Si deve capire che questa malattia, questo aspetto
chiave della realtà che ci circonda
è grave al Sud,
ma sta invadendo
lintera Penisola.
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Mozzarelle e immondizia
parlano dialetti meridionali. Le prime sono protagoniste loro malgrado,
vittime della seconda, la sporcizia che buttera Napoli e altre città
campane; ma è anche tirata in ballo con intenti potenzialmente
eversivi da Paesi che tollerati per complicità non
disinteressate fanno scempio della correttezza produttiva
e commerciale. Come la Cina, tanto per fare lesempio più
calzante. Ma anche come per altre attività
i Paesi dellEuropa del Nord, il cui cinismo comportamentale
travalica ogni limite di civile decenza. E ci spieghiamo.
La Cina, che non ha mai acquistato un solo chilo di mozzarelle italiane,
ha reso noto che «limportazione di mozzarelle di bufala
campane è stata vietata» da quei galantuomini che imperano
a Pechino. Perché questa messinscena? Per ritorsione nei
confronti dellItalia, che sta attuando una politica sempre
più rigorosa di controlli dei prodotti provenienti dalla
Cina, contraffatti, e dunque dannosi per le nostre imprese, e pericolosi
per la salute. Dunque: la capziosa messa in mora della mozzarella
come avvertimento politico-mafioso da parte di un sistema produttivo,
quello cinese, che progetta la proliferazione delle Chinatowns ovunque
giungano i tentacoli del commercio illegale, con particolare preferenza,
attualmente, per lItalia.
È noto che il cosiddetto quarto capitalismo manifatturiero
italiano, fatto da 4.000 medie imprese e da poche centinaia di grandi
imprese fino a 2 miliardi di euro di fatturato, ormai produce da
solo un Prodotto interno lordo superiore a quello dellintera
industria svedese. Inoltre i distretti industriali, dopo che sono
rientrati scetticismi e critiche sbrigative avanzate nei loro confronti,
ora appaiono complessivamente in recupero: il loro export aggregato
lo scorso anno ha toccato un nuovo massimo storico, con tassi di
crescita, in moltissimi casi, a due cifre.
Il gioco dattacco, tuttavia, non deve farci trascurare quello
di difesa, per contrastare concorrenze sleali e contraffazioni.
Tre episodi, per capire. Il primo: forse pochi sanno che sul sito
della Commissione europea da qualche tempo è comparso un
Libro Verde, intitolato Gli strumenti europei di difesa commerciale
in uneconomia globale in mutamento. Datato dicembre 2006,
il testo la dice lunga sulla gran forza hobbistica esercitata sugli
ambienti della Commissione dagli importatori del Nord Europa e dalle
grandi multinazionali che hanno pesantemente delocalizzato allestero.
Infatti, nel Libro si pretende di dimostrare che il vero interesse
dellEuropa non è più quello dei prodotti europei,
ma di chi ha delocalizzato, e che quindi non sarebbe più
giusto applicare sanzioni e dazi antidumping contro Paesi che pure
ci fanno concorrenza sleale, perché così si rischierebbe
di danneggiare anche aziende europee. Questo sfacciato approccio
antimanifatturiero danneggia fortemente lItalia
e la sua parte più debole, il Sud. Luna e laltro,
infatti, sono aree che nei settori tipici del made in Italy
realizzano ogni anno un surplus commerciale di oltre 100 miliardi
di dollari, evidentemente fatto da imprese industriali, agricole,
artigianali che producono, creano posti di lavoro e pagano le tasse
entro i nostri confini, e non allestero.

Secondo episodio. È di gennaio la notizia che in Cina è
stata bloccata la vendita di parecchi prodotti griffati, tra cui
quelli di grandi aziende italiane come Armani, Zegna, Max Mara
,
in quanto ritenuti non conformi alle normative cinesi sulla salute,
ligiene e la sicurezza! Questa storia ha dellincredibile,
ove si pensi con quanta leggerezza invece lEuropa tolleri
lingresso nellUe di prodotti cinesi non solo in palese
dumping, ma anche non rispondenti, essi sì, agli standard
europei.
Per di più, lEuropa da anni tergiversa sullintroduzione
dellobbligatorietà del marchio di origine sui prodotti
importati, bloccata dai soliti arcinoti Paesi nordeuropei: il Vecchio
Continente è perciò lunica area al mondo in
cui i consumatori non possono conoscere il territorio in cui sono
stati fabbricati i prodotti che importano.
