Se solo
si svegliasse un
attimo, lItalia
vedrebbe le cose come sono:
non il Paradiso
ma gli Inferni che prepariamo a figli e nipoti, se non
ci togliamo per tempo le bende
dagli occhi.
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Da qualche parte dovremo pur cominciare a guardare la realtà
sociale, economica e civile dellItalia contemporanea, così
come essa è. E chiederci, con unonesta umiltà
che oggi non è molto praticata dalla politica, dovè
che noi, classi dirigenti di questo nostro Paese, abbiamo sbagliato,
se ci troviamo a fare i conti con questioni enormi e aggrovigliate
che lacerano il tessuto civile, produttivo e persino democratico
non soltanto del Mezzogiorno, ma di tutta lItalia.
Negli anni Sessanta e Settanta, quello che ritenevamo fosse il meglio
della Penisola economia, industria, cultura, infrastrutture,
solidarietà sociale si cercava di trasferirlo al Sud.
Ai nostri giorni ritengo che stia accadendo lopposto: il peggio
del Mezzogiorno non solo umilia la migliore società meridionale,
ma rischia di invadere lItalia col degrado del senso civico,
col sottrarsi a ogni responsabilità e senso del dovere, con
luso spregiudicato delle istituzioni pubbliche per fini di
potere e di arricchimento personale, con forme di tolleranza e di
connivenza con gruppi malavitosi grandi e piccoli, tutti fenomeni
ai quali lentamente ma inesorabilmente, forse nel nome di una fatale
sindrome di Stoccolma, ci stiamo abituando.
Oggi, dopo decenni di colpevoli (e persino sprezzanti) silenzi,
si torna a proporre aggiornamenti della riflessione sul Mezzogiorno,
per la ricerca di strategie per la sua crescita, per la valorizzazione
delle energie positive, indispensabili per una stagione di protagonismo
della società civile, delle sue forze economiche, sociali
e intellettuali, senza le quali il divario col resto del Paese è
destinato ad allargarsi. E qui cè forse una prima grande
questione che è esclusivamente politica: rendere protagonisti
e responsabili del loro futuro le classi dirigenti meridionali.
Ma proposte del genere non possono non indurre a un certo pessimismo,
perché fanno tornare alla mente le grandi, intelligenti,
profonde discussioni sul Mezzogiorno, diventate cicliche, che comunque
non sono riuscite a determinare lo scatto capace di vincere il fatalismo
secolare, come giustificazione di una situazione sostanzialmente
immutata.
È musica vecchia, con complemento di strategie lazzarone.
Tanto più ora, nel momento in cui il confronto non si svolge
più soltanto tra meridionalisti, non può sostenersi,
senza essere irrisi, che la priorità economica e sociale
sia costituita dalla questione settentrionale, e che
i problemi del Sud si risolvono al Nord. Lo stato delle cose dovrebbe
convincere tutti che sta nel take off, nel decollo del Mezzogiorno,
la chiave per rafforzare lintero sistema-Paese, che occorrono
forme nuove di relazione tra le aree della Penisola, insieme con
una nuova cultura dei diritti e dei doveri, con un nuovo rapporto
tra politica ed economia, e tra cittadini e istituzioni, al di là
di ricette che hanno fatto il loro tempo, e che hanno prodotto una
classe dirigente che sta dando troppi segni di stanchezza, di inadeguatezza,
di assuefazione, che come in Campania è votata
inesorabilmente al fallimento.
Poniamo la questione in un modo diverso: qual è stata la
collocazione che abbiamo dato alla cosiddetta nuova questione
meridionale non solo nel dibattito politico e culturale di
questi anni, ma anche nelle analisi sociali ed economiche? Una collocazione
del tutto marginale. Poi, fulmineamente, i rifiuti partenopei e
campani sono diventati un caso internazionale. Ma quanto tempo cè
voluto per accumularli, quanti anni di scelte sbagliate, di silenzi
complici, di mortifere inefficienze, di carsiche omertà,
di inganni, di truffe hanno reso possibile questa incancellabile
vergogna? Ma il Sud è davvero «un paradiso abitato
da diavoli», una terra colpita da un male oscuro per il quale
non esistono né diagnosi né terapie?

