Rimboccarsi
le maniche diviene ora un imperativo
categorico anche per la Politica:
su questo si fonda la scommessa dei nostri giorni.
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Le più recenti previsioni di Istituti internazionali e dei
maggiori Centri studi italiani collocano la previsione di crescita
del Prodotto interno lordo del nostro Paese nel 2008 tra 0,6 e 1,0
per cento, in funzione dellandamento dei costi energetici.
Ancora una volta, quindi, se le previsioni si dimostreranno corrette,
saremo nelle posizioni di coda allinterno della Comunità
europea; e merita sottolineare che lo siamo stati anche negli ultimi
due anni (anche se con un aumento del Pil superiore alla previsione
2008) e che tra il 2002 e il 2005 abbiamo segnato tassi intorno
allo zero. Viene legittima, allora, la domanda: ci siamo fermati,
o, peggio, abbiamo intrapreso un sentiero di declino inarrestabile?
In effetti, da indagini mirate sullo sviluppo comparato delle regioni
europee, (e va sottolineato: europee), monitorate in clusters
relativamente omogenei, emerge che anche quelle italiane strutturalmente
migliori segnano il passo addirittura dalla metà degli anni
Novanta. La nostra non crescita o crescita modesta
affonda quindi le proprie radici nel tempo e dimostra che analisi
tipicamente congiunturali o legate al ciclo industriale non ne possono
fornire spiegazioni esaurienti.

Infatti, se da un lato il sistema produttivo italiano formato in
larghissima parte da imprese di piccole dimensioni, collocate in
comparti tradizionali, può aver subito un impatto
fortemente negativo dalla progressiva globalizzazione dei mercati
e dallemergere di economie di molti Paesi in via di sviluppo,
tale impatto è stato in gran parte assorbito attraverso la
fase di ristrutturazione profonda vissuta dalle imprese nel periodo
considerato e che è sfociata nel recupero della produzione
industriale e delle esportazioni dimostrato a partire dalla seconda
metà del 2005 e continuato per lintero 2007.
Si è trattato di una ristrutturazione a 360 gradi, che ha
lasciato sul terreno molte vittime, ma che ha reso più forte
e competitivo il sistema produttivo; e che ha obbligato (o meglio,
che sta obbligando) a ripensare anche il modello basato sui distretti,
sul quale si era fondato lo sviluppo di moltissime aziende e che
ha senso configurare oggi più in termini di filiera
che di aree territoriali omogenee.
Ma la sfida competitiva non è mai vinta e obbliga tutti i
giocatori a saper innovare senza soluzioni di continuità.
Si tratta, cioè, di affrontare il tema dellinnovazione
in concreto, in corpore vili; non nellaccezione
puramente nominalistica, che troppo spesso viene usata come risposta
universale a tutti i problemi.
È uninnovazione che riguarda lorganizzazione
dellazienda, anzitutto, per renderla più flessibile
e rapida nella catena decisionale; che riguarda la focalizzazione
di business; che interessa gli investimenti immateriali, in grado
di vestire un prodotto anche tradizionale per indirizzarlo
pure verso nuovi utilizzi; che coinvolge il posizionamento sul mercato;
che investe il problema del time to market nella catena
produttiva; e via dicendo.
Il sistema produttivo, pur con le difficoltà evidenziate,
ha dimostrato e dimostra di non volersi arrendere al declino e alla
non-crescita; perché, allora, il Paese è fermo?
Siamo convinti che non esista una risposta univoca e che molte siano
le concause. Dai problemi mai risolti delle nostre regioni meridionali
(chi ricorda più le analisi e le proposte, ad esempio, di
un Giustino Fortunato?), nelle quali rimane al primo posto la questione
della legalità e della sicurezza e verso le quali sono stati
commessi errori strategici sotto il profilo degli interventi economici
e finanziari, sia nella loro tipologia, sia dimenticando la vocazione
naturale dei territori; alle mancate liberalizzazioni di gran
parte dei servizi, che, anzi, a livello locale, hanno visto un accrescersi
del dispendio di risorse pubbliche e un allargamento del controllo
da parte degli enti locali; allincapacità di imporre
concorrenza ai troppi comparti protetti; a una sempre più
accentuata (nel confronto internazionale) carenza di moderne infrastrutture.
