Arrivo a casa
e, quando apro
la porta,
lui ha la prudente cortesia di esitare, prima di entrare impassibile...
|
|
Lindistinto vociare si fa festa di saluti e raccomandazioni
quando il treno fa capolino dalla curva. Freme la gente. I sassolini
fra le rotaie. La voce alta dellannuncio di partenza domina
la folla dispersa, che obbedisce al comando di questo non luogo
senza chiedersi il perché di queste partenze e di questi
arrivi. Si accalca e mi ubriaca la stilizzata complessità
del mondo attorno a me. Mi sento un estraneo in una casa che non
è di nessuno.
Il cielo grigio incornicia la stazione e le nuvole si poggiano pesanti
sulle teste di chi parte e di chi rimane, ma nessuno guarda in alto,
e una partenza non pesa più del cielo su un cucchiaino da
caffè.
Il fischio del capotreno interrompe la speranza di altri saluti;
la frenetica ricerca delle parole giuste da dire si riassume in
una pacca sulla spalla. Poi lui si volta senza una parola e si avvia
verso la carrozza dieci. Un vero padre saprebbe cosa dire in questa
situazione, io invece osservo muto la schiena di mio figlio e, incatenate
in bocca, si affollano le parole che per una vita avrei voluto dire.
Gli occhi cercano di saziarsi di quellimmagine che si allontana,
strappandogli dalla felpa quel rosso vecchio e scrutando le valigie
nuove regalate per loccasione. Dentro, ciottoli di vita ammassati
alla rinfusa, e nelle scarpe le tonnellate di piombo di un giorno
di saluti. Arrivederci a presto è la stancante
litania che si ode in queste ore e in questi luoghi, ma chi sarà
la persona che scenderà da quelle lamiere che, indifferenti,
ingoiano esistenze e ricordi?
Improvvisamente consapevole, capisco che, più di tutti,
sono stato io a spingere mio figlio su quel treno. Forse ora i miei
pensieri e le mie preoccupazioni sono diventati il riflesso di quelle
del mio fragile ragazzo; forse lui, accettando in silenzio, voleva
solo che io capissi quanto tagliente fosse la sua sofferenza. È
sempre un attimo troppo tardi quando ci si accorge delle proprie
menzogne, così solo adesso mi è chiaro che non è
per lui che quel treno viaggerà, è per me. Non per
aiutarlo ad affrontare i suoi problemi, la sua depressione che tante
volte ci ha fatto litigare. Non è per farlo scendere da quel
logoro divano dove infinite ore passava a leggere, dormire o solo
pensare. Queste carrozze partiranno con lui dentro solo perché
io sono esasperato dalla sua sofferenza, dalla mia impotenza e inadeguatezza
nellaiutarlo. Meglio chiudere gli occhi quando non cè
nulla da vedere? Forse sì. Magari è questa la vita:
uno sciame di piccole decisioni prese inconsapevolmente che diventano
concrete solo quando ne vediamo le conseguenze: parole che acquistano
un senso solo dopo il punto. Sfratto mio figlio dalla mia esistenza
e, forse, sfratto me stesso dalla mia.
Nel portafoglio ormai cè rimasta solo la tristezza
che sola non basta a pagare la vita che viviamo. Eppure la lacerante
sensazione che qualcosa di più si poteva fare rimane, provocando
un leggero turbamento in viso, senza però che una lacrima
venga liberata
le lacrime ci penserà il cuore a pomparle.
Eravamo, io e lui, una parola segreta scritta su un diario che
solo noi potevamo leggere; ora siamo solo due macchie amorfe di
inchiostro che sporcano due pagine lontane fra loro.

Le porte del treno si aprono e tutti danno la precedenza a chi
scende stremato da un viaggio dove centinaia di vite scorrono attraverso
un vetro. I treni, però, non portano solo carne e sangue
e ricordi, portano presenze che tutti conosciamo e che, guardandoci
senza esitazione e in silenzio, si poggiano vicino a noi come foglie
cadute in autunno. Così succede ora a me incrociando lo sguardo
con un uomo alto, con i capelli grigi, una giacca marrone da mobile
impolverato, gli occhi piccoli e acuti e un lungo collo gotico.
