Giugno 2008

Il corsivo

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Il male oscuro
Aldo Bello  
 
 

 

 

 

Se solo
si svegliasse un
attimo, l’Italia
vedrebbe le cose come sono:
non il Paradiso
ma gli Inferni che prepariamo a figli e nipoti, se non
ci togliamo per tempo le bende
dagli occhi.

 

Da qualche parte dovremo pur cominciare a guardare la realtà sociale, economica e civile dell’Italia contemporanea, così come essa è. E chiederci, con un’onesta umiltà che oggi non è molto praticata dalla politica, dov’è che noi, classi dirigenti di questo nostro Paese, abbiamo sbagliato, se ci troviamo a fare i conti con questioni enormi e aggrovigliate che lacerano il tessuto civile, produttivo e persino democratico non soltanto del Mezzogiorno, ma di tutta l’Italia.
Negli anni Sessanta e Settanta, quello che ritenevamo fosse il meglio della Penisola – economia, industria, cultura, infrastrutture, solidarietà sociale – si cercava di trasferirlo al Sud.
Ai nostri giorni ritengo che stia accadendo l’opposto: il peggio del Mezzogiorno non solo umilia la migliore società meridionale, ma rischia di invadere l’Italia col degrado del senso civico, col sottrarsi a ogni responsabilità e senso del dovere, con l’uso spregiudicato delle istituzioni pubbliche per fini di potere e di arricchimento personale, con forme di tolleranza e di connivenza con gruppi malavitosi grandi e piccoli, tutti fenomeni ai quali lentamente ma inesorabilmente, forse nel nome di una fatale sindrome di Stoccolma, ci stiamo abituando.
Oggi, dopo decenni di colpevoli (e persino sprezzanti) silenzi, si torna a proporre aggiornamenti della riflessione sul Mezzogiorno, per la ricerca di strategie per la sua crescita, per la valorizzazione delle energie positive, indispensabili per una stagione di protagonismo della società civile, delle sue forze economiche, sociali e intellettuali, senza le quali il divario col resto del Paese è destinato ad allargarsi. E qui c’è forse una prima grande questione che è esclusivamente politica: rendere protagonisti e responsabili del loro futuro le classi dirigenti meridionali. Ma proposte del genere non possono non indurre a un certo pessimismo, perché fanno tornare alla mente le grandi, intelligenti, profonde discussioni sul Mezzogiorno, diventate cicliche, che comunque non sono riuscite a determinare lo scatto capace di vincere il fatalismo secolare, come giustificazione di una situazione sostanzialmente immutata.
È musica vecchia, con complemento di strategie lazzarone. Tanto più ora, nel momento in cui il confronto non si svolge più soltanto tra meridionalisti, non può sostenersi, senza essere irrisi, che la priorità economica e sociale sia costituita dalla “questione settentrionale”, e che i problemi del Sud si risolvono al Nord. Lo stato delle cose dovrebbe convincere tutti che sta nel take off, nel decollo del Mezzogiorno, la chiave per rafforzare l’intero sistema-Paese, che occorrono forme nuove di relazione tra le aree della Penisola, insieme con una nuova cultura dei diritti e dei doveri, con un nuovo rapporto tra politica ed economia, e tra cittadini e istituzioni, al di là di ricette che hanno fatto il loro tempo, e che hanno prodotto una classe dirigente che sta dando troppi segni di stanchezza, di inadeguatezza, di assuefazione, che – come in Campania – è votata inesorabilmente al fallimento.
Poniamo la questione in un modo diverso: qual è stata la collocazione che abbiamo dato alla cosiddetta “nuova questione meridionale” non solo nel dibattito politico e culturale di questi anni, ma anche nelle analisi sociali ed economiche? Una collocazione del tutto marginale. Poi, fulmineamente, i rifiuti partenopei e campani sono diventati un caso internazionale. Ma quanto tempo c’è voluto per accumularli, quanti anni di scelte sbagliate, di silenzi complici, di mortifere inefficienze, di carsiche omertà, di inganni, di truffe hanno reso possibile questa incancellabile vergogna? Ma il Sud è davvero «un paradiso abitato da diavoli», una terra colpita da un male oscuro per il quale non esistono né diagnosi né terapie?

