Settembre 2008

Equilibri difficili

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Globale sì, ma con giudizio
Dani Rodrik Docente Università di Harvard
 
 

 

 

 

Ventre molle.
Il pericolo più grande per
la globalizzazione
è che lo spazio
di manovra dei Governi nazionali si restringa e
questi non siano più in grado
di realizzare le
politiche richieste dai cittadini.

 

Qual è la minaccia più grande per la globalizzazione? I manifestanti che affollano le piazze ogni volta che il Fondo Monetario Internazionale oppure l’Organizzazione Mondiale per il Commercio tengono i loro summit? O gli ultras della globalizzazione, quelli che premono per aperture sempre più ampie dei mercati, negando che i problemi che si accompagnano alla globalizzazione abbiano qualcosa a che vedere con le politiche da loro propugnate?
Si può affermare, con valide ragioni, che sia questa seconda categoria a rappresentare il pericolo maggiore. I cosiddetti “no global” sono un fenomeno marginale, ma gli ultras della globalizzazione, insediati a Washington, a Londra e nelle grandi Università dell’Europa e dell’America del Nord sono quelli che danno l’impronta al clima intellettuale. A lasciarli fare, sarebbero un pericolo molto più serio di quello rappresentato da folle di dimostranti che condannano la globalizzazione per ignoranza dei fondamenti dell’economia. Perché? Perché il maggiore ostacolo a un’economia globalizzata efficiente non è più l’apertura limitata dei mercati. I mercati non sono stati mai tanto liberi da interferenze governative quanto lo sono oggi. Le restrizioni alle importazioni, come le barriere tariffarie, non sono mai state così modeste. I capitali circolano senza problemi. Nonostante gli ostacoli frapposti, l’immigrazione, legale e illegale, è a livelli che non venivano raggiunti dal XIX secolo.
Tutto questo significa che la mancanza di apertura dell’economia internazionale non costituisce più un serio fattore limitante per le prospettive di crescita di ogni Paese. Anche se qualche futuro round negoziale dovesse fallire, i Paesi poveri avrebbero sufficiente accesso ai mercati dei Paesi ricchi da riuscire a conseguire i risultati raggiunti da nazioni come Cina, India o Vietnam. I mercati chiusi potevano essere un problema negli anni Cinquanta e Sessanta, ma appare difficile sostenere che lo siano ancora.

Il pericolo più grande per la globalizzazione va cercato altrove, nella prospettiva che lo spazio di manovra dei Governi nazionali si restringa a tal punto da non essere più in grado di realizzare le politiche richieste dai cittadini, quelle misure necessarie per poter prendere parte all’economia globale.
Il ventre molle della globalizzazione è lo squilibrio tra il campo d’azione dei Governi nazionali e la natura globale dei mercati. Un sistema economico sano necessita di un delicato compromesso fra questi due fattori. Se vai troppo in una direzione, avrai protezionismo e autarchia. Ma vai troppo nell’altro senso, e ti ritroverai con un’economia mondiale instabile, non in grado, socialmente e politicamente, di offrire un adeguato sostegno a coloro che dovrebbe favorire.

Il tracollo della versione ottocentesca della globalizzazione insegna che non possiamo privare i Governi nazionali del potere di dare risposte ai loro cittadini. La genialità del sistema di Bretton Woods, che andò avanti per quasi trent’anni, dopo la fine della Seconda guerra mondiale, consisteva nel fatto di essere riuscito a raggiungere un simile compromesso. Vennero rimosse alcune delle restrizioni più importanti agli scambi commerciali, lasciando al tempo stesso ai Governi la libertà di applicare le politiche macroeconomiche in modo indipendente, costruendo ognuno una versione dello Stato sociale. I Paesi in via di sviluppo erano liberi di perseguire le proprie strategie di crescita senza troppi vincoli esterni. L’economia mondiale conobbe un periodo di prosperità senza precedenti.
Ma che dire della Cina e dell’India, che hanno spiccato il volo nell’ultimo quarto di secolo? Non sono la dimostrazione che le nazioni povere hanno bisogno della variante attuale della globalizzazione, non del sistema di Bretton Woods? La risposta è no. La cosa straordinaria della Cina, dell’India e degli altri Paesi asiatici che in questi ultimi anni hanno ottenuto risultati tanto lusinghieri, è che hanno giocato al gioco della globalizzazione usando le regole di Bretton Woods. Hanno atteso che le loro economie spiccassero il volo, prima di introdurre liberalizzazioni significative del loro regime di importazioni, e continuano a limitare l’ingresso di capitali a breve termine. Hanno usato le politiche industriali – comprese molte messe al bando dall’Organizzazione mondiale per il commercio – per ristrutturare la loro economia e mettersi nelle condizioni di sfruttare meglio i mercati mondiali.
Paesi ricchi e Paesi poveri hanno entrambi bisogno – per ragioni diverse – di spazio per respirare. Ai Paesi ricchi serve per ridare smalto al patto sociale che ha costituito la base del successo di Bretton Woods. Hanno bisogno di flessibilità, di poter interferire negli scambi commerciali quando questi entrano in conflitto con valori fortemente sentiti dall’opinione pubblica interna (ad esempio, il lavoro minorile e le preoccupazioni per la sicurezza), o quando compromettono seriamente la forza contrattuale dei lavoratori. I Paesi poveri hanno bisogno di avere margine di manovra per applicare politiche valutarie e politiche industriali che li mettano in grado di diversificare e ristrutturare la loro economia: senza questo margine di manovra, la loro capacità di trarre beneficio dalla globalizzazione è molto limitata.

È arrivato il momento, quindi, di prendere in considerazione un nuovo tipo di contrattazione. Quando Paesi ricchi e Paesi poveri si riuniscono per negoziare le regole del gioco, dovrebbero smetterla di pensare in termini di concessioni reciproche sull’apertura dei mercati (“Io apro il mio mercato della merce X, se tu apri il tuo mercato della merce Y”), pensando invece a scambiarsi spazi di manovra per le politiche economiche (“Io ti consento di preservare il tuo patto sociale nazionale, se tu mi permetti di portare avanti strategie di sviluppo in conflitto con le regole fissate dall’Organizzazione Mondiale per il Commercio e dal Fondo Monetario Internazionale”).
La sfida è progettare procedure che consentano di usare questi margini di manovra per obiettivi socialmente auspicabili, impedendo invece che vengano utilizzati per portare avanti politiche di svalutazioni competitive e protezionismo commerciale.
Rischioso? Sì. C’è sempre la possibilità che un approccio del genere scivoli nel protezionismo puro e semplice. Ma l’alternativa è ancora più rischiosa. Gli storici ci insegnano che la globalizzazione poggia su fondamenta fragili, dal punto di vista sociale e politico. La priorità, oggi, è consolidare queste fondamenta, non aprire ancora di più i mercati.

 

   
   
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