Fu un amico fraterno, Vittore Fiore, a parlare (e a parlarci) per
primo di Mezzogiorno agganciato allEuropa, e a lavorare in
questa direzione col cuore e con le ragioni della sua cultura rivoluzionaria
(nel senso del riformismo che può cambiare il volto di una
regione, di un territorio anche vasto come il Sud). Il freddo egoismo
della politica dualistica italiana fece naufragare il progetto.
E oggi si inquadra il tema del distacco del Sud dal resto dellItalia
allinterno di una prospettiva sopranazionale, guardando cioè
a quel che accade nellarea mediterranea e al protagonismo
di tanti nuovi Paesi che vi si affacciano, e ad altri che in questo
spicchio di mondo guardano con interessi e progetti. E si dimentica
che è necessario soprattutto guardare agli effetti di quella
globalizzazione perversa di cui ha scritto Saviano nel suo Gomorra.
Ma il tempo è inesorabile: o si riesce a stare con tempestività
dentro le dinamiche delleconomia mondiale, spendendo bene
la propria collocazione geopolitica, bonificando il territorio e
la stessa economia da degenerazioni perverse ben note, oppure i
ritardi segnalati (sempre con colpevole ritardo) riproporranno ancora
una volta il Mezzogiorno come zavorra dellItalia nel suo complesso.
Questa è missione politica. Questa è autentica rivoluzione
culturale, ben diversa dagli spropositi di quel pistola di capo
padano della Lega, che straparla di armi imbracciate per difendere
gli egoismi del Nord, e del capo dei redivivi indipendentisti siculi,
che per emulazione malmostosa minaccia di scegliere anche lui il
campo di battaglia. Dimenticando, questi due valorosi guerrieri
del nulla, che tuttal più potranno fare ricorso alluso
dei fucili a tappo.
È opinione diffusa che, quando gli italiani (e i loro politici)
giungono al culmine della scontentezza di sé, guardano oltre
le proprie frontiere e credono di scoprirvi straordinari modelli
di governo e altrettanto straordinari uomini-guida da ammirare o
corteggiare, da adorare o imitare. Attualmente sono alcuni personaggi
che suscitano questi sentimenti, perché in tutti, o in molti,
cè voglia di nomi più che di programmi, di uomini
forti più che di istituzioni durevoli. Emergono così
le figure dei leader della Francia, della Germania o persino (ma
con una maggiore cautela) della Spagna.
Ora, mettersi alla ricerca di esempi è unattività
che aiuta, a patto però di guardare da vicino i modelli che
si inseguono e di provare a capire come funzionano e perché.
È questo sguardo profondo che manca da noi: non solo a chi
ci governa, ma anche alla maggior parte di coloro i quali nella
società civile si occupano della cosa pubblica e la influenzano.
Lattrazione che proviamo verso le figure che primeggiano allestero
è un singolare miscuglio di esotismo e di invidia, e di quella
che i latini chiamavano incuriositas. LItalia
è enormemente affascinata da quel che accade in Europa, ma
a queste realtà esterne non guarda con autentico desiderio
di immedesimarsi, con curiosità di sapere e di comprendere.
Lestero ci ammalia, ma in modo del tutto frivolo e approssimativo:
lo sforzo di conoscerlo davvero, di accumulare informazioni e fatti
è debole perché è al tempo stesso strumentale
ed effimero. In queste condizioni, gli esempi esterni sono inservibili,
come lo sono le discussioni sui sistemi di governo altrui. LItalia
incuriosa non vede e non vuol vedere quel che fa la
forza vera di un leader francese, tedesco o spagnolo. Se lo facesse
con sincerità dintenti, scoprirebbe che i muscoli in
Francia non sono nel suo capo di governo, ma nelle istituzioni,
e che quel che i francesi hanno (e che manca agli italiani) è
una memoria vivissima dei propri errori passati: non solo quelli
che risalgono alle guerre tra europei, ma anche quelli commessi
nella democrazia post-bellica.