Fu un amico fraterno, Vittore Fiore, a parlare (e a parlarci) per primo di Mezzogiorno agganciato all’Europa, e a lavorare in questa direzione col cuore e con le ragioni della sua cultura rivoluzionaria (nel senso del riformismo che può cambiare il volto di una regione, di un territorio anche vasto come il Sud). Il freddo egoismo della politica dualistica italiana fece naufragare il progetto. E oggi si inquadra il tema del distacco del Sud dal resto dell’Italia all’interno di una prospettiva sopranazionale, guardando cioè a quel che accade nell’area mediterranea e al protagonismo di tanti nuovi Paesi che vi si affacciano, e ad altri che in questo spicchio di mondo guardano con interessi e progetti. E si dimentica che è necessario soprattutto guardare agli effetti di quella globalizzazione perversa di cui ha scritto Saviano nel suo “Gomorra”.
Ma il tempo è inesorabile: o si riesce a stare con tempestività dentro le dinamiche dell’economia mondiale, spendendo bene la propria collocazione geopolitica, bonificando il territorio e la stessa economia da degenerazioni perverse ben note, oppure i ritardi segnalati (sempre con colpevole ritardo) riproporranno ancora una volta il Mezzogiorno come zavorra dell’Italia nel suo complesso. Questa è missione politica. Questa è autentica rivoluzione culturale, ben diversa dagli spropositi di quel pistola di capo padano della Lega, che straparla di armi imbracciate per difendere gli egoismi del Nord, e del capo dei redivivi indipendentisti siculi, che per emulazione malmostosa minaccia di scegliere anche lui il campo di battaglia. Dimenticando, questi due valorosi guerrieri del nulla, che tutt’al più potranno fare ricorso all’uso dei fucili a tappo.
È opinione diffusa che, quando gli italiani (e i loro politici) giungono al culmine della scontentezza di sé, guardano oltre le proprie frontiere e credono di scoprirvi straordinari modelli di governo e altrettanto straordinari uomini-guida da ammirare o corteggiare, da adorare o imitare. Attualmente sono alcuni personaggi che suscitano questi sentimenti, perché in tutti, o in molti, c’è voglia di nomi più che di programmi, di uomini forti più che di istituzioni durevoli. Emergono così le figure dei leader della Francia, della Germania o persino (ma con una maggiore cautela) della Spagna.
Ora, mettersi alla ricerca di esempi è un’attività che aiuta, a patto però di guardare da vicino i modelli che si inseguono e di provare a capire come funzionano e perché. È questo sguardo profondo che manca da noi: non solo a chi ci governa, ma anche alla maggior parte di coloro i quali nella società civile si occupano della cosa pubblica e la influenzano.
L’attrazione che proviamo verso le figure che primeggiano all’estero è un singolare miscuglio di esotismo e di invidia, e di quella che i latini chiamavano “incuriositas”. L’Italia è enormemente affascinata da quel che accade in Europa, ma a queste realtà esterne non guarda con autentico desiderio di immedesimarsi, con curiosità di sapere e di comprendere. L’estero ci ammalia, ma in modo del tutto frivolo e approssimativo: lo sforzo di conoscerlo davvero, di accumulare informazioni e fatti è debole perché è al tempo stesso strumentale ed effimero. In queste condizioni, gli esempi esterni sono inservibili, come lo sono le discussioni sui sistemi di governo altrui. L’Italia “incuriosa” non vede e non vuol vedere quel che fa la forza vera di un leader francese, tedesco o spagnolo. Se lo facesse con sincerità d’intenti, scoprirebbe che i muscoli in Francia non sono nel suo capo di governo, ma nelle istituzioni, e che quel che i francesi hanno (e che manca agli italiani) è una memoria vivissima dei propri errori passati: non solo quelli che risalgono alle guerre tra europei, ma anche quelli commessi nella democrazia post-bellica.

