Il futuro non è
più quello di una
volta: ora lo
sviluppo e la
ricchezza stanno migrando in Asia e nei Paesi
emergenti, sospinti dalla demografia
e dalla tecnologia.
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Da qualche tempo leconomia globale sembra capovolta. Gli
Stati Uniti, che hanno trainato per decenni la crescita del mondo,
sono avviati ad una fase che oscilla tra il ristagno e la recessione,
mentre il ruolo di locomotiva globale è affidato ai Paesi
emergenti, soprattutto nel continente asiatico, fino ad ora immuni
dalle difficoltà reali e finanziarie.
La novità è che queste economie, per la prima volta,
non sono state influenzate dalla crisi americana e persino lAfrica,
bloccata per moltissimi anni nella trappola della povertà,
è entrata in un periodo di promettente sviluppo. Il settore
agricolo, da quando i cereali vengono utilizzati per la produzione
di biocombustibili, ha praticamente raddoppiato i prezzi, e rende
di più dei prodotti industriali e ad alta tecnologia. Le
materie prime energetiche sono ai massimi storici e spingono uno
sviluppo impetuoso anche in Russia.
Le grandi banche americane, a valle della crisi dei mutui, hanno
operato ampie svalutazioni dei propri attivi e sono state soccorse
dai fondi sovrani, vale a dire statali, dellAsia e del Medio
Oriente, che ne sono diventati azionisti. Una grande agenzia di
rating (Moodys) sta meditando di declassare il debito pubblico
statunitense, mentre unaltra (S&P) loda i conti pubblici
dellItalia.
Per quanto sorprendenti, questi eventi non sono paradossi e tanto
meno manifestazioni di breve periodo, ma la conseguenza di grandi
tendenze, da tempo in gestazione e oggi al centro di un mondo che
ha ripreso a cambiare molto rapidamente.
Il ciclo globale della liquidità e della finanza, dopo dieci
anni di crescita senza inflazione, dalla scorsa estate è
girato al peggio, e oggi ha necessità di utilizzare i fondi
accumulati negli anni in Asia e nel Vicino e Medio Oriente, in conseguenza
dei forti squilibri commerciali. Si è scritto, con preoccupazione,
che lintervento massiccio dei fondi sovrani sia una sorta
di statalizzazione trans-nazionale. A noi sembra la
conseguenza inevitabile della globalizzazione finanziaria, senza
la quale molte banche dovrebbero restringere ulteriormente il credito,
anche se lo storico Niall Ferguson, dellUniversità
di Harvard, ha evocato un parallelo inquietante tra gli Stati Uniti
di oggi e lImpero Ottomano dinizio Novecento, declinato
quando cedette la proprietà delle banche per pagare i propri
debiti.
Al di là del ciclo del credito, non vi è comunque
dubbio che lo sviluppo e la ricchezza stanno migrando in Asia e
nei Paesi emergenti, sospinti dalla demografia e dalla tecnologia.
Questa migrazione ha reso possibile un decennio di crescita senza
inflazione, grazie allofferta pressoché illimitata
di prodotti a basso prezzo. Ma chi aveva preconizzato che la Cina
avrebbe conquistato lOccidente con i prodotti, poi con i capitali
e infine con la politica, vede una conferma delle proprie previsioni.

Sicché il quadro è questo: gli Stati Uniti attualmente
mantengono unevidente primazia in termini economici e militari.
Ma un viaggio in Asia è più che sufficiente ad evidenziare
lo sviluppo di quellarea e della sua classe media, al di là
delle cifre che già collocano la Cina al secondo posto nella
classifica del prodotto lordo per Paesi, e che fanno prevedere grandi
balzi reali in avanti dellIndia e della Russia.
Allo stato delle cose, è senza dubbio troppo presto per valutare
la persistenza di queste tendenze e per capire quel che farà
lEuropa, nel mezzo di una grande trasformazione istituzionale,
ma ancora in cerca di una politica e di una vocazione economica.
In questo quadro, la risposta non può essere la chiusura,
ma una migliore integrazione e un più profondo adattamento
che faccia leva sui nostri punti di vantaggio.