Infatti, se la sicurezza e i tempi assurdi della giustizia sono,
come è fin troppo noto, fra le prime cause indicate dagli
operatori stranieri per spiegare la scarsissima propensione ad investire
in Italia, non lo è da meno larretratezza infrastrutturale.
Questa, infatti, rappresenta una delle maggiori diseconomie esterne
che unimpresa deve sopportare in Italia per svolgere la propria
attività; e sta diventando uno strumento di attrazione competitiva
persino da parte di Paesi più industrialmente arretrati,
quali quelli neo-comunitari dellEuropa dellEst.
A tutte queste problematiche, che minano la nostra competitività
internazionale, si aggiunge un ordinamento amministrativo vecchio,
non più adeguato alle esigenze di un Paese moderno, che dà
luogo ad una burocrazia ottusa e frenante.

Questa analisi non rappresenta certo una novità; opinionisti,
politici, esponenti delle categorie economiche e comuni cittadini
ne discutono spesso e ne sembrano ben consapevoli. Ciò nonostante,
una seria politica del fare, basata su una scelta di
poche priorità in grado di rimettere in moto il Paese, liberando
da lacci e laccioli le tante energie vitali che ancora operano sul
nostro territorio e che non intendono migrare, è sembrata
finora, purtroppo, un lontano miraggio.
Nessuno si nasconde che il nuovo secolo ha ereditato dal precedente
un debito pubblico insopportabile, che condiziona pesantemente le
scelte di qualunque governo. Per questo, per rimettere in movimento
lItalia, occorre non disperdere le scarse risorse disponibili;
per questo non è più tollerabile ascoltare senza reagire
le gravissime accuse che la Corte dei Conti annualmente avanza nella
sua relazione sugli sprechi e sulle malversazioni; per questo occorre
dimettere tutte quelle attività che nulla hanno a che vedere
con linteresse legittimo e generale dello Stato; per questo
occorre riconoscere, alla base di ogni decisione, come valore fondante
di una società civile moderna, in tutte le sue espressioni,
il merito e non lappartenenza politica o falsi egualitarismi.
Si tratta, insomma, di iniziare una profonda azione di modernizzazione
dello Stato, che a partire da una riforma dellUniversità
che fermi il proliferare delle cattedre e selezioni quelle davvero
degne del contributo statale, non può non coinvolgere scelte
fondamentali sui princìpi ispiratori e grande carenza nelle
realizzazioni.
Chi condivide unanalisi e una proposta del tipo ora indicato,
non può non ricollegarsi a quanto detto poco sopra circa
il periodo nel quale il Paese ha cominciato sostanzialmente a fermarsi:
la metà degli anni Novanta. È lo stesso periodo nel
quale il processo di rinnovamento e di modernizzazione dellItalia
sembrava avviarsi, basato su uno sforzo di cambiamento istituzionale
che il declino della cosiddetta Prima Repubblica aveva reso indispensabile.
Purtroppo questo processo, come le vicende più recenti hanno
dimostrato, si è posto in una situazione di stallo, è
rimasto una incompiuta addirittura dannosa. Infatti,
se il sistema-Paese nel suo complesso, a cominciare dalla sua architettura
istituzionale, non si pone in condizioni competitive con quelle
degli altri territori non solo europei, ben difficilmente il contributo
positivo di qualche categoria ci potrà consentire di riavviare
il processo di crescita. Ciò richiede che la Politica (con
la maiuscola) sappia traguardare il breve termine ed essere capace
di porsi obiettivi ambiziosi di medio periodo. E questo non è
un sogno, ma una speranzosa scommessa.
Le indagini sociologiche svolte a livello nazionale, e altre, molto
recenti, effettuate in alcune regioni, nelle quali il consenso politico
si è mantenuto uniforme nel tempo, mostrano un inequivocabile
distacco dei cittadini dalle istituzioni e da chi opera in politica.
