Settembre 2008

Cronache dall’italietta contemporanea

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La malora
Aldo Bello  
 
 

Chissà se mai costui imparerà a leggere e a capire che l’Europa non è, non può essere quella delle patrie microscopiche, né quella delle etnie artificiali, bensì una grande, nuova Magna Grecia.

 

Cominciamo col riconoscerlo senza infingimenti: è un vezzo tutto nostro ammirare le altrui Patrie e i sentimenti di identità patriottica degli altri: la grandeur francese, l’hispanidad iberica, il right or wrong, it’s my country britannico, il manifest destiny degli americani che issano la bandiera statunitense anche nei loro giardini, mentre da noi si canta (e neanche tutti) l’inno nazionale solo negli incontri internazionali di calcio.
In realtà, essendo (o ritenendoci) un Paese diverso dagli altri, abbiamo anche un differente sentimento patriottico-identitario. E non abbiamo alcuna intenzione di imparare dagli altri un minimo di fierezza. Chi lo dice? Un giovane, Pierre Milza, un francese italiano per parte di padre, figlio cioè di uno di quelli che vennero mandati sul Piave a farsi massacrare dagli austro-tedeschi in nome della liberazione delle “terre irredente”; uno studioso, allievo di due italianisti transalpini, il quale trova la forza di indignarsi di fronte all’invenzione di una “identità padana”, scimmiottata da un altrettanto idiota “leghismo sudista”, l’una e l’altro concorrenti alle lacerazioni che caratterizzano le cronache dell’Italietta contemporanea.
Milza, nella sua “Storia d’Italia. Dalla preistoria ai nostri giorni”, ripropone la domanda che sottende il nostro più antico problema: se, e da quando, gli “italici” sono diventati “italiani”; da quando, cioè, hanno acquistato o meno coscienza della loro identità nazionale. Perché le nazioni non esistono in natura: un dato gruppo umano diventa nazione solo ed esclusivamente quando matura in sé la coscienza di esser tale.

Centro del discorso è quel che Braudel ha definito il “modello italiano”: un ponte e un “asse di scorrimento” tra Europa, Africa e Levante greco-balcanico, da cui si sono avviati nei secoli due grandi processi di portata universale, la sintesi romana e la grande cultura rinascimentale. Un mondo profondamente dicotomizzato tra un Nord “europeo” e un Sud “mediterraneo”, tra una prospettiva occidentale e una orientale (la Penisola è anche lo spartiacque del “Mare nostrum”). Una realtà profondamente policentrica fin dai tempi etruschi e megalo-ellenici, segnata dalle differenze e dai particolarismi, ma anche capace di fornire straordinarie prove di vitalità. Dunque un mondo-scrigno di rarissime ricchezze creative, ma mai armonizzate del tutto, mai unitariamente orchestrate, e dunque all’origine degli interrogativi che si deve porre un contemporaneista sulla “longue durée” e sulle radici del “caso” italiano.
La diversità come ricchezza, dunque, per chi sappia o voglia capirlo. Ma intanto, dirsi orgogliosi dell’Italia è sempre stata una proclamazione retorica, cui raramente ha corrisposto la realtà piena del sentimento. Si può nutrire orgoglio in un momento particolare, come a Vittorio Veneto dopo Caporetto. Ma per essere costantemente orgogliosi occorre un’entità intramontabile, cioè una forte identità. E qui le cose finiscono per complicarsi, perché non va mai scordato quel che non si stancava di ripetere il sociologo Zygmunt Bauman: «L’identità viene evocata quando la comunità crolla».