Le parole che Jean Monnet pronunciò a proposito dellEuropa
valgono come regola di vita quotidiana della politica e spiegano
anche il nascere della Quinta Repubblica: «Lesperienza
di ciascun uomo è qualcosa che sempre ricomincia da capo.
Solo le istituzioni sono capaci di divenire più sagge: esse
accumulano lesperienza collettiva, e da questa esperienza,
da questa saggezza, gli uomini sottomessi alle stesse regole potranno
vedere non già come la propria natura cambi, ma come il proprio
comportamento si trasformi gradualmente». È soprattutto
listituzione che assicura il progresso, e che dà efficacia
e tempi lunghi alle individualità.
Discorso quasi analogo per la Germania, dove esistono una cultura
della stabilità e un attaccamento a governi autorevoli, forti,
le cui radici sono caparbie e resistenti. Anche in questo Paese
cè memoria vivissima di errori e peccati consumati
in passato, sui quali i tedeschi hanno meditato a lungo, producendo
la floridezza economica e la stabilità politica di cui si
nutrono. Cè il ricordo di Weimar, con i suoi governi
debolissimi e il peso abnorme esercitato da forze extraparlamentari.
Ci sono anche alcune colpe stratificate negli anni della Repubblica
federale, dal protagonismo di alcune forze politiche allavidità
di potere che permeava di sé singoli individui; ma si tratta
di vizi che stanno nellanimo della gente come ammonimento
propositivo, come confine non aggirabile. Come in Spagna, del resto,
dove la memoria conta ed è un ingrediente ritenuto indispensabile
perché il Paese si coniughi al futuro.
Allora non è vero che da noi cè unoverdose
di commemorazioni. La memoria, semmai, è troppo corta, e
il nostro futuro è sempre incerto proprio perché abbiamo
un insufficiente ricordo del passato. In Italia quello della memoria
è un rito formale perché essa è cagionevole,
svogliata, e appunto incuriosa. Noi abitiamo
un Paese «senza memoria e senza verità», come
scriveva Sciascia. Da noi le colpe antiche e recenti non sono riconosciute
come colpe, dunque non cè stata catarsi dalcun
tipo, perciò non esiste il ricambio di generazioni avvenuto
altrove. Da errori e colpe si può venir fuori con luomo
forte o con istituzioni e regole possenti, capaci di durare di più
degli uomini e di assorbire cambi di generazione anche bruschi.
Imboccare questa seconda via non trasforma certo la natura delle
persone, ma Jean Monnet aveva ragione trasforma alla
lunga i comportamenti, e gradualmente ci darà non uomini
forti, ma uomini nuovi.
Il nascondimento della realtà è tentazione frequente
nelle democrazie di oggi (nelle dittature è la norma): ne
sono affetti Stati apparentemente forti come lAmerica o la
Russia o la Cina, e regimi apparentemente decisionisti come la Francia
o lInghilterra. Lillusione di poter fare da sé
affligge tutti. E lItalia possiede questa tentazione al sommo
grado, tantè che da noi non si discute di fatti ma
di opinioni, che sono il vestito affabulatore fatto indossare al
reale e allirreale per confonderli meglio: non alla realtà
e alla ragione ci si apre, ma al sonno dellideologia.
Una delle cose eccelse che ha detto Pascal nei Pensieri
riguarda il nostro correre dissennato verso i precipizi. Non si
tratta di un correre inerte, fatalistico: individualmente, linerzia
ha una sua nobile tristezza. È un affrettarsi colmo dattivismo,
e di chiasso: «Noi corriamo senza preoccupazione nel precipizio,
dopo aver messo qualcosa davanti a noi per impedirci di vederlo».