Le parole che Jean Monnet pronunciò a proposito dell’Europa valgono come regola di vita quotidiana della politica e spiegano anche il nascere della Quinta Repubblica: «L’esperienza di ciascun uomo è qualcosa che sempre ricomincia da capo. Solo le istituzioni sono capaci di divenire più sagge: esse accumulano l’esperienza collettiva, e da questa esperienza, da questa saggezza, gli uomini sottomessi alle stesse regole potranno vedere non già come la propria natura cambi, ma come il proprio comportamento si trasformi gradualmente». È soprattutto l’istituzione che assicura il progresso, e che dà efficacia e tempi lunghi alle individualità.
Discorso quasi analogo per la Germania, dove esistono una cultura della stabilità e un attaccamento a governi autorevoli, forti, le cui radici sono caparbie e resistenti. Anche in questo Paese c’è memoria vivissima di errori e peccati consumati in passato, sui quali i tedeschi hanno meditato a lungo, producendo la floridezza economica e la stabilità politica di cui si nutrono. C’è il ricordo di Weimar, con i suoi governi debolissimi e il peso abnorme esercitato da forze extraparlamentari. Ci sono anche alcune colpe stratificate negli anni della Repubblica federale, dal protagonismo di alcune forze politiche all’avidità di potere che permeava di sé singoli individui; ma si tratta di vizi che stanno nell’animo della gente come ammonimento propositivo, come confine non aggirabile. Come in Spagna, del resto, dove la memoria conta ed è un ingrediente ritenuto indispensabile perché il Paese si coniughi al futuro.
Allora non è vero che da noi c’è un’overdose di commemorazioni. La memoria, semmai, è troppo corta, e il nostro futuro è sempre incerto proprio perché abbiamo un insufficiente ricordo del passato. In Italia quello della memoria è un rito formale perché essa è cagionevole, svogliata, e – appunto – “incuriosa”. Noi abitiamo un Paese «senza memoria e senza verità», come scriveva Sciascia. Da noi le colpe antiche e recenti non sono riconosciute come colpe, dunque non c’è stata catarsi d’alcun tipo, perciò non esiste il ricambio di generazioni avvenuto altrove. Da errori e colpe si può venir fuori con l’uomo forte o con istituzioni e regole possenti, capaci di durare di più degli uomini e di assorbire cambi di generazione anche bruschi. Imboccare questa seconda via non trasforma certo la natura delle persone, ma – Jean Monnet aveva ragione – trasforma alla lunga i comportamenti, e gradualmente ci darà non uomini forti, ma uomini nuovi.
Il nascondimento della realtà è tentazione frequente nelle democrazie di oggi (nelle dittature è la norma): ne sono affetti Stati apparentemente forti come l’America o la Russia o la Cina, e regimi apparentemente decisionisti come la Francia o l’Inghilterra. L’illusione di poter fare da sé affligge tutti. E l’Italia possiede questa tentazione al sommo grado, tant’è che da noi non si discute di fatti ma di opinioni, che sono il vestito affabulatore fatto indossare al reale e all’irreale per confonderli meglio: non alla realtà e alla ragione ci si apre, ma al sonno dell’ideologia.
Una delle cose eccelse che ha detto Pascal nei “Pensieri” riguarda il nostro correre dissennato verso i precipizi. Non si tratta di un correre inerte, fatalistico: individualmente, l’inerzia ha una sua nobile tristezza. È un affrettarsi colmo d’attivismo, e di chiasso: «Noi corriamo senza preoccupazione nel precipizio, dopo aver messo qualcosa davanti a noi per impedirci di vederlo». Precisamente questo accade, nell’odierna corsa di tante democrazie. A cominciare dalla nostra. Si verifica con il posto dell’Italia nel mondo, non solo quando si parla di economia, ma anche di tenuta delle istituzioni, di giustizia, di diritti dell’uomo. Si verifica con il nostro passato lontano e recente.