L’Italia è una somma di entità, dunque è il riflesso di mille identità, in virtù dei suoi mille campanili. Allora, si dovrebbe essere orgogliosi soprattutto delle differenze, considerandole come valori nobili, ancorché complementari, e non come animosità intestine, che rendono merito soltanto al pregiudizio, con moti ondulatori che sono registrati dall’oscilloscopio nazionale e in non pochi casi anche estero.
Moti che, al modo di tutti i sommovimenti tellurici, sfuggono alla razionalità: se si dovessero elencare i parametri fondamentali di confronto su cui si viene giudicati, da Maastricht alla produttività, dal rispetto delle regole al civismo, dalle tendenze (?!) criminogene al familismo, dall’efficienza dei pubblici dipendenti al rispetto delle clausole fiscali, secondo certo politichese spacciato per pensiero politico un terzo della Penisola dovrebbe finire fuori classifica, vale a dire ben oltre il limite infimo della classifica. Perché – come dimostra la ferocia antimeridionale di parecchi giornali del Centro e, soprattutto, del Nord – «l’orgoglio tende a valorizzare caratteristiche che non è detto contribuiscano alla qualità di una collettività». Vale a dire? Vale a dire: lo spirito di tolleranza, che può significare superficialità civica; la capacità di arrangiarsi, che può essere improvvisazione e incapacità a programmare; l’ottimismo, che spesso può sconfinare in atteggiamenti da scialo. Conclusione: meglio essere orgogliosi più selettivamente, pensando, ad esempio, (e lo si scrive senza alcun pudore), alla Ferrari o all’inventiva degli stilisti, scegliendo dunque un paio tra le tante Italie, e limitare l’orgoglio a quelle!
Politico liberale elegante, presidente del Consiglio che favorì l’ascesa politica di Cavour, Massimo D’Azeglio fu anche qualcosa tra il profeta e il provocatore, nel momento in cui affermò che, fatta l’Italia, bisognava fare gli italiani. Oggi, a circa un secolo e mezzo dal 1861, che ne è stato del popolo (dei popoli) della Penisola? Difficile rispondere: in certi momenti drammatici della nostra storia, sembrerebbe che gli italiani siano stati “fatti”, per esempio dopo la presa di Roma nel 1870, dopo Caporetto nel 1917, dopo l’8 settembre 1943 (anche se qualche recente storico-ideologo lo nega), persino dopo la fine dei partiti politici del 1992. Ma nei momenti di vita nazionale ordinaria, normale, sembrerebbe che il progetto sia stato del tutto fallimentare.
La memoria storica e letteraria, del resto, non incoraggia una risposta positiva, nel senso che già nel Cinquecento un’altra grande figura politica, Niccolò Machiavelli, riteneva che agli italiani sostanzialmente mancasse la vocazione al “vivere civile” perché abituati, più che alla concordia comunitaria (cioè “nazionale”), alle lotte municipali e ai conflitti tra i signori, tra le caste, tra le classi.
La prima capitale italiana, com’è noto, era stata Torino. Quando morì D’Azeglio, era già stata trasferita a Firenze. E D’Azeglio riteneva che, per una sorta di «effetto retorico-classico», non si dovesse pensare a Roma come futura e definitiva capitale italiana. In un Paese con sette Stati pre-unitari, ricco di città e di ex capitali, secondo lui sarebbe stato importante avere una capitale “industriale”, una “religiosa”, una “artistica”, una “commerciale”, una “erudita”, una “militare”. Non si trattava di una visione federalista, ma – appunto – di un’intelligente provocazione da parte di chi ben conosceva le mentalità correnti del suo Paese, secondo le quali in seguito non si sarebbe citata soltanto Milano “capitale morale”, ma anche Napoli capitale neoborbonica, Mantova capitale leghista, Venezia capitale neo-serenissima, Firenze capitale neo-granducale, Palermo e Cagliari capitali indipendentiste… Tutto ciò, in un contesto mondiale di Paesi con capitale unica, (ad eccezione dell’Olanda, che ne ha due, L’Aia e Amsterdam, una politica e l’altra amministrativa; e al di là del silente equilibrio, in Russia, tra Mosca e Pietroburgo), secondo alcune anime belle, determinato fatalmente dalla circostanza che fino a qualche decennio fa soltanto esistevano differenze e incomunicabilità di lingua – imperavano decine, se non centinaia di dialetti –, di costumi, di tradizioni, di comportamenti all’interno degli “italici” che si voleva far diventare “italiani”, cioè nazione (termine, quest’ultimo, all’epoca rivoluzionario).

