Ventre molle.
Il pericolo più grande per
la globalizzazione
è che lo spazio
di manovra dei Governi nazionali si restringa e
questi non siano più in grado
di realizzare le
politiche richieste dai cittadini.
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Qual è la minaccia più grande per la globalizzazione?
I manifestanti che affollano le piazze ogni volta che il Fondo Monetario
Internazionale oppure lOrganizzazione Mondiale per il Commercio
tengono i loro summit? O gli ultras della globalizzazione, quelli
che premono per aperture sempre più ampie dei mercati, negando
che i problemi che si accompagnano alla globalizzazione abbiano
qualcosa a che vedere con le politiche da loro propugnate?
Si può affermare, con valide ragioni, che sia questa seconda
categoria a rappresentare il pericolo maggiore. I cosiddetti no
global sono un fenomeno marginale, ma gli ultras della globalizzazione,
insediati a Washington, a Londra e nelle grandi Università
dellEuropa e dellAmerica del Nord sono quelli che danno
limpronta al clima intellettuale. A lasciarli fare, sarebbero
un pericolo molto più serio di quello rappresentato da folle
di dimostranti che condannano la globalizzazione per ignoranza dei
fondamenti delleconomia. Perché? Perché il maggiore
ostacolo a uneconomia globalizzata efficiente non è
più lapertura limitata dei mercati. I mercati non sono
stati mai tanto liberi da interferenze governative quanto lo sono
oggi. Le restrizioni alle importazioni, come le barriere tariffarie,
non sono mai state così modeste. I capitali circolano senza
problemi. Nonostante gli ostacoli frapposti, limmigrazione,
legale e illegale, è a livelli che non venivano raggiunti
dal XIX secolo.
Tutto questo significa che la mancanza di apertura delleconomia
internazionale non costituisce più un serio fattore limitante
per le prospettive di crescita di ogni Paese. Anche se qualche futuro
round negoziale dovesse fallire, i Paesi poveri avrebbero sufficiente
accesso ai mercati dei Paesi ricchi da riuscire a conseguire i risultati
raggiunti da nazioni come Cina, India o Vietnam. I mercati chiusi
potevano essere un problema negli anni Cinquanta e Sessanta, ma
appare difficile sostenere che lo siano ancora.
Il pericolo più grande per la globalizzazione va cercato
altrove, nella prospettiva che lo spazio di manovra dei Governi
nazionali si restringa a tal punto da non essere più in grado
di realizzare le politiche richieste dai cittadini, quelle misure
necessarie per poter prendere parte alleconomia globale.
Il ventre molle della globalizzazione è lo squilibrio tra
il campo dazione dei Governi nazionali e la natura globale
dei mercati. Un sistema economico sano necessita di un delicato
compromesso fra questi due fattori. Se vai troppo in una direzione,
avrai protezionismo e autarchia. Ma vai troppo nellaltro senso,
e ti ritroverai con uneconomia mondiale instabile, non in
grado, socialmente e politicamente, di offrire un adeguato sostegno
a coloro che dovrebbe favorire.

Il tracollo della versione ottocentesca della globalizzazione insegna
che non possiamo privare i Governi nazionali del potere di dare
risposte ai loro cittadini. La genialità del sistema di Bretton
Woods, che andò avanti per quasi trentanni, dopo la
fine della Seconda guerra mondiale, consisteva nel fatto di essere
riuscito a raggiungere un simile compromesso. Vennero rimosse alcune
delle restrizioni più importanti agli scambi commerciali,
lasciando al tempo stesso ai Governi la libertà di applicare
le politiche macroeconomiche in modo indipendente, costruendo ognuno
una versione dello Stato sociale. I Paesi in via di sviluppo erano
liberi di perseguire le proprie strategie di crescita senza troppi
vincoli esterni. Leconomia mondiale conobbe un periodo di
prosperità senza precedenti.
Ma che dire della Cina e dellIndia, che hanno spiccato il
volo nellultimo quarto di secolo? Non sono la dimostrazione
che le nazioni povere hanno bisogno della variante attuale della
globalizzazione, non del sistema di Bretton Woods? La risposta è
no. La cosa straordinaria della Cina, dellIndia e degli altri
Paesi asiatici che in questi ultimi anni hanno ottenuto risultati
tanto lusinghieri, è che hanno giocato al gioco della globalizzazione
usando le regole di Bretton Woods. Hanno atteso che le loro economie
spiccassero il volo, prima di introdurre liberalizzazioni significative
del loro regime di importazioni, e continuano a limitare lingresso
di capitali a breve termine. Hanno usato le politiche industriali
comprese molte messe al bando dallOrganizzazione mondiale
per il commercio per ristrutturare la loro economia e mettersi
nelle condizioni di sfruttare meglio i mercati mondiali.
Paesi ricchi e Paesi poveri hanno entrambi bisogno per ragioni
diverse di spazio per respirare. Ai Paesi ricchi serve per
ridare smalto al patto sociale che ha costituito la base del successo
di Bretton Woods. Hanno bisogno di flessibilità, di poter
interferire negli scambi commerciali quando questi entrano in conflitto
con valori fortemente sentiti dallopinione pubblica interna
(ad esempio, il lavoro minorile e le preoccupazioni per la sicurezza),
o quando compromettono seriamente la forza contrattuale dei lavoratori.
I Paesi poveri hanno bisogno di avere margine di manovra per applicare
politiche valutarie e politiche industriali che li mettano in grado
di diversificare e ristrutturare la loro economia: senza questo
margine di manovra, la loro capacità di trarre beneficio
dalla globalizzazione è molto limitata.

È arrivato il momento, quindi, di prendere in considerazione
un nuovo tipo di contrattazione. Quando Paesi ricchi e Paesi poveri
si riuniscono per negoziare le regole del gioco, dovrebbero smetterla
di pensare in termini di concessioni reciproche sullapertura
dei mercati (Io apro il mio mercato della merce X, se tu apri
il tuo mercato della merce Y), pensando invece a scambiarsi
spazi di manovra per le politiche economiche (Io ti consento
di preservare il tuo patto sociale nazionale, se tu mi permetti
di portare avanti strategie di sviluppo in conflitto con le regole
fissate dallOrganizzazione Mondiale per il Commercio e dal
Fondo Monetario Internazionale).
La sfida è progettare procedure che consentano di usare questi
margini di manovra per obiettivi socialmente auspicabili, impedendo
invece che vengano utilizzati per portare avanti politiche di svalutazioni
competitive e protezionismo commerciale.
Rischioso? Sì. Cè sempre la possibilità
che un approccio del genere scivoli nel protezionismo puro e semplice.
Ma lalternativa è ancora più rischiosa. Gli
storici ci insegnano che la globalizzazione poggia su fondamenta
fragili, dal punto di vista sociale e politico. La priorità,
oggi, è consolidare queste fondamenta, non aprire ancora
di più i mercati.
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