nazionaliste di tutti i tempi.
Secondo la Russia, con questa vicenda è stata caricata unarma,
e nessuno può prevedere quando partirà il colpo, né
quale potrà essere il bersaglio.
Restiamo dalle nostre parti. Ai tempi della Seconda guerra mondiale,
lo storico britannico Alfred Cobban citava come palese assurdità
lipotesi di unindipendenza di Malta o dellIslanda,
troppo piccole sosteneva per poter svolgere le funzioni
di uno Stato. La Storia si è premurata di smentirlo, dimostrando
che, in fondo, neanche le ambizioni delle minuscole Faer Øer
sono del tutto balzane. Dipendenti dalla Danimarca, i loro 50 mila
abitanti, che già godono di larga autonomia, (hanno deciso,
ad esempio, di non essere parte dellUe, a differenza di Copenaghen),
da qualche anno discutono (nella loro lingua ufficiale, il feringio)
di completa indipendenza. Così come i loro ben più
numerosi (cinque milioni) vicini meridionali, gli scozzesi.
Edimburgo, che nel 1998 ha conquistato un proprio Parlamento, è
divisa: da un lato, quanti si accontentano (magari in chiave anti-europea)
dellautonomia; dallaltro, quanti vorrebbero la piena
indipendenza della Scozia, riallacciandosi a una storia autonoma
plurisecolare. Più recente, ma ugualmente radicata nei secoli
passati (oltre che nella lingua), è la voglia dindipendenza
delle Fiandre dal Belgio. Una tentazione che è montata per
qualche anno, ma oggi in fase di stallo cronico, e che gioca sulla
strutturale debolezza dellidentità belga, spaccata
fra i tre milioni di valloni francofoni e i sei milioni di fiamminghi
di lingua olandese.
Situazione pressoché analoga, quella della Catalogna, dove
però gli elementi spagnoli (ma a Barcellona preferiscono
dire castigliani) sono frammisti in tutto il territorio
a quelli catalani. Così non è, al contrario, nei Paesi
Baschi, tra Francia e Spagna: insanguinati da ormai quarantanni
di attentati, esecuzioni e ricatti dellEta, ma abitati per
meno della metà da madrelingua baschi, sono la spina nel
fianco del governo di Madrid. Qui lidentità basca,
più che un dato di partenza, sembra essere lobiettivo
finale dei separatisti, impegnati a imporla con ogni mezzo a tutti
i tre milioni di abitanti.
Un meccanismo che proprio il Kosovo ha sperimentato in passato,
quando durante loccupazione nazifascista registrò
una prima pulizia etnica, allora a danno dei serbi e a favore degli
albanesi, oggi oltre due milioni. Più a oriente, unaltra
(e del tutto ignorata) spina nel fianco dellUnione è,
o dovrebbe essere, la Transnistria, striscia di terra moldava al
di là del fiume Dniestr (il Nistro), che si è proclamata
indipendente fin dal 1990, e che da allora sopravvive soltanto grazie
al sostegno di Mosca, a tutela della minoranza egemone dei russi,
appena un quarto del mezzo milione di abitanti.
La Russia appare spesso in prima linea, sul fronte caldo e a volte
rovente delle aspirazioni delle piccole patrie, soprattutto lungo
il suo confine caucasico: da un lato, reprime duramente le ambizioni
della Cecenia, dove gran parte del milione di abitanti è
musulmana e non slavofona; dallaltro, sostiene le identiche
ambizioni di due aree della Georgia, lAbkhazia (200 mila abitanti)
e lOssezia (ma solo quella del Sud, 70 mila abitanti; quella
del Nord essendo oltre il confine georgiano, in territorio russo,
perfettamente normalizzata), luna e laltra vincolate
da ferrei legami storici al colosso russo e insofferenti al giogo
di Tblisi, capitale che avvertono come lontana per lingua, storia
e cultura. Ai margini dellarea caucasica, poi, si collocano
le volontà indipendentiste del Nagorno-Karabakh, enclave
di 200 mila armeni interna allAzerbaigian, ma di fatto
indipendente fin dalla guerra del 1993 e del ben più
vasto Curdistan: i 40 milioni di curdi sparsi fra Turchia, Iraq,
Iran e Siria, sono il più grande gruppo etnico privo di uno
Stato nazionale proprio. E così Ankara fa sfoggio della medesima
doppiezza di Mosca: se da un lato reprime da decenni ogni tentativo
autonomista dei curdi, dallaltro tiene in vita fin dal 1983
lautoproclamata Repubblica turca di Cipro Nord che, con meno
di 300 mila abitanti ormai tutti turcofoni, (i greci sono fuggiti
a sud dopo loccupazione militare), rappresenta la più
grave piaga interna allUe.