Un ultimo episodio, diciamo così, italiano su estero.
Una nostra media impresa, una delle 4.000 censite da Mediobanca/Unioncamere,
lotta da sola in Perù contro limport selvaggio dalla
Cina di valvole e rubinetti contraffatti. Lo scorso anno, tanto
per dire, ne sono arrivati un milione di pezzi. Pochi gli aiuti
che questimpresa, che in quel Paese sudamericano è
leader di mercato per quei prodotti, ha avuto dallItalia,
mentre laggressiva diplomazia cinese ha fatto sentire tutto
il suo peso. Tuttavia, i proprietari dellimpresa, spendendo
ingenti risorse in processi, fanno bloccare merci e container alle
dogane, tutelando in parecchi casi il proprio marchio. Ma nulla
hanno potuto contro la pretesa di aziende cinesi di registrare in
Perù marchi contenenti la parola Italia (come, ad esempio,
Walitaly), che beffa oltre al danno serve
soltanto a confondere le idee dei clienti.
Sarebbe ora, dunque, di parlare di questi problemi delle aziende,
e di risolverli, nella speranza che il loro numero raddoppi entro
un decennio, con una maggiore diffusione al Sud. Perché se
lasciamo sole queste imprese, contro le potenti lobby degli importatori
e contro la pirateria senza scrupoli dei Paesi emergenti, rischiamo
di vederle diminuire, anziché crescere.
(Per quel che riguarda la Ue, poi, abbiamo buoni motivi per ritenere
che non nutre buoni sentimenti nei confronti dellItalia. Va
bene che abbiamo perso la guerra ma lha persa anche
la Germania, che tuttavia si vuole locomotiva dellEuropa;
e dice di averla vinta la Francia, mentre si potrebbe obiettare
che lhanno vinta altri per costei. Ma che pur tenendo
conto di qualche magagna consumata da noi si continui ad
attaccare tutto ciò che è nostro prodotto, di altissima
qualità, di splendido gusto, di fama planetaria, come
ad esempio, oltre alla mozzarella lolio, il vino, vari
formaggi, compreso quello splendido di fossa, la bresaola,
i pomodori, e chi più ne ha più ne metta, è
la riprova dellatavica, livorosa invidia di gallo-celtici
e teutonici nei confronti della cultura e della civiltà gastronomica
italiana).
Limmondizia, poi. Domanda per far capire: chi non ha voluto
uno, che fosse uno solo, termovalorizzatore? Chi ha marciato contro?
Chi ha firmato interrogazioni parlamentari? Chi si è scontrato
con la polizia? Tutti. E tutti i partenopei e campani generosi produttori
di montagne di immondizie. E poi i no global e Greenpeace. Sindaci
e parlamentari di destra, di centro e di sinistra. Il ministro delle
Infrastrutture e il ministro dellAmbiente del governo precedente.
I Verdi e il Codacons. E una gran camurria di pensionati, di costruttori,
di ex partigiani, di mutilati e invalidi di guerra, di ex combattenti,
di ex-e-neo-disoccupati più o meno organizzati. E limmancabile
previtocciolo don Vitaliano della Sala, giunto in trincea insieme
con il leader dei Disobbedienti, Francesco Caruso. E Padre Alex
Zanotelli, il missionario comboniano controcorrente per partito
preso, per di più in sciopero della fame. E il vescovo di
Acerra, monsignor Rinaldi, autore di un testo letto di domenica
in tutte le chiese della diocesi. Evidentemente, dietro il termovalorizzatore
cera la coda del diavolo!
Infine, grazie al cielo, sopraggiunse a Pomigliano dArco Beppe
Grillo, il quale non aveva ancora iniziato la stagione dei vaffa!,
e dunque poté spiegare ai colti e alle inclite che si poteva
fare uno stupendo museo del pattume: era sufficiente portare tutta
la spazzatura sotto una gigantesca campana di vetro, in modo che
fosse «studiata dalla gente che arriva da tutto il mondo».
Il museo, in effetti, è nato. Senza la campana, però.
A cielo aperto. Visibile gratis, a occhio nudo e a naso turato.
Ci fu unepoca in cui tre sindaci, (Bassolino-Cacciari-Rutelli),
emblemi progressisti del Sud, del Nord e del Centro, si presentarono
come il nuovo modello di unItalia in grado di legittimare
un progetto di futuro immaginato da gran tempo.