Che cosa non si vuol vedere, della realtà e dei suoi precipizi? In primo luogo: la piccolezza cui sono ormai ridotti gli Stati-nazione, specie in un Paese – come il nostro – gravato da un debito che lo incatena con saldi ceppi all’impotenza. Ma la realtà che è urgente contemplare non è solo questa. È la debolezza delle nostre istituzioni, dell’imperio della legge, della giustizia. È il pallore mortale di una classe dirigente che non produce anticorpi pronti a sbarrare il cammino a chi fa politica privatizzandola e a chi sistematicamente non edifica ma distrugge.
Sono tante le cose che alacremente ci mettiamo davanti agli occhi per non vedere. È ancora Pascal che parla di chi «crede di vedere quel che non vede affatto», e dell’immaginazione come «maestra dell’errore». L’immaginazione senza rapporto con il reale non è meno deleteria dello spavento, e così come c’è una politica della paura, c’è anche una politica dell’immaginazione falsa, che inganna e svia. È il tipo di immaginazione che, come diceva Malebranche, spesso si tramuta in “folle du logis”: in donna folle che si chiude in casa, nel suo logis. La dittatura comunque esercitata è di questa pasta, presuntuosamente credendo di poter fare da sé.
Dell’immaginazione impazzita buona parte dell’Italia è malata, gravemente. Se solo si svegliasse un attimo, vedrebbe le cose come sono: non il Paradiso che desidereremmo, ma i disastri che conviene evitare e gli Inferni che prepariamo a figli e nipoti, se non ci togliamo per tempo le bende dagli occhi. Certo, è più facile mentire e far pagare il conto alle generazioni future. Ma il precipizio non cambia posto: è proprio della sua natura restare lì dov’è.
Metafora della legge del contrappasso, Aula Magna dell’Università del Kansas. 18 marzo 1968. Messaggio diffuso dal megafono: «Non troveremo mai un fine per la nazione né una nostra personale soddisfazione nel mero perseguimento del benessere economico, nell’ammassare senza fine beni terreni». Lamento di un prete di campagna? Pauperistico pensiero di uno spiritualista? No. Era un discorso di Bob Kennedy, pronunciato quarant’anni fa. Chi lo ha ascoltato? Quelli che avrebbero dovuto, erano troppo occupati a seguire i suggerimenti che suscita l’aforisma del più simpatico taccagno di tutti i tempi, Paperon de’ Paperoni: – Non c’è soltanto l’oro. C’è anche il platino! –.
Molti ritengono che l’orazione del giovane Kennedy sia stata e sia ancora di una tragica, disattesa attualità, e parlano di quarant’anni di colpevole indifferenza. Ma è davvero così?
Credo che l’Italia sia tra i pochi Paesi al mondo ad aver recepito in tutto il suo sintomatico concettualismo il messaggio venuto dall’antica “Nuova Frontiera” americana: il nostro Pil è pessimo; il Paese si è fatto mancare tutto ciò che poteva, spesso anche il necessario; ha mantenuto, secondo virtù, il nanismo industriale; francescanamente, ha alienato a favore di altri anche cervelli e idee; le dimensioni del debito pubblico dimostrano l’italianissima volontà di fuggire la ricchezza; non siamo ancora riusciti nell’impresa di dimostrare la relazione inversa tra Pil e felicità, ma basta che ci si dia un po’ di tempo… Importante è non demordere, e prima o poi proveremo a frenare ancora lo sviluppo del Paese, o, alla disperata, se questa parte di memoria storica non ci tradisce, almeno del suo Sud. Coraggio, la Storia continua!

 

   
   
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