Chissà se mai costui imparerà a
leggere e a capire che l’Europa non è, non può
essere quella delle patrie microscopiche, né quella delle
etnie artificiali, bensì una grande, nuova Magna Grecia.
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Cominciamo col riconoscerlo senza infingimenti: è un vezzo
tutto nostro ammirare le altrui Patrie e i sentimenti di identità
patriottica degli altri: la grandeur francese, l’hispanidad
iberica, il right or wrong, it’s my country britannico, il
manifest destiny degli americani che issano la bandiera statunitense
anche nei loro giardini, mentre da noi si canta (e neanche tutti)
l’inno nazionale solo negli incontri internazionali di calcio.
In realtà, essendo (o ritenendoci) un Paese diverso dagli
altri, abbiamo anche un differente sentimento patriottico-identitario.
E non abbiamo alcuna intenzione di imparare dagli altri un minimo
di fierezza. Chi lo dice? Un giovane, Pierre Milza, un francese
italiano per parte di padre, figlio cioè di uno di quelli
che vennero mandati sul Piave a farsi massacrare dagli austro-tedeschi
in nome della liberazione delle “terre irredente”; uno
studioso, allievo di due italianisti transalpini, il quale trova
la forza di indignarsi di fronte all’invenzione di una “identità
padana”, scimmiottata da un altrettanto idiota “leghismo
sudista”, l’una e l’altro concorrenti alle lacerazioni
che caratterizzano le cronache dell’Italietta contemporanea.
Milza, nella sua “Storia d’Italia. Dalla preistoria ai
nostri giorni”, ripropone la domanda che sottende il nostro
più antico problema: se, e da quando, gli “italici”
sono diventati “italiani”; da quando, cioè, hanno
acquistato o meno coscienza della loro identità nazionale.
Perché le nazioni non esistono in natura: un dato gruppo
umano diventa nazione solo ed esclusivamente quando matura in sé
la coscienza di esser tale.
Centro del discorso è quel che Braudel ha definito il “modello
italiano”: un ponte e un “asse di scorrimento” tra
Europa, Africa e Levante greco-balcanico, da cui si sono avviati
nei secoli due grandi processi di portata universale, la sintesi
romana e la grande cultura rinascimentale. Un mondo profondamente
dicotomizzato tra un Nord “europeo” e un Sud “mediterraneo”,
tra una prospettiva occidentale e una orientale (la Penisola è
anche lo spartiacque del “Mare nostrum”). Una realtà
profondamente policentrica fin dai tempi etruschi e megalo-ellenici,
segnata dalle differenze e dai particolarismi, ma anche capace di
fornire straordinarie prove di vitalità. Dunque un mondo-scrigno
di rarissime ricchezze creative, ma mai armonizzate del tutto, mai
unitariamente orchestrate, e dunque all’origine degli interrogativi
che si deve porre un contemporaneista sulla “longue durée”
e sulle radici del “caso” italiano.
La diversità come ricchezza, dunque, per chi sappia o voglia
capirlo. Ma intanto, dirsi orgogliosi dell’Italia è
sempre stata una proclamazione retorica, cui raramente ha corrisposto
la realtà piena del sentimento. Si può nutrire orgoglio
in un momento particolare, come a Vittorio Veneto dopo Caporetto.
Ma per essere costantemente orgogliosi occorre un’entità
intramontabile, cioè una forte identità. E qui le
cose finiscono per complicarsi, perché non va mai scordato
quel che non si stancava di ripetere il sociologo Zygmunt Bauman:
«L’identità viene evocata quando la comunità
crolla».

L’Italia è una somma di entità, dunque è
il riflesso di mille identità, in virtù dei suoi mille
campanili. Allora, si dovrebbe essere orgogliosi soprattutto delle
differenze, considerandole come valori nobili, ancorché complementari,
e non come animosità intestine, che rendono merito soltanto
al pregiudizio, con moti ondulatori che sono registrati dall’oscilloscopio
nazionale e in non pochi casi anche estero.
Moti che, al modo di tutti i sommovimenti tellurici, sfuggono alla
razionalità: se si dovessero elencare i parametri fondamentali
di confronto su cui si viene giudicati, da Maastricht alla produttività,
dal rispetto delle regole al civismo, dalle tendenze (?!) criminogene
al familismo, dall’efficienza dei pubblici dipendenti al rispetto
delle clausole fiscali, secondo certo politichese spacciato per
pensiero politico un terzo della Penisola dovrebbe finire fuori
classifica, vale a dire ben oltre il limite infimo della classifica.