Qual è, oggi, il bilancio di queste tre bandiere?
Cacciari non ha fallito più di tanto, nel senso che Venezia
è sempre Venezia, ma il sogno di un socialismo moderno e
mitteleuropeo, di una macroregione al di sopra dei confini storici,
il sogno municipale della continuità con il vecchio Impero
absburgico, è colato a picco in laguna.
Nella Città Eterna il mandato di un sindaco, successivamente
ritornato a battersi per il Campidoglio, è ricordato come
un governo di routine, tanto velleitario nei propositi quanto modesto
nei risultati.
E Bassolino? Rimasto lì, supponente, insieme con la sindachessa
di Napoli: luno e laltra in cima al karakorum
di pattume che ha affondato una delle più antiche e nobili
capitali dEuropa nellinfezione e nel disgusto, con un
micidiale sperpero di risorse pubbliche che hanno arricchito il
malaffare, e con le loro promesse e con le illusioni della gente
finite nella bolgia delle discariche.

Detto questo, non è vero che i vertici politici siano i
soli responsabili del malgoverno locale. Quando questo si protrae
per anni e anni come nel caso di Napoli la causa di
fondo sta nella generale complicità, nella connivenza della
cosiddetta società civile, vale a dire di quel
mondo di professionisti, imprenditori, professori, giornalisti,
magistrati, che sebbene dotati delle risorse culturali, economiche
o istituzionali per condizionare e influenzare le scelte pubbliche,
hanno preferito per troppo tempo guardare altrove, fingere di non
vedere e di non sentire.
Raffaele La Capria è convinto che la colpa della vicenda
dei rifiuti ricada anche sui napoletani. Ma i napoletani
che potevano intervenire e non lo hanno fatto non sono quelli della
Napoli popolare, privi di qualsiasi risorsa dinfluenza. Sono
coloro i quali appartengono alla classe borghese, cioè alla
città che conta, come ha scritto Giuseppe Galasso,
uno dei pochi a puntare lindice nella direzione giusta. Dovera
la cosiddetta società civile? Molto probabilmente,
era impaniata in una tela di ragno di complicità. Mettersi
predittivamente contro il presidente della Regione o il sindaco
o il commissario governativo di turno? Stigmatizzare per tempo,
pubblicamente, i giganteschi errori compiuti? Nella migliore delle
ipotesi avrebbe significato dover rinunciare alla presenza nei salotti
che contano, essere esclusi dagli appuntamenti mondani, vedersi
emarginati, rischiare lostracismo sociale, magari anche con
la perdita di qualche buon affare!
Sostiene Angelo Panebianco che il vero grande dramma del Mezzogiorno
è tutto e sempre lì, nella mancanza di una vera società
civile, «sufficientemente forte e autonoma dal potere politico
locale per poter svolgere unazione di controllo e di contrasto.
I ceti borghesi meridionali sono, da sempre, troppo dipendenti dal
potere politico locale. È ciò che rende impossibile
spezzare il circolo vizioso del clientelismo, del malaffare e del
disprezzo per linteresse pubblico. I politici non hanno bisogno
di rigar dritto perché quelli che, in teoria, dovrebbero
possedere le risorse necessarie per sanzionarli sono, a grande maggioranza,
ridotti allo stato di conniventi».
In altre parole: in un Paese come il nostro, con forti tradizioni
stataliste, connivenze dei borghesi con il potere pubblico locale
(come il clientelismo) si danno dappertutto, al Nord come al Sud.
Ma è una questione di proporzioni differenti. Al Nord le
componenti borghesi (professionali, imprenditoriali, intellettuali),
abbastanza autonome dal potere politico, sono più forti.
Si conferma la regola: senza una società civile che eserciti
influenza e controllo, la democrazia locale funziona malissimo,
può anche «trasformarsi in una tragica e penosa farsa».
Il lamento di Raffaele La Capria. Mai dice lo scrittore
Napoli si è sentita più giudicata e disprezzata come
ora. Se la prendono con i napoletani perché sono come sono.
Perché a Napoli le cose non sono mai cambiate nei secoli,
mentre altrove sono cambiate. Perché Napoli è un destino.
Forse un destino no, ma una storia pesante sì. Tutto il Meridione,
dai Bizantini in poi, ha patito questa storia.