Si tratta di un sentimento diffuso, molto pericoloso, che desta
preoccupazione e lascia spazio allanti-politica e ai movimenti
spontanei, sostanzialmente qualunquisti o anarchici. Il rimboccarsi
le maniche, che è stata la parola dordine delle
imprese industriali per il loro rilancio competitivo, diviene dunque
un imperativo categorico anche per la Politica. Su questo di fonda
la scommessa dei nostri giorni.
Considerazioni dobbligo. La meritocrazia compie esattamente
mezzo secolo, ma non sembra avere ottenuto ancora la cittadinanza
italiana. Nata nel 1958 dalla penna del britannico Michael Young,
è un termine che stenta ad attecchire nel nostro lessico
quotidiano, in modo particolare in quello della politica.
Roger Abravanel ha avuto il merito (è proprio il caso di
dirlo) di rispolverarlo e di farne oggetto di un pamphlet velenoso,
pubblicato di recente. Viviamo in un Paese che scoraggia i talenti
fin dai banchi di scuola e favorisce le caste e i privilegi ereditari,
sostiene Abravanel. Bisogna prendere esempio dallAmerica,
dove le Università sono selettive e i migliori, i più
intelligenti, quelli che si impegnano di più vengono promossi
ai posti di responsabilità nelle aziende e nella pubblica
amministrazione. Quale che sia la loro origine sociale.
Si tratta della Education Based Meritocracy, la meritocrazia
fondata sullistruzione, teorizzata nel 1972 da Daniel Bell:
nella gara al successo vincono i più bravi, non i figli di
papà. Una scuola esigente getta le basi di una società
più giusta. Una bella utopia che non sta in piedi, ha obiettato
il sociologo britannico John Goldthorpe. Statistiche alla mano,
Goldthorpe ha dimostrato che nel Regno Unito i bei voti o una buona
laurea non sono sufficienti a sfondare nella vita professionale
e non cancellano lo svantaggio di provenire da una famiglia operaia.
Aveva ragione il vecchio liberista von Hayek, secondo il quale soltanto
i regimi totalitari riescono a programmare le carriere degli individui,
sia pure con risultati disastrosi. In una società aperta
la disuguaglianza è ineliminabile e i criteri per valutare
il merito non sono oggettivi: ci sarà sempre qualche povero
di talento che resta indietro e qualche somaro ben pasciuto che
gli passa avanti.
Che cosa significa, che dovremmo rinunciare a investire nellistruzione,
e rassegnarci al familismo amorale? Dopo tutto, lAmerica è
il Paese in cui una donna qualunque, nera, e nata in una povera
famiglia del South Side di Chicago, come la moglie di Obama, può
frequentare Princeton e la Harvard Law School, e diventare
forse la futura first lady. Dalle nostre parti non sarebbe
riuscita neanche a prendere una licenza di taxi. Il modello Oxbridge
o Harvard è ben lontano dalla perfezione, e non garantisce
di per sé la giustizia sociale. Ma se cè un
regime sicuramente iniquo è proprio quello della Bad
Education Based Demeritocracy, la Demeritocrazia fondata sulla
mala-educazione (e sulla furbizia), che da troppo tempo impera in
Italia.
Riprendiamo il discorso sul sistema-Paese, ma innestandolo, questa
volta, nel più ampio panorama planetario. Secondo James Bradford
DeLong, docente a Berkeley, non è inevitabile che leconomia
mondiale (e dunque anche quella italiana) debba fare i conti con
una forte recessione nei prossimi tre anni: possiamo in qualche
modo cavarcela. A patto che i governi agiscano con accortezza, cominciando
ad adottare fin da subito misure per attutire, ammorbidire e abbreviare
il periodo di disoccupazione alta e di crescita lenta o negativa
che stiamo vivendo.
È un fatto di natura della natura umana, quantomeno
che politiche che oggi sono prudenti e appropriate possano
in seguito apparire azzardate. A un certo punto, leconomia
mondiale ricomincerà a espandersi velocemente. Ma sarebbe
estremamente imprudente dare per scontato che il punto di svolta
sia vicino e che il peggio sia già passato.