Perché – come dimostra la ferocia antimeridionale di
parecchi giornali del Centro e, soprattutto, del Nord – «l’orgoglio
tende a valorizzare caratteristiche che non è detto contribuiscano
alla qualità di una collettività». Vale a dire?
Vale a dire: lo spirito di tolleranza, che può significare
superficialità civica; la capacità di arrangiarsi,
che può essere improvvisazione e incapacità a programmare;
l’ottimismo, che spesso può sconfinare in atteggiamenti
da scialo. Conclusione: meglio essere orgogliosi più selettivamente,
pensando, ad esempio, (e lo si scrive senza alcun pudore), alla
Ferrari o all’inventiva degli stilisti, scegliendo dunque un
paio tra le tante Italie, e limitare l’orgoglio a quelle!
Politico liberale elegante, presidente del Consiglio che favorì
l’ascesa politica di Cavour, Massimo D’Azeglio fu anche
qualcosa tra il profeta e il provocatore, nel momento in cui affermò
che, fatta l’Italia, bisognava fare gli italiani. Oggi, a circa
un secolo e mezzo dal 1861, che ne è stato del popolo (dei
popoli) della Penisola? Difficile rispondere: in certi momenti drammatici
della nostra storia, sembrerebbe che gli italiani siano stati “fatti”,
per esempio dopo la presa di Roma nel 1870, dopo Caporetto nel 1917,
dopo l’8 settembre 1943 (anche se qualche recente storico-ideologo
lo nega), persino dopo la fine dei partiti politici del 1992. Ma
nei momenti di vita nazionale ordinaria, normale, sembrerebbe che
il progetto sia stato del tutto fallimentare.
La memoria storica e letteraria, del resto, non incoraggia una risposta
positiva, nel senso che già nel Cinquecento un’altra
grande figura politica, Niccolò Machiavelli, riteneva che
agli italiani sostanzialmente mancasse la vocazione al “vivere
civile” perché abituati, più che alla concordia
comunitaria (cioè “nazionale”), alle lotte municipali
e ai conflitti tra i signori, tra le caste, tra le classi.
La prima capitale italiana, com’è noto, era stata Torino.
Quando morì D’Azeglio, era già stata trasferita
a Firenze. E D’Azeglio riteneva che, per una sorta di «effetto
retorico-classico», non si dovesse pensare a Roma come futura
e definitiva capitale italiana. In un Paese con sette Stati pre-unitari,
ricco di città e di ex capitali, secondo lui sarebbe stato
importante avere una capitale “industriale”, una “religiosa”,
una “artistica”, una “commerciale”, una “erudita”,
una “militare”. Non si trattava di una visione federalista,
ma – appunto – di un’intelligente provocazione da
parte di chi ben conosceva le mentalità correnti del suo
Paese, secondo le quali in seguito non si sarebbe citata soltanto
Milano “capitale morale”, ma anche Napoli capitale neoborbonica,
Mantova capitale leghista, Venezia capitale neo-serenissima, Firenze
capitale neo-granducale, Palermo e Cagliari capitali indipendentiste…
Tutto ciò, in un contesto mondiale di Paesi con capitale
unica, (ad eccezione dell’Olanda, che ne ha due, L’Aia
e Amsterdam, una politica e l’altra amministrativa; e al di
là del silente equilibrio, in Russia, tra Mosca e Pietroburgo),
secondo alcune anime belle, determinato fatalmente dalla circostanza
che fino a qualche decennio fa soltanto esistevano differenze e
incomunicabilità di lingua – imperavano decine, se non
centinaia di dialetti –, di costumi, di tradizioni, di comportamenti
all’interno degli “italici” che si voleva far diventare
“italiani”, cioè nazione (termine, quest’ultimo,
all’epoca rivoluzionario).