Dice ancora La Capria : «Lo aveva percepito George Gissing
viaggiando in Calabria, quando sentì venire dai campi il
canto malinconico di un contadino, una nenia simile a un lamento
che gli arrivò diritta al cuore e gli dettò queste
parole : Razze brute si sono gettate luna dopo laltra
su questa terra dolce e luminosa; la sottomissione e la schiavitù
sono state attraverso i secoli il destino di questo popolo. Dovunque
si cammina si calpesta sempre terreno che è stato inzuppato
di sangue. Un dolore immemorabile risuona anche attraverso le note
dei loro canti. È un paese stanco, pieno di rimpianti, che
guarda indietro attraverso le cose del passato; perduto nella vita
presente e incapace di sperare sinceramente nel futuro
».
È legittimo condannare i dirigenti dellItalia,
sostiene Gissing quelli che plasmano la vita politica, caricandola
di pesi insopportabili. Ma è segno di volgarità disprezzare
la gente semplice.
Oggi riprende La Capria dopo tutto ciò che
è accaduto nelle regioni meridionali, una simile disposizione
danimo è un esercizio difficile, più di quanto
non fosse per Gissing o per Carlo Levi. Forse anche Comisso e la
Morante, Piovene o Pasolini «avrebbero qualche difficoltà
di fronte alla mondezza di questi giorni. Ma loro saprebbero bene
contro chi dirigere la loro irritazione, certo non contro linferiorità
dei napoletani, come fanno questi altri».
Secondo lo scrittore partenopeo, è difficile per una società
disastrata da una storia secolare di soprusi e da una politica come
quella attuale trovare al proprio interno gli anticorpi del cambiamento:
«Solo chi sa criticarsi riuscirà a trovarli, e credo
che i napoletani questa possibilità ce lhanno, culturalmente.
Ma sarà dura, finché le istituzioni saranno quelle
che sono. Tutte le critiche che oggi ci vengono rivolte, i napoletani
per primi da sempre le hanno avanzate, a partire da Vincenzo Cuoco
e a finire con Gomorra di Saviano. Ma se nessuno li ha mai ascoltati,
se la città che conta non ha mai risposto nel
modo giusto, se quelli che dovrebbero dare una mano sono essi stessi
corrotti e profittatori, che resta se non il diritto alla disperazione?».
Ma tornando alle ferite della storia, un parallelo sembra di rigore:
se a Napoli quelle ferite sono macroscopiche e visibili, e producono
le conseguenze che conosciamo, non è detto che lItalia
che accusa la capitale del Sud ne sia indenne. È vero, Napoli
appare come un problema irrisolvibile, si devono chiamare in causa
gli intellettuali, la società civile e la classe politica.
Napoli non sa uscire da se stessa, e ogni cosa che tenta finisce
nel peggio. Ma lirrisolvibile problema di Napoli si iscrive
allirrisolvibile problema italiano: quante volte lItalia
ha tentato di risollevare i suoi problemi, per diventare una nazione
moderna, alla pari con le altre società avanzate, e quante
volte cè stato un ostacolo, una fatalità, una
malattia, insomma qualcosa che lo ha impedito? Non si
deve chiamare in causa anche per lItalia la società
civile e la classe politica e i comportamenti che le contraddistinguono?
Non è vero anche per lItalia che non sa uscire da sé
dai propri vizi, dalle proprie abitudini e dai propri misteri?
Non è vero anche per lItalia che ogni cosa che tenta
finisce a mezza strada? Cosè, se non questa incapacità,
lanomalia italiana? Lirrisolvibilità del problema
italiano dovrebbe aiutarci a capire lirrisolvibilità
del problema Napoli. Certo, in questa città si presenta tutto
sotto aspetti più tragici perché più tragica
è stata la storia che le pesa addosso, e perché essa
anticipa sempre e rende più evidenti le deficienze del Paese.
Ma reagisce La Capria posso ribellarmi quando siamo
chiamati incivili da chi ci ha dato lesempio di Piazzale Loreto?
I napoletani sanno meglio dei loro censori cosa ha ridotto Napoli
nello stato in cui è: «È una colpa nostra iscritta
nella colpa italiana».
Le polemiche e le omissioni. Pasquale Squitieri apre le ostilità:
«La Capria, sul Corriere della Sera, scrivendo Cari
napoletani, colpa anche nostra, esordisce con un Io
non so che sembra parafrasare Pasolini. E prosegue: Io
non so, non capisco, eppure vorrei sapere, per scrivere, per far
sentire il mio cordoglio per quel che avviene a Napoli, perché,
pur non vivendo a Napoli da più di mezzo secolo, Napoli fa
parte di me
».