Forse il modo migliore di considerare la situazione è ricordare
che sono state tre le locomotive delleconomia mondiale negli
ultimi quindici anni. La prima è rappresentata dai forti
investimenti, soprattutto negli Stati Uniti, determinati dalla rivoluzione
delle tecnologie informatiche. La seconda è stata determinata
dagli investimenti nelledilizia, anche in questo caso soprattutto
negli Stati Uniti, trainati dal boom dellimmobiliare. La terza
sono stati gli investimenti nellindustria manifatturiera nel
resto del mondo (in modo particolare in Asia), mentre gli Stati
Uniti diventavano limportatore di ultima istanza delleconomia
mondiale.
Per quindici anni, queste tre locomotive hanno mantenuto leconomia
del mondo sviluppato vicina alla piena occupazione e in rapida crescita.
Quando il boom dellhigh-tech è finito, nel 2000, la
Federal Reserve ne ha orchestrato la sostituzione con il boom dellimmobiliare,
mentre gli investimenti in Asia per rifornire il mercato americano
progredivano a ritmi sempre più sostenuti.
Molti oggi si lamentano della gestione monetaria di Alan Greenspan,
che continuò a tenere in moto queste tre locomotive: serial
bubble-blower (gonfiatore di bolle in serie) è lespressione
più educata con cui è stato definito. Ma sostiene
DeLong starebbe davvero tanto meglio leconomia mondiale
se ci fosse stata unaltra politica monetaria, che avesse tenuto
la disoccupazione a un tasso medio del 7 per cento, invece che del
5 per cento? Starebbe davvero tanto meglio oggi, se fossero semplicemente
venuti a mancare circa 300 miliardi di dollari allanno di
domanda dallAmerica per i produttori europei, italiani compresi,
oltre che asiatici e latino-americani?
La prima locomotiva, però, è rimasta a secco sette
anni fa, e non cè nessun altro settore di punta ad
alta incidenza tecnologica, come le biotecnologie, suscettibile
di ispirare unesuberanza analoga, razionale o meno che sia.
La seconda locomotiva ha cominciato a perdere colpi due anni fa
e ora si sta avvicinando al completo stop, e questo comporta che
anche la terza gli Stati Uniti come importatori di ultima
istanza sta perdendo di velocità: la debolezza del
dollaro che procede di pari passo con il tracollo finanziario dellimmobiliare
rende svantaggioso esportare negli Stati Uniti.
Leconomia, per dirla con John Maynard Keynes di settantacinque
anni fa, sta sviluppando un problema di accensione. Quello di cui
cè bisogno è una spinta: più domanda
aggregata. Il dollaro debole favorirà nettamente le esportazioni
americane, e di conseguenza la domanda aggregata negli Usa. Ma in
unottica mondiale, le esportazioni nette sono un gioco a somma
zero. Dunque, bisognerà affidarsi ad altre fonti di domanda
aggregata.
La prima di queste fonti è il settore pubblico. La prudenza
di bilancio è importante come sempre sul medio e lungo termine.
Ma per i prossimi tre anni, i governi dovrebbero abbassare le tasse
(specialmente ai redditi più bassi, che sono quelli più
suscettibili di spendere) e innalzare il livello della spesa.
La seconda fonte è rappresentata dagli investimenti privati.
Le Banche centrali di tutto il mondo sono in attesa di tempi buoni,
cioè di inflazione sotto controllo, per poter tagliare i
tassi. Bassi tassi di interesse sono perfettamente compatibili con
una stagnazione o con una depressione, se i premi al rischio rimangono
elevati, come ha imparato il mondo negli anni Trenta del secolo
scorso, e come ha reimparato il Giappone nei seguenti anni Novanta.
Per quel che riguarda lItalia, dunque, tenendo presente che
dovrà essere abbattuto al più presto il suo condizionante
debito pubblico, il compito più impegnativo sarà quello
di potenziare le capacità del settore privato di assumere
rischi, per consentire alle aziende di avere accesso al capitale
a condizioni che le incoraggino a espandersi sia nelle zone tradizionalmente
sviluppate, sia in quelle che ancora oggi sono fortemente arretrate.
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