Passiamo in Asia. Migliaia di chilometri più a oriente dellUnione
europea, nello Sri Lanka, (ex Ceylon), continua la guerriglia indipendentista
dei Tamil. Più su, al confine con il Myanmar (ex Birmania)
i ribelli del Manipur si battono per lindipendenza del Nord
Est indiano, che conta due milioni di abitanti. Nel nord-ovest della
stessa India agiscono i separatisti del Kashmir, regione contesa
da sessantanni tra Pakistan e Nuova Dehli.
E ritornando in Europa, dobbiamo registrare il ritorno dei vikinghi,
che questa volta però puntano a settentrione. In terra danese,
un partito ultranazionalista sostiene che la Scania deve tornare
alla Danimarca: per Scania (Skåne in svedese, Scanelandene
in danese) intendendo la regione più meridionale della Svezia,
per sei secoli parte integrante del Regno di Danimarca e sottratta
dal potente vicino allapice della sua espansione con il Trattato
di Roskilde, nel 1658, insieme con le confinanti province di Halland
e di Blekinge. Beghe preistoriche, se riviste al tempo dellEuropa
unita, e dellEuropa di Schengen, anche, nella cui area sono
presenti sia Stoccolma sia Copenaghen, sorelle scandinave da tempo
divenute modello di pacifico sviluppo. Ma le rivendicazioni gettano
sul tavolo il dialetto vicino più al danese che allo svedese
che si parla in quei territori, e la maggioranza della popolazione,
di origini danesi.
Compassati, gli svedesi ribattono che la Scania gode di unampia
autonomia e della preservazione del dialetto e della cultura locali.
La regione di Malmö (11 mila chilometri quadrati, un milione
e 200 mila abitanti) è la più dolce della Svezia,
celebre per le sue pianure ondeggianti di grano, e per il clima
mite, straordinario a quella latitudine. Ma gli ipernazionalisti
danesi intendono portare alle estreme conseguenze lintegrazione
europea, con la dissoluzione degli equilibri del dopoguerra e con
una ridefinizione degli Stati nazionali. Un incubo per tutte le
Cancellerie, perché unazione del genere scatenerebbe
rivendicazioni senza fine. Ma quello che è fuori portata
a livello politico si sta ottenendo sul piano infrastrutturale ed
economico. Copenaghen e Malmö sono unite dal 2002 dal ponte
dellOresund, una delle più grandiose costruzioni dEuropa,
che collega il Mare del Nord con il Mar Baltico. Un ponte anche
simbolico tra due culture simili, tra luoghi e tradizioni che affondano
le loro radici nella storia di guerre, di intrighi e di fantasmi
grandiosi: il Castello di Kronborg, a Helsingør, è
quello di Amleto. Il ponte, lungo sedici chilometri, è al
centro di una potenziale euroregione a cavallo tra larea danese
della Selandia settentrionale e la Scania svedese, estendibile in
Germania, fino ad Amburgo.
Ma agli ultrà danesi questo non basta. Essi guardano anche
a Sud, a quello Schleswig-Holstein che la Germania del cancelliere
Bismarck sottrasse a Copenaghen nel 1867. Nel 1920 un referendum
sancì la divisione dello Schleswig in due parti, e lasciò
il Sud a Berlino. Gli ultrà sostengono che quella consultazione
non è da considerarsi valida, perché allepoca
«i tedeschi accorsero in massa da tutte le regioni per creare
una maggioranza artificiale». E reclamano la ripetizione del
voto.
Storia emblematica, come si vede. E per questo, citata a lungo.
Ma non unica del genere. Ad Atene, recentemente, sono scesi in piazza
un migliaio di nazionalisti: protestavano per il Nord Epiro, e chiedevano
lindipendenza dallAlbania. Insomma, un Kosovo al contrario:
anti-albanese. Tanto per dire che clonando le situazioni
la Storia continua.
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