Pasolini ribatte il regista era stato intellettualmente
più onesto. «Io so, aveva premesso io so, e dico, denuncio,
scrivo. Io, che sono ritenuto il maggior romanziere del 900.
Io, napoletano ferito a morte. Io, che devo tutto alle
mie radici napoletane. Io non posso non sapere. Io non posso non
denunciare
Io sono Raffaele La Capria. Io ho la prima pagina
del maggior quotidiano nazionale, quando voglio e per dire quello
che voglio. Io non cero, e se cero, dormivo.
No, caro La Capria. Tu non vivi a Milano da molto più di
mezzo secolo. Eppure, scrivi di Milano. E tanto meno a New York,
eppure scrivi della Grande Mela
Comodamente avvolto
nelle pagine di un capolavoro rivolgevi il tuo sguardo sorpreso
e annoiato a quello stesso luridume che ti aveva ispirato. Come
è stato possibile?, ti chiedi. Tu, che nel 1963 con
Francesco Rosi scrivevi Le mani sulla città? Tu non sai?
A quel tempo sapevi, perché i nemici erano Lauro e la Democrazia
Cristiana. Qui gli uomini vivono dannati in una feroce tristezza,
scriveva Luigi Compagnone sulla tua stessa rivista, Sud
Un
intellettuale della diaspora, diranno di te, affiancandoti a tutti
gli altri intellettuali fuggiti da Napoli. Da te, di
cui amo ogni scritto, mi sarei aspettato che un giorno, con la violenza
che la tua autorità ti consente, avessi afferrato per il
bavero il Bassolino di turno e gli avessi urlato: Vergogna!.
Invece, cinquantanni dopo, non sai che dire: Io non
so!».
La magistratura, poi, con le accuse roventi di Lino Jannuzzi, rimaste
senza alcuna smentita o contestazione. Jannuzzi esordisce sostenendo
che quella napoletana «ha gravi responsabilità storiche
per i ritardi e le insufficienze della classe dirigente meridionale,
causa prima e fondamentale dellarretratezza e del declino
del Mezzogiorno». E prosegue: fascista durante il regime,
democristiana e succube e corriva con la peggiore democristianeria
al momento del crollo della Prima repubblica, ha contribuito in
maniera decisiva allattuale sfacelo, tra le montagne di immondizia
e il fiume di sangue della camorra, di Napoli e dintorni.
Citazione di dati storici: «Falsificarono le prove, strumentalizzando
il primo falso pentito della storia del pentitismo,
per mettere in scena lo spettacolare processo Cuocolo, di cui si
vergognò persino Benito Mussolini, che fece in modo di scarcerare
alla chetichella gli ingiustamente condannati. Lhanno rifatto
negli anni 80 con il processo a Enzo Tortora, condannando
senza prove e uccidendo di cancro il presentatore tv, e con la spettacolare
retata che avrebbe dovuto distruggere la camorra, più di
800 mandati di cattura, più di 600 arrestati, più
di 100 arrestati per sbaglio, per omonimia, di cui lultimo
è stato dimenticato in galera per 3 anni, e più di
400 sono risultati alla fine assolti. Dopo esserne stati complici
nelle peggiori degenerazioni per cinquantanni, hanno liquidato
in un colpo solo i partiti della Prima Repubblica [...] e tutta
la classe dirigente faticosamente formatasi nel dopoguerra [...].
E dopo la pulizia giudiziaria non cè mai
stata a Napoli tanta monnezza e tanta camorra
».
Eppure, un po dovunque in Italia le inchieste non sono mancate.
Re Mida, Humus, Greenland, Murgia Violata, Cassiopea: sono i nomi
di azioni giudiziarie che hanno fatto luce nellultimo decennio
sullimmenso giro daffari del ciclo illegale dei rifiuti,
con informazioni preziose per capire come sia possibile, in un Paese
moderno, che una delle nostre principali aree metropolitane
affoghi nella spazzatura.
Dalle osservazioni degli investigatori sono emerse due Campanie.