Precisamente questo accade, nellodierna corsa di tante democrazie.
A cominciare dalla nostra. Si verifica con il posto dellItalia
nel mondo, non solo quando si parla di economia, ma anche di tenuta
delle istituzioni, di giustizia, di diritti delluomo. Si verifica
con il nostro passato lontano e recente.
Che cosa non si vuol vedere, della realtà e dei suoi precipizi?
In primo luogo: la piccolezza cui sono ormai ridotti gli Stati-nazione,
specie in un Paese come il nostro gravato da un debito
che lo incatena con saldi ceppi allimpotenza. Ma la realtà
che è urgente contemplare non è solo questa. È
la debolezza delle nostre istituzioni, dellimperio della legge,
della giustizia. È il pallore mortale di una classe dirigente
che non produce anticorpi pronti a sbarrare il cammino a chi fa
politica privatizzandola e a chi sistematicamente non edifica ma
distrugge.
Sono tante le cose che alacremente ci mettiamo davanti agli occhi
per non vedere. È ancora Pascal che parla di chi «crede
di vedere quel che non vede affatto», e dellimmaginazione
come «maestra dellerrore». Limmaginazione
senza rapporto con il reale non è meno deleteria dello spavento,
e così come cè una politica della paura, cè
anche una politica dellimmaginazione falsa, che inganna e
svia. È il tipo di immaginazione che, come diceva Malebranche,
spesso si tramuta in folle du logis: in donna folle
che si chiude in casa, nel suo logis. La dittatura comunque esercitata
è di questa pasta, presuntuosamente credendo di poter fare
da sé.
Dellimmaginazione impazzita buona parte dellItalia è
malata, gravemente. Se solo si svegliasse un attimo, vedrebbe le
cose come sono: non il Paradiso che desidereremmo, ma i disastri
che conviene evitare e gli Inferni che prepariamo a figli e nipoti,
se non ci togliamo per tempo le bende dagli occhi. Certo, è
più facile mentire e far pagare il conto alle generazioni
future. Ma il precipizio non cambia posto: è proprio della
sua natura restare lì dovè.
Metafora della legge del contrappasso, Aula Magna dellUniversità
del Kansas. 18 marzo 1968. Messaggio diffuso dal megafono: «Non
troveremo mai un fine per la nazione né una nostra personale
soddisfazione nel mero perseguimento del benessere economico, nellammassare
senza fine beni terreni». Lamento di un prete di campagna?
Pauperistico pensiero di uno spiritualista? No. Era un discorso
di Bob Kennedy, pronunciato quarantanni fa. Chi lo ha ascoltato?
Quelli che avrebbero dovuto, erano troppo occupati a seguire i suggerimenti
che suscita laforisma del più simpatico taccagno di
tutti i tempi, Paperon de Paperoni: Non cè
soltanto loro. Cè anche il platino! .
Molti ritengono che lorazione del giovane Kennedy sia stata
e sia ancora di una tragica, disattesa attualità, e parlano
di quarantanni di colpevole indifferenza. Ma è davvero
così?
Credo che lItalia sia tra i pochi Paesi al mondo ad aver recepito
in tutto il suo sintomatico concettualismo il messaggio venuto dallantica
Nuova Frontiera americana: il nostro Pil è pessimo;
il Paese si è fatto mancare tutto ciò che poteva,
spesso anche il necessario; ha mantenuto, secondo virtù,
il nanismo industriale; francescanamente, ha alienato a favore di
altri anche cervelli e idee; le dimensioni del debito pubblico dimostrano
litalianissima volontà di fuggire la ricchezza; non
siamo ancora riusciti nellimpresa di dimostrare la relazione
inversa tra Pil e felicità, ma basta che ci si dia un po
di tempo
Importante è non demordere, e prima o poi
proveremo a frenare ancora lo sviluppo del Paese, o, alla disperata,
se questa parte di memoria storica non ci tradisce, almeno del suo
Sud. Coraggio, la Storia continua!
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