Non un gesto, non una parola e mi raggiunge come un coltello che
fende il burro guardando con me mio figlio che sale e parte senza
voltarsi.
Le porte si chiudono e il treno inizia la sua veloce deriva verso
ciò che non posso conoscere.
Lavviso di sfratto è stato rispettato e ci getta nuovamente
in unesistenza incerta, ora siamo nuovi inquilini in una casa
sospesa sulle fragili scie del vento. Solo luomo vicino a
me è la certezza a cui posso aggrapparmi, eppure mai nella
vita certezza mi è stata più amara.
Unimpercettibile pioggia inizia a piangere mentre mi accendo
una sigaretta. Mi circondo di una nebbia di fumo e acqua sperando
di nascondermi a quella pesante presenza che ormai incombe in silenzio
vicino a me. Ma questuomo dal collo gotico è la segreta
testimonianza di tutto questo e non si sfugge a chi testimonia la
verità.
Ci avviamo verso la macchina parcheggiata poco distante fra il suono
della pioggia che si fa più insistente. I miei passi risuonano
come unammissione di colpa, ma i suoi non sono altro che fiato
del vento.
Senza scambiarci una parola entriamo in macchina; è allora
che mi volto a guardarlo: sono passati gli anni, ma lui non è
cambiato, un impassibile quadro che fissa orgoglioso le facce esterrefatte
nel museo. Le mie mani sembrano vecchie quando le poggio tremanti
sul volante e il fumo che mi entra negli occhi mi concede il lusso
di una lacrima.
La strada corre sotto i nostri piedi e le lacrime di pioggia sul
parabrezza si rifanno più rade ed esili. Allorizzonte
qualche ferita nel cielo nuvoloso fa intravedere un sole rosso.
È lora in cui le ombre si allungano e tendono alla
notte, quando arriviamo in centro, vicino casa. Già la città
si accende di sciami di piccole luci, dai palazzi e dalle pozzanghere
ai bordi della strada. Scorrono i fari delle macchine e i pedoni
senza volto sui marciapiedi: la strada come la stazione è
pervasa da un marasma nebbioso di solitudine, a cui apparteniamo,
precari e inconsapevoli della nostra esistenza. Cosa accadrebbe
a questa umanità gettata nel mondo da chissà quale
dio se il sole per un giorno decidesse di non sorgere? Che senso
ha questo tornare in una casa che sa di stagione passante e passeggera?
Nulla è palpabile al di là dei finestrini dellauto,
solo la presente sensazione delluomo vicino a me è
chiara e reale, un disagio, come essere seduti in un bar vicino
a persone che parlano ad alta voce: lo stesso imbarazzo e la stessa
voglia di andare via.
Sento in ogni metro percorso una solitaria melodia di pianoforte,
un sapore di lontananza e di nessuno. Un profumo dolce e triste
come un ricordo spezzato da una memoria labile. Tutto perde di importanza
oltre questi vetri bagnati. Rimane solo il desiderio di rivedere
quella sagoma ancora stesa sul divano, solo il pentimento di aver
scacciato quella dolce pena.
Arrivo a casa e, quando apro la porta, lui ha la prudente cortesia
di esitare, prima di entrare impassibile. Si dirige verso il salotto
e si siede sul divano dove mio figlio passava innumerevoli ore vuote.
Capisco solo adesso che era lunico posto in cui si sentiva
al sicuro, protetto dal mondo ostile che fuori ci aspetta ogni giorno
pronto a giudicare e a dispensare sofferenze. Lo guardo sul divano
di mio figlio, siamo solo io e lui, la Solitudine seduta di fronte
a me che mi fissa col suo collo gotico e gli occhi piccoli e acuti.
Mi volto verso larmadietto dei liquori e prendo una bottiglia
a caso. Ripenso a mio figlio ormai chiuso nella memoria e incatenato
alla tristezza del mio cuore, sperando che non debba essere nella
stessa mia paradossale compagnia. Lamaro dellalcol sfugge
nella bocca.
Guardo dalla finestra la notte, oggi non ci sono stelle che possano
guardarci, noi naufraghi, sfrattati dallesistenza.
|