In virtù di queste diversità, si reclamano secessioni,
indipendenze, privilegi e quant’altro, con distorsioni del
pensiero storico (quanti torti sono stati fatti agli autentici federalisti
dell’Otto e Novecento, solo Dio lo sa!), con attacchi concentrici
(di economisti, politici, giornalisti) al Sud, con l’enfatizzazione
delle virtù civiche, imprenditoriali e morali del Nord, (Oh
Parmalat, svanita dagli scenari giudiziari di giornali e televisioni,
ma che ancora terrorizzi i sonni dei risparmiatori defraudati di
mezzo mondo!). E quando tutto questo non è stato ritenuto
sufficiente a far tremare i polsi al potere di Roma ladrona, si
è fatto ricorso persino al gesto osceno, emblematico del
pensiero “duro”, magari emergente da una sottocultura
avvinazzata o da qualche meccanismo di autocontrollo impedito, rivolto
all’Inno di Mameli da parte di chi – responsabile a livello
ministeriale – dovrebbe impegnarsi al massimo per tenere un
comportamento improntato almeno a un minimo, ma proprio minimo di
decenza. Cercando di capire, nel contempo, che la ricchezza non
affinata dalla civiltà e da un solido sostrato culturale
può dar luogo soltanto a felicità rozze, a scorribande
nel mondo sesquipedale del petroniano Trimalcione, a riti tribali
che troveranno sempre un arbitro dell’eleganza mediterraneo
pronto a ridicolizzarli.
Da tempo si straparla di “questione settentrionale”, ponendola
come snodo decisivo dello sviluppo del Paese. Il che non è:
non progredisce un intero Paese, se un terzo del suo territorio
viene abbandonato a se stesso (ancora una volta, per «non
fare gli italiani»?). Il problema, dunque, è che, se
esiste una questione settentrionale, da più gran tempo ne
esiste una meridionale. Esisteva, per lo meno. Come questione per
antonomasia. Perché l’impressione è che oggi
la reazione generale sia di fastidio al solo pronunciare l’espressione.
Ci si chiede, allora: è ancora vero che l’Italia possa
progredire senza produrre un modello di sviluppo per il Sud? È
da tempo immemorabile che se ne parla, senza che se ne sia venuti
a capo. Per fatalità? Per scelta sistematicamente dualistica?
Perché intimamente il problema è ritenuto insolubile?
Per alternanza di rimozioni e di strumentalismi?
L’idea che sembra prender corpo è che dal treno-Italia
si vogliano staccare i vagoni del Sud, convinti che il resto del
convoglio possa così raggiungere più agevolmente la
velocità di quelli europei. La percezione diffusa è
che dopo la riforma agraria, le bonifiche, uno stock di infrastrutture,
gli investimenti pubblici nell’industria di base, la Cassa
per il Mezzogiorno, e via dicendo, si sia tornati al punto di partenza,
ma in un momento particolare, cioè in un contesto internazionale
più difficile e in un Paese impoverito. Come se le ragioni
del Nord debbano essere determinanti del nuovo destino del Sud:
un Sud da mandare senza rimpianti, e una volta per tutte, in malora.
Sappiamo bene che l’Italia è sempre stata cattiva, al
limite di una malvagità tutt’altro che carsica. Al contrario
di quel che si pensa comunemente, e cioè che il volto umano
della Penisola sia stato deformato negli ultimi decenni, (così
diceva Aldo Moro), la cattiveria e l’odio reciproco sono la
nostra linfa più antica e vitale, quasi il nostro tratto
primigenio. Dalle parti di Napoli, l’invincibilità dell’italico
risentimento ha un’emblematica parabola popolare. Chiamato
a Palazzo Reale, uno straccione si vede offrire dal Re Borbone qualsiasi
cosa desideri, a patto che un altro straccione, suo acerrimo nemico,
ottenga il doppio. Il fortunato lazzarone ci pensa su, e poi, con
un sorriso arsenicale, chiede compiaciuto: «Maestà,
fatemi cieco a un occhio!».