Se questo è vero, gli ingredienti fondamentali di una buona
politica sembrano essere una maggiore libertà economica,
per adattare nella maniera più rapida il modello di specializzazione
senza le barriere che ancora esistono, e unefficiente protezione
sociale, per aiutare la classe media, marginalizzata dai grandi
cambiamenti.
Soltanto il tempo e una profonda comprensione dei fenomeni ci aiuteranno
a trovare una via di successo. Ci muoviamo in un mondo incerto,
dove tendenze simili a quelle che stiamo vivendo si sono a loro
volta arrestate (ricordate il periodo giapponese degli
anni Settanta e Ottanta?). Non ha senso, dunque, azzardare previsioni
a lungo termine. Solo una cosa si può dire con sicurezza:
il futuro non è più quello di una volta.
Sono trentanni che gli Stati Uniti vivono nella situazione
inedita di Paese-leader planetario, garante degli equilibri, come
lo fu la Gran Bretagna, ma con la differenza che è indebitato
con lestero. Ci sono 2.600 miliardi di dollari secondo i dati
ufficiali, 3.500 secondo altri calcoli, di squilibrio tra quanto
il resto del mondo deve agli Stati Uniti e quanto questi devono
al resto del mondo, misurando crediti, debiti e investimenti diretti.
Cioè, più o meno tra il 20 e il 30 per cento del Prodotto
interno lordo americano. Quando Londra si trovò in una situazione
analoga, dopo la Prima, e soprattutto dopo la Seconda guerra mondiale,
che la vide per la prima volta debitrice netta, per il ruolo internazionale
della sterlina fu la fine. La forza del dollaro è che per
ora cè solo un mezzo partner-rivale, leuro, mentre
manca un erede a pieno titolo. Ma quanto durerà?
Il tema del declino turba più di quanto amino ammetterlo
le visioni della classe dirigente americana. La visita del presidente
statunitense nel Golfo Persico, oltre che alla questione Iran, era
mirata a consolidare il legame dollaro-petrolio, che ormai da un
quarantennio ha sostituito quello dollaro-oro. I Paesi del Golfo
sono ancorati alla divisa americana da precisi accordi degli anni
Settanta. Il tema dibattuto negli appuntamenti più rilevanti
a livello internazionale è incentrato sui rischi finanziari
sistemici e sul dollaro come riserva monetaria globale, con le minacce
per la posizione geopolitica degli Stati Uniti e lanticipazione
della fine di un periodo egemonico nella storia economica planetaria.
I conti con lestero americani, con il deficit che incrementa
il debito, sono negativi dal 1981. Interrotta a metà anni
Ottanta, la discesa è ripresa con gli anni Novanta, nonostante
il risanamento allora del deficit federale, ed è peggiorata
con il 2000; e neppure il calo del dollaro, avviato nel 2002, è
riuscito con il miglioramento delle voci commerciali (nerbo delle
partite correnti) ad arrestarla. Nei conti con lestero, le
partite correnti misurano, in definitiva, la differenza tra quanto
i residenti di un Paese producono e guadagnano, e quanto spendono.
E quindi, come è stato ampiamente dimostrato da anni, il
Paese del dollaro sta vivendo non al di sopra dei propri mezzi,
che restano enormi, ma certamente al di sopra dei propri guadagni.
Cè una componente di tipico ottimismo americano in
tutto questo. Quello delle partite correnti è un concetto
senza senso, dichiarava nel 2002 lallora ministro
del Tesoro, emulato successivamente da tutti i responsabili delleconomia
e della finanza americani. La linea era: tutti portano capitali
negli Stati Uniti, e questa è una forza. Ignoravano che,
oltre che una forza, era anche una droga. Al capo della Federal
Reserve del tempo, Alan Greenspan, viene attribuita tra laltro
la responsabilità di aver sottoscritto di fatto la teoria
secondo cui il crollo della propensione al risparmio degli americani
non era un problema, perché cera il mondo intero desideroso
di investire i propri risparmi negli Stati Uniti. A quale costo,
e con quale servizio del debito, contratto molto più per
consumi e per spese militari, tra laltro, che per investimenti?