La prima. Questa terra è stata a lungo il terminale tirrenico
di un flusso incontrollato di rifiuti industriali provenienti dal
Centro-Nord, lo stesso che poi ha chiuso le sue discariche allemergenza
campana. Il territorio saturo di rifiuti viene da lontano e racconta
una storia non edificante che riguarda lintera comunità
nazionale. Il ciclo illegale dei rifiuti è un business affinato
negli ultimi due o tre lustri. Buttiamoci sulla spazzatura, affermava
un capocosca in unintercettazione: «Trasi munnizzi e
ni esci oru».
Ma la malavita è solo lultimo anello di una catena
legata inestricabilmente alleconomia legale. Secondo il Comando
tutela ambiente dei Carabinieri e Legambiente, almeno 12-14 milioni
di tonnellate spariscono ogni anno nel nulla, cioè al di
fuori del circuito legale di smaltimento: una montagna alta 1.500
metri, con una base di 3 ettari, per un giro daffari stimato
(1993-2002) nellordine di 27 miliardi di euro. Lo smaltimento
abusivo costa fino all80 per cento in meno rispetto a quello
legale. Grazie alle grandi quantità trattate, la malavita
si accontenta di margini ristretti. Il resto è sconto per
i produttori, con effetti paragonabili al taglio del 10 per cento
dellIrap.
La seconda. La Campania, metafora o specchio del Sud, e non solo
del Sud, è quel che è, per il deficit decisionale
che è il contesto allinterno del quale per molto tempo
i governi nazionali hanno ritenuto di non dover affrontare la questione
dellassenza di un ciclo integrato dei rifiuti e dei relativi
impianti industriali, lasciando incancrenire la situazione. E ciò,
come sostiene Roberto Barbieri, presidente della Commissione
parlamentare dinchiesta sul ciclo dei rifiuti e sulle attività
illecite ad esso connesse, con il contributo della politica
locale, che pure ha deciso, ma di fare dellemergenza rifiuti
uno strumento originale di intermediazione clientelare. Scrive Barbieri
a proposito dei metodi seguiti nel gestire i fondi pubblici: «Oggi,
per la classe politica locale, assistere alla fine tragica del consenso,
morto annegato tra i rifiuti, assume i caratteri di un vero e proprio
contrappasso dantesco».

La storia comincia nel 1994. Da allora, mentre in Lombardia si
costruivano 13 termovalorizzatori, in Campania si metteva su un
Commissariato che di straordinario aveva solo i compensi e le consulenze,
si aprivano consorzi destinati spesso a realizzare joint ventures
con la camorra, si realizzavano impianti di compostaggio dei rifiuti
(cdr) che in realtà non facevano altro che imballare pattume,
si discuteva sullimpatto sanitario di un termovalorizzatore
che non era neppure ultimato. Così, accanto al percolato
che intanto discariche mal gestite vomitavano sui terreni, ammorbando
laria e intossicando le acque, questo maneggio improprio di
risorse pubbliche lasciava trasudare ciò che pudicamente
è stato definito magma: in realtà, un impasto melmoso
di burocrazia inefficiente, di politica clientelare, di malaffare
criminale.
Certo ribadisce il presidente della Commissione la
cultura nazionale dellincapacità decisionale non poteva
che allargarsi anche alla classe dirigente della Campania: «Fatto
sta però che qui il fenomeno si è esplicitato in modo
più intenso. Non solo, infatti, si è governato senza
decidere; non solo si è governato senza rispettare gli scopi
cui erano destinate le risorse; ma, soprattutto, lo si è
fatto nella ricerca ideologica del consenso di tutti, preferendo
la strada deresponsabilizzante dellunanimismo a quella ben
più impegnativa delle scelte anche a maggioranza, confondendo
il bene comune con gli interessi di ognuno».
Quegli stessi interessi particolaristici che hanno condizionato,
significativamente, anche la gestione dei fondi europei: fondi che
molto di rado sono stati impiegati per investimenti di lungo respiro,
e più spesso, invece, per accudire lavoratori socialmente
utili e imprese parassitarie senza futuro, trasformando tematicamente
la spesa pubblica in conto capitale in spesa pubblica corrente.
Perché proprio in Campania? Risponde Barbieri: «Perché,
in buona sostanza, si è pensato di poter fare delle risorse
destinate allemergenza rifiuti quel che si era fatto e si
faceva dei fondi europei. Senza rendersi conto del peso, incomparabilmente
diverso, delle conseguenze. E infatti, se si impiegano male i fondi
europei, non ci sarà sviluppo economico: non fa piacere,
certo, rinunciare a prospettive di ricchezza, ma, come si dice,
se cè la salute
Ebbene, spendendo i soldi destinati
ai rifiuti per altro, è anche la salute che comincia a vacillare!