Lasciamo le storielle e diamo passo alla storia. Scienza politica
e storiografia definiscono “cleavages” le fratture strutturali
di un Paese. Ogni Paese ha le sue, ma secondo gli storici le nostre
sono fitte come la tela di un ragno ipercinetico: il Nord contro
il Sud, l’Italia laica contro quella cattolica, il mondo industriale
contro quello agricolo... Com’è stato riconosciuto,
la “divisività” è il nostro più autentico
paradigma culturale, il canone interpretativo di più lungo
periodo, la rappresentazione mentale di noi stessi, qualunque momento
della nostra storia si esplori. Se si escludono i Balcani, non esiste
spazio europeo che abbia avuto una sequenza secolare così
ininterrotta e sanguinaria di conflitti e divisioni. Ogni straniero
che ne abbia avuto voglia, ha affermato il proprio potere in qualche
latitudine dello Stivale grazie alla complicità di alleati
“interni”. Le stesse istituzioni politiche generate dal
genio italico – i Comuni e le Signorie, che poi nient’altro
erano, se non la risposta a quelle catastrofi geopolitiche –
hanno vissuto di guerre, di tradimenti, di stragi, di saccheggi,
di incendi, «veneziani contro ravennati, veronesi e vicentini
contro padovani e trevigiani, pisani e fiorentini contro lucchesi
e senesi…», via via discendendo per li rami e per le
contrade peninsulari. L’Unità è stata vissuta
dai piemontesi come colonizzazione, e dai regnicoli come usurpazione
e ladrocinio. La Repubblica è nata da una guerra civile,
e dal dopoguerra vive e in qualche modo prospera pure, ma è
incapace di condividere un sentimento di cittadinanza o un quadro
di valori accettato e interiorizzato, condiviso: è sempre
scissa nelle appartenenze separate e inconciliabili delle ideologie
e degli egoismi. E la politica italiana non è riuscita in
passato, e meno che mai riesce oggi, a modernizzare i suoi tratti
distintivi. C’è stato, fra l’altro, un palese inganno.
Si era voluto credere che fossero «i grandi conglomerati tirannici»
a provocare guerra e a produrre infelicità, inimicizia, aggressività.
Con superficialità estrema, abbiamo voluto illuderci che,
dissolti i totalitarismi, avremmo potuto inaugurare un’epoca
di pace e di reciproca comprensione. Ora abbiamo preso coscienza
del fatto che così non è stato, non è. Crollati
i muri, è emersa sulla scena planetaria una strana figura,
quella dell’homo democraticus, che Massimo Cacciari ha definito
in questo modo: intollerante di ogni dipendenza, estraneo ad ogni
“foedus”, gelosissimo della propria individualità,
dogmaticamente certo della “naturale bontà” dei
propri appetiti (come la scienza economica gli conferma), ma incapace
di vera solitudine, e fragile, impaurito, bisognoso di protezione,
pronto a trasformarsi in massa non appena sospetta che i suoi diritti
siano minacciati.
E in Italia? Una storia che vi ha rimosso tutto, o molto, ha continuato
a procedere sul vecchio percorso: esercizio d’autorità,
dispiegamento di fazioni e oligarchie, appropriazione delle risorse
pubbliche, palude paralizzante di consorterie. Dunque, l’Italia
in realtà non è incattivita. È come è
sempre stata. Profondamente naturale, avrebbe detto Ennio Flaiano:
gli animali assalgono i più deboli, i vecchi, gli isolati.
Toccherebbe alla politica “civilizzare” quest’Italia,
ma essa, mediocre com’è, illetterata com’è,
inconsapevole anche del male che incarna e dell’arretratezza
che rappresenta, è parte del problema, non ne è, non
può esserne la soluzione.
(E apriamola, sia pure con nostra personale fatica, la parentesi
della volgarità, ma solo per far chiarezza sui fatti realmente
accaduti. Intanto, non risultano precedenti di un ministro della
Repubblica che abbia inalberato il dito medio mentre si eseguiva
l’inno nazionale. Bossi ha ottenuto la spregevole primogenitura
nel campo, peraltro equivocando l’esegesi dei contenuti. Fatto
è che il “beau geste” al congresso della Liga Veneta,
dalla sua conclamata eleganza alle originali considerazioni sui
versi del Mameli – «Schiavi di Roma? Toh!»; e pazienza
se ad essere schiava di Roma è “la vittoria” e
non l’Italia – è finito in un’informativa
della Digos, che l’ha rimessa al Tribunale di Padova, città
nella quale il condottiero padano ha fatto vedere urbi et orbi la
sua opinione sull’Inno italiano, perché si valuti se
ci sia stato vilipendio, per violazione dell’articolo 292 del
Codice penale, reato punibile con “la reclusione da uno a tre
anni”; Inno del quale, fra l’altro, non si cita mai l’autore
della musica, Michele Novaro, anch’egli – come Mameli
– uomo del Nord, morto in gran povertà.
Qualcosa di nuovo sotto il sole che illumina le acque del dio Po?