In virtù di queste diversità, si reclamano secessioni, indipendenze, privilegi e quant’altro, con distorsioni del pensiero storico (quanti torti sono stati fatti agli autentici federalisti dell’Otto e Novecento, solo Dio lo sa!), con attacchi concentrici (di economisti, politici, giornalisti) al Sud, con l’enfatizzazione delle virtù civiche, imprenditoriali e morali del Nord, (Oh Parmalat, svanita dagli scenari giudiziari di giornali e televisioni, ma che ancora terrorizzi i sonni dei risparmiatori defraudati di mezzo mondo!). E quando tutto questo non è stato ritenuto sufficiente a far tremare i polsi al potere di Roma ladrona, si è fatto ricorso persino al gesto osceno, emblematico del pensiero “duro”, magari emergente da una sottocultura avvinazzata o da qualche meccanismo di autocontrollo impedito, rivolto all’Inno di Mameli da parte di chi – responsabile a livello ministeriale – dovrebbe impegnarsi al massimo per tenere un comportamento improntato almeno a un minimo, ma proprio minimo di decenza. Cercando di capire, nel contempo, che la ricchezza non affinata dalla civiltà e da un solido sostrato culturale può dar luogo soltanto a felicità rozze, a scorribande nel mondo sesquipedale del petroniano Trimalcione, a riti tribali che troveranno sempre un arbitro dell’eleganza mediterraneo pronto a ridicolizzarli.
Da tempo si straparla di “questione settentrionale”, ponendola come snodo decisivo dello sviluppo del Paese. Il che non è: non progredisce un intero Paese, se un terzo del suo territorio viene abbandonato a se stesso (ancora una volta, per «non fare gli italiani»?). Il problema, dunque, è che, se esiste una questione settentrionale, da più gran tempo ne esiste una meridionale. Esisteva, per lo meno. Come questione per antonomasia. Perché l’impressione è che oggi la reazione generale sia di fastidio al solo pronunciare l’espressione. Ci si chiede, allora: è ancora vero che l’Italia possa progredire senza produrre un modello di sviluppo per il Sud? È da tempo immemorabile che se ne parla, senza che se ne sia venuti a capo. Per fatalità? Per scelta sistematicamente dualistica? Perché intimamente il problema è ritenuto insolubile? Per alternanza di rimozioni e di strumentalismi?
L’idea che sembra prender corpo è che dal treno-Italia si vogliano staccare i vagoni del Sud, convinti che il resto del convoglio possa così raggiungere più agevolmente la velocità di quelli europei. La percezione diffusa è che dopo la riforma agraria, le bonifiche, uno stock di infrastrutture, gli investimenti pubblici nell’industria di base, la Cassa per il Mezzogiorno, e via dicendo, si sia tornati al punto di partenza, ma in un momento particolare, cioè in un contesto internazionale più difficile e in un Paese impoverito. Come se le ragioni del Nord debbano essere determinanti del nuovo destino del Sud: un Sud da mandare senza rimpianti, e una volta per tutte, in malora.
Sappiamo bene che l’Italia è sempre stata cattiva, al limite di una malvagità tutt’altro che carsica. Al contrario di quel che si pensa comunemente, e cioè che il volto umano della Penisola sia stato deformato negli ultimi decenni, (così diceva Aldo Moro), la cattiveria e l’odio reciproco sono la nostra linfa più antica e vitale, quasi il nostro tratto primigenio. Dalle parti di Napoli, l’invincibilità dell’italico risentimento ha un’emblematica parabola popolare. Chiamato a Palazzo Reale, uno straccione si vede offrire dal Re Borbone qualsiasi cosa desideri, a patto che un altro straccione, suo acerrimo nemico, ottenga il doppio. Il fortunato lazzarone ci pensa su, e poi, con un sorriso arsenicale, chiede compiaciuto: «Maestà, fatemi cieco a un occhio!».