La crisi dei subprime ha costretto ad ammettere che la nuova finanza
non fa buoni bilanci, decisamente ancorati a regole vecchie. E lindebitamento
degli Stati Uniti, causa prima della debolezza del dollaro, conferma
che quello delle partite correnti e dei conti esteri non è
un concetto superato. Sono debiti in proporzione sostenibili,
non allinfinito, per uneconomia subalterna, ma corrosivi
per la nazione-leader. Che non può più essere il lender
of last resort.

Le cose da fare, dunque, sono molte e molto impegnative. E lobiettivo
di fondo resta uno: riportare la propensione al risparmio del sistema
americano a livelli decenti. Ormai, con la crisi bancaria, una Federal
Reserve che abbassa i tassi per salvare il sistema e dimentica forzatamente
i rischi inflazionistici, con il dollaro sempre più debole
nei confronti delleuro, luscita con un soft landing
dagli squilibri finanziari e monetari forse è persa. Ma un
buon Presidente, il nuovo Presidente, può fare la differenza
tra un hard landing e un very hard landing pessimo per tutti.
A latere, ma non più di tanto, va sottolineato che il premier
britannico Gordon Brown, in una riunione di Business for Europe,
unorganizzazione di uomini daffari doltre Manica,
ha sostenuto che «lUnione europea è essenziale
per il commercio delle imprese inglesi». Data la crisi del
sistema bancario americano, e data la difficoltà di esportare
nel mondo del dollaro, Brown sta cercando un maggior legame con
larea delleuro, contaminata in misura secondaria dal
problema dei mutui immobiliari subprime, e tuttora in fase di crescita,
sia pure vischiosa, avendo iniziato in ritardo il proprio ciclo
di espansione economica.
A questo punto, la Gran Bretagna si deve decidere: o entra nellarea
delleuro e ne condivide benefici e dolori, accettando le regole
del gioco e il dominio della filosofia della Banca centrale europea,
assieme agli altri Paesi dellUe, oppure ne rimane fuori, e
condivide con la Federal Reserve i problemi dellarea del dollaro,
da cui negli anni passati ha tratto grandi benefici, grazie al boom
delleconomia e della finanza americane. Tertium non datur.
Le furbizie e i vizi che gli inglesi spesso e volentieri addebitano
a noi, ora sembrano essere cosa loro. E ciò riguarda, in
particolare, i problemi maggiori che nellimmediato Londra
deve affrontare: quelli della finanza bancaria, per loro particolarmente
importante.
Leconomista Francesco Forte cita un esempio emblematico. Dice:
la grande banca di credito immobiliare Northern Rock, che è
andata sullorlo del dissesto, avendo fatto indigestione di
mutui immobiliari Usa subprime in aggiunta ad unanaloga, spericolata
espansione di mutui inglesi, è stata temporaneamente salvata
dalla Boe, la Banca centrale britannica, che ha preso in carico
prodotti finanziari di bassa qualità della Northern. Ora
la banca inglese sta cercando di trovare dei compratori di una parte
dei suoi crediti, oppure uniniezione di liquidità,
mediante un aumento di capitale, che avverrebbe a quotazioni che
riflettono il cattivo stato della compagnia.
Si è aperta, così, una guerra fra i risparmiatori,
che sono favorevoli a tale operazione, in quanto diversamente possono
perdere una parte dei loro depositi, e gli azionisti, che non gradiscono
una diluizione delle proprie quote di capitale sociale. Per venir
fuori dallimpasse, Brown non ha saputo o potuto proporre altro
che la statizzazione della banca.
Una soluzione, questa, con oneri per la Banca centrale, che avrebbe
fatto inorridire Margaret Thatcher. Se lItalia immaginasse
unoperazione di salvataggio di questo genere, lEconomist
e il Financial Times ci rivolgerebbero critiche impietose, e Bruxelles
ci censurerebbe in modo aspro. Resta da vedere se, una volta o laltra,
i giornali inglesi faranno uso della loro sobria (?!) ironia, ora
che si tratta di made in Britain.
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