Non esattamente. Nel 2007 Bossi è stato condannato in via
definitiva per vilipendio alla bandiera (nel 1997 aveva finemente
osservato: «Il tricolore lo uso solo per pulirmi il c...!»),
beneficiando poi dell’indulto fortissimamente voluto da un
ministro meridionale. Oggi, del “riflesso pavloviano”
del leader leghista parla un altro intellettuale noto per le comico-violente
arringhe in piazza, l’ineffabile Mario Borghezio: «Per
noi padani», sostiene costui, «è inevitabile
alzare il dito medio quando sentiamo versi che ci ricordano che
siamo schiavi di Roma». Allora? Allora, «Non c’è
dolo», sentenzia il colto esegeta della Bassa padana, che
alla contestazione: «Ma l’Inno non dice questo»,
conclude con incrollabile sicumera: «Sarà, ma il concetto
serpeggia lo stesso».
E mentre quel dannato concetto callidamente si ostina a serpeggiare,
noi non ministri, né tromboni complici di un personaggio
indegno di far parte del Parlamento di una Repubblica alla quale
ha giurato fedeltà, privi come siamo del senso dell’umorismo
che senza dubbio rallegra i chiacchiericci e le ore piccole degli
habitués dei “Trani” cisalpini, noi, dicevo, che
facciamo? Non guardiamo la luna – atra – che un bullo
dal pensiero stortignaccolo ci indica, ma il suo dito medio. E ci
vengono in mente parole che, mai pronunciate per una personale questione
di cultura e di stile, per di più non essendo protetti da
uno scudo d’impunità parlamentare, non possiamo permetterci
neanche il lusso trasgressivo di scrivere).
Non credo che il patetico pretoriano delle tribù padane sia
stato mai sfiorato dal dubbio che ci possa essere qualcosa, un emblema
o un simbolo, oppure un logo scritto o sonoro, o infine un patto
o un inno, (appunto), nato da un’Idea unificante, affermato
dal sangue generoso versato da uomini “veri”, da salutare
con onore e non da offendere con meschinità. Chissà
se mai costui imparerà a leggere e a capire che l’Europa
non è, non può essere quella delle patrie microscopiche,
che rinverdirebbero l’involontario umorismo britannico espresso
in epoca vittoriana nelle previsioni meteorologiche del Times,
(“Tempesta sulla Manica: il Continente è isolato”);
né quella delle etnie artificiali, razziste ed economiciste;
bensì una grande, nuova Magna Grecia, perché l’antica
Madre non è mai esistita come potenza, ma – nobilmente
– come Idea. E come Idea dell’Occidente, che includeva
l’antico Mare interno, matrice di tutte le civiltà moderne,
con una superiore classe morale che ha intriso di sé quelle
sociali. Si interroghi, l’intonso pataccaro, e si senta quel
che in realtà è, al confronto: un barbaro in un tempio.
E ne abbia coscienza: la suprema bellezza fu di Antinoo, non di
Vercingetorige; la compostezza sobria e quasi sacerdotale attiene
all’Auriga, non ai sottopanza lumbard. Non interroghi, invece,
la Pizia, perché nella sua confusione mentale rischia di
strappare ancora zizzania, donandola al posto delle foglie di lauro
che costeggiano il sacro precipizio: il silenzio dell’oracolo
gli giungerebbe più chiaro di ogni ambiguo responso. Legga
Epitteto, il presuntuoso e improbabile epigono celta, senza spaventarsi:
si tratta di un greco che ci ha tramandato la memoria dell’ideale
massimo dei capi politici e spirituali dello splendido mondo classico:
– Gli ateniesi, soli fra i popoli, amano costruire non grandi
case, ma grandi anime. E anche noi tenteremo di fare lo stesso.
Cercheremo di costruire uomini che possano, con la conoscenza, liberarsi
dagli idoli menzogneri e, con il carattere, superare le difficoltà
della vita –. Era dei nostri, non dei loro, Epitteto. Sicché
la nuova impresa di questo infelice Sud contemporaneo è l’ultimo
ostinato tentativo di rapire una favilla al sole. Soltanto così
potremo unirci ad Eschilo (ancora una volta non si spaventi lo spericolato
citatore del “goulash” come ghetto sovietico: si tratta
di un altro Autore greco), il trageda di un inedito saggio di Papini,
nel quale il protagonista prega il Padre di accoglierlo in gloria,
lui, vecchio poeta che, cantando Prometeo, prefigurò il Figlio
venuto a portare la luce.
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