Lasciamo le storielle e diamo passo alla storia. Scienza politica e storiografia definiscono “cleavages” le fratture strutturali di un Paese. Ogni Paese ha le sue, ma secondo gli storici le nostre sono fitte come la tela di un ragno ipercinetico: il Nord contro il Sud, l’Italia laica contro quella cattolica, il mondo industriale contro quello agricolo... Com’è stato riconosciuto, la “divisività” è il nostro più autentico paradigma culturale, il canone interpretativo di più lungo periodo, la rappresentazione mentale di noi stessi, qualunque momento della nostra storia si esplori. Se si escludono i Balcani, non esiste spazio europeo che abbia avuto una sequenza secolare così ininterrotta e sanguinaria di conflitti e divisioni. Ogni straniero che ne abbia avuto voglia, ha affermato il proprio potere in qualche latitudine dello Stivale grazie alla complicità di alleati “interni”. Le stesse istituzioni politiche generate dal genio italico – i Comuni e le Signorie, che poi nient’altro erano, se non la risposta a quelle catastrofi geopolitiche – hanno vissuto di guerre, di tradimenti, di stragi, di saccheggi, di incendi, «veneziani contro ravennati, veronesi e vicentini contro padovani e trevigiani, pisani e fiorentini contro lucchesi e senesi…», via via discendendo per li rami e per le contrade peninsulari. L’Unità è stata vissuta dai piemontesi come colonizzazione, e dai regnicoli come usurpazione e ladrocinio. La Repubblica è nata da una guerra civile, e dal dopoguerra vive e in qualche modo prospera pure, ma è incapace di condividere un sentimento di cittadinanza o un quadro di valori accettato e interiorizzato, condiviso: è sempre scissa nelle appartenenze separate e inconciliabili delle ideologie e degli egoismi. E la politica italiana non è riuscita in passato, e meno che mai riesce oggi, a modernizzare i suoi tratti distintivi. C’è stato, fra l’altro, un palese inganno. Si era voluto credere che fossero «i grandi conglomerati tirannici» a provocare guerra e a produrre infelicità, inimicizia, aggressività. Con superficialità estrema, abbiamo voluto illuderci che, dissolti i totalitarismi, avremmo potuto inaugurare un’epoca di pace e di reciproca comprensione. Ora abbiamo preso coscienza del fatto che così non è stato, non è. Crollati i muri, è emersa sulla scena planetaria una strana figura, quella dell’homo democraticus, che Massimo Cacciari ha definito in questo modo: intollerante di ogni dipendenza, estraneo ad ogni “foedus”, gelosissimo della propria individualità, dogmaticamente certo della “naturale bontà” dei propri appetiti (come la scienza economica gli conferma), ma incapace di vera solitudine, e fragile, impaurito, bisognoso di protezione, pronto a trasformarsi in massa non appena sospetta che i suoi diritti siano minacciati.
E in Italia? Una storia che vi ha rimosso tutto, o molto, ha continuato a procedere sul vecchio percorso: esercizio d’autorità, dispiegamento di fazioni e oligarchie, appropriazione delle risorse pubbliche, palude paralizzante di consorterie. Dunque, l’Italia in realtà non è incattivita. È come è sempre stata. Profondamente naturale, avrebbe detto Ennio Flaiano: gli animali assalgono i più deboli, i vecchi, gli isolati. Toccherebbe alla politica “civilizzare” quest’Italia, ma essa, mediocre com’è, illetterata com’è, inconsapevole anche del male che incarna e dell’arretratezza che rappresenta, è parte del problema, non ne è, non può esserne la soluzione.
(E apriamola, sia pure con nostra personale fatica, la parentesi della volgarità, ma solo per far chiarezza sui fatti realmente accaduti. Intanto, non risultano precedenti di un ministro della Repubblica che abbia inalberato il dito medio mentre si eseguiva l’inno nazionale. Bossi ha ottenuto la spregevole primogenitura nel campo, peraltro equivocando l’esegesi dei contenuti. Fatto è che il “beau geste” al congresso della Liga Veneta, dalla sua conclamata eleganza alle originali considerazioni sui versi del Mameli – «Schiavi di Roma? Toh!»; e pazienza se ad essere schiava di Roma è “la vittoria” e non l’Italia – è finito in un’informativa della Digos, che l’ha rimessa al Tribunale di Padova, città nella quale il condottiero padano ha fatto vedere urbi et orbi la sua opinione sull’Inno italiano, perché si valuti se ci sia stato vilipendio, per violazione dell’articolo 292 del Codice penale, reato punibile con “la reclusione da uno a tre anni”; Inno del quale, fra l’altro, non si cita mai l’autore della musica, Michele Novaro, anch’egli – come Mameli – uomo del Nord, morto in gran povertà.