Ma vi è di più. Aver trasformato strade e piazze in
discariche e inceneritori a cielo aperto significa aver precluso
laccesso a quei naturali luoghi dincontro che sono gli
spazi pubblici di una città, condannando i cittadini a chiudersi
in casa: un isolamento forzato che è la fotografia di un
distacco ormai anche fisico fra comunità civile e istituzioni».
Altro che nuovo Rinascimento o nuovo Risorgimento
per Napoli, quale venne conclamato imprudentemente quando furono
eletti Sindachessa e consiglieri della città, Presidente
e giunta della Regione! Era un auspicio, certo. O la speranza di
un auspicio. Solo che in un Paese normale una speranza, al massimo,
può trasformarsi in una delusione. Da noi, è stata
trasformata in una disfatta economica e in una vergogna planetaria.
Come organizzare una risposta alla sfiducia che soprattutto
dopo la vicenda partenopea si è consolidata nei confronti
del Sud? Domanda che sottintende unaltra, gravissima: come
fermare la disgregazione sociale e politica che sta attaccando anche
le zone più coese dellItalia? Un lungo elenco di intellettuali
meridionali (e non solo meridionali) ha puntato lindice su
questa malattia, che ad un certo punto si è trasformata ed
è stata chiamata assistenzialismo (clientelismo,
corporativismo, corruzione), che in seguito fu negata e nascosta
proditoriamente sotto le vesti delle varie emergenze
meridionali, ancora oggi indicate come conseguente pericolo di frana
(cedimento, smottamento, slavina, valanga, crollo) cui sta andando
incontro il nostro Paese.
Sistematicamente inascoltati, i meridionali più avvertiti
per molti anni hanno cercato di sostenere come asse centrale del
risanamento e dello sviluppo del Sud la causa delloccupazione
privata nelle piccole e medie imprese (magari in clusters, sistemi
locali e distretti; magari basata su nuove tecnologie, trasferimenti
tecnologici, economia della conoscenza; magari parte di circuiti
virtuosi che creano multinazionali tascabili e che, così
facendo, consentono di incrementare la buona occupazione).
Si deve iniziare capendo che questa malattia, questo aspetto-chiave
della realtà che ci circonda è grave al Mezzogiorno,
ma motu proprio e per contagio sta invadendo lintera
Penisola. Lo si intravede, ad esempio, nella bramosia con cui nel
Nord si guarda al privilegio relativo delle Regioni di confine (soprattutto
a quello del Trentino-Alto Adige), con annesse grandi manovre per
accedervi. Lo si tocca con mano col populismo leghista, ma anche
in numerosi sintomi sociali, un tempo impensabili, che si fanno
avanti nelle cosiddette Regioni rosse. Sicché il desiderio
di tanti meridionali di accreditare lidea del così
fan tutti è in realtà speculare a quello di
molti settentrionali di tirarsi fuori, o addirittura
di buttare a mare il Sud.
Questo sentimento, e quello meridionale di portarci anche il Nord
(allinferno), hanno una bruttissima cera, trasudano irresponsabilità,
fanno parte di un assurdo eccesso di panico, di un si salvi
chi può che rischia di trascinare effettivamente tutti
a fondo, visto che bene o male remiamo sulla stessa barca.
Anche per questi motivi, o soprattutto per questi motivi, la distanza
tra il senso civico degli italiani e quello dei partners europei
sta raggiungendo livelli imbarazzanti. E sotto il profilo economico,
non è la struttura industriale italiana a causare le difficoltà
sociali, ma al contrario, è la disintegrazione sociale ad
appesantire e a condizionare lo sviluppo della nostra industria.
Questo non può generare ottimismo sulle prospettive dellindustria
italiana e meridionale, ma pessimismo sul futuro sociale e politico
del nostro Paese.
È un campanello dallarme che va ascoltato e che deve
spingere i meridionali ad agire (col pensiero, con lazione),
nel tentativo concreto di dare un contributo decisivo al risanamento
e al rilancio, rovesciando filosofie e comportamenti, pigrizie mentali
e consuetudini, e decidendo una volta per tutte di abbandonare la
sfera dellarretratezza e di irrompere nei tempi moderni.
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