Qualcosa di nuovo sotto il sole che illumina le acque del dio Po? Non esattamente. Nel 2007 Bossi è stato condannato in via definitiva per vilipendio alla bandiera (nel 1997 aveva finemente osservato: «Il tricolore lo uso solo per pulirmi il c...!»), beneficiando poi dell’indulto fortissimamente voluto da un ministro meridionale. Oggi, del “riflesso pavloviano” del leader leghista parla un altro intellettuale noto per le comico-violente arringhe in piazza, l’ineffabile Mario Borghezio: «Per noi padani», sostiene costui, «è inevitabile alzare il dito medio quando sentiamo versi che ci ricordano che siamo schiavi di Roma». Allora? Allora, «Non c’è dolo», sentenzia il colto esegeta della Bassa padana, che alla contestazione: «Ma l’Inno non dice questo», conclude con incrollabile sicumera: «Sarà, ma il concetto serpeggia lo stesso».
E mentre quel dannato concetto callidamente si ostina a serpeggiare, noi non ministri, né tromboni complici di un personaggio indegno di far parte del Parlamento di una Repubblica alla quale ha giurato fedeltà, privi come siamo del senso dell’umorismo che senza dubbio rallegra i chiacchiericci e le ore piccole degli habitués dei “Trani” cisalpini, noi, dicevo, che facciamo? Non guardiamo la luna – atra – che un bullo dal pensiero stortignaccolo ci indica, ma il suo dito medio. E ci vengono in mente parole che, mai pronunciate per una personale questione di cultura e di stile, per di più non essendo protetti da uno scudo d’impunità parlamentare, non possiamo permetterci neanche il lusso trasgressivo di scrivere).
Non credo che il patetico pretoriano delle tribù padane sia stato mai sfiorato dal dubbio che ci possa essere qualcosa, un emblema o un simbolo, oppure un logo scritto o sonoro, o infine un patto o un inno, (appunto), nato da un’Idea unificante, affermato dal sangue generoso versato da uomini “veri”, da salutare con onore e non da offendere con meschinità. Chissà se mai costui imparerà a leggere e a capire che l’Europa non è, non può essere quella delle patrie microscopiche, che rinverdirebbero l’involontario umorismo britannico espresso in epoca vittoriana nelle previsioni meteorologiche del Times,
(“Tempesta sulla Manica: il Continente è isolato”); né quella delle etnie artificiali, razziste ed economiciste; bensì una grande, nuova Magna Grecia, perché l’antica Madre non è mai esistita come potenza, ma – nobilmente – come Idea. E come Idea dell’Occidente, che includeva l’antico Mare interno, matrice di tutte le civiltà moderne, con una superiore classe morale che ha intriso di sé quelle sociali. Si interroghi, l’intonso pataccaro, e si senta quel che in realtà è, al confronto: un barbaro in un tempio. E ne abbia coscienza: la suprema bellezza fu di Antinoo, non di Vercingetorige; la compostezza sobria e quasi sacerdotale attiene all’Auriga, non ai sottopanza lumbard. Non interroghi, invece, la Pizia, perché nella sua confusione mentale rischia di strappare ancora zizzania, donandola al posto delle foglie di lauro che costeggiano il sacro precipizio: il silenzio dell’oracolo gli giungerebbe più chiaro di ogni ambiguo responso. Legga Epitteto, il presuntuoso e improbabile epigono celta, senza spaventarsi: si tratta di un greco che ci ha tramandato la memoria dell’ideale massimo dei capi politici e spirituali dello splendido mondo classico: – Gli ateniesi, soli fra i popoli, amano costruire non grandi case, ma grandi anime. E anche noi tenteremo di fare lo stesso. Cercheremo di costruire uomini che possano, con la conoscenza, liberarsi dagli idoli menzogneri e, con il carattere, superare le difficoltà della vita –. Era dei nostri, non dei loro, Epitteto. Sicché la nuova impresa di questo infelice Sud contemporaneo è l’ultimo ostinato tentativo di rapire una favilla al sole. Soltanto così potremo unirci ad Eschilo (ancora una volta non si spaventi lo spericolato citatore del “goulash” come ghetto sovietico: si tratta di un altro Autore greco), il trageda di un inedito saggio di Papini, nel quale il protagonista prega il Padre di accoglierlo in gloria, lui, vecchio poeta che, cantando Prometeo, prefigurò il Figlio venuto a portare la luce.

 

 

 

   
   
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