Settembre 2008

Incauta federal reserve

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Ma il modello
America è vincente
Edmund S. Phelps Premio Nobel per l’Economia
 
 

 

 

 

L’Occidente
deve recuperare
lo spirito
dell’esplorazione, della scoperta, della risoluzione dei problemi, dello sviluppo di talenti.

 

Da una ventina di anni siamo abituati a interpretare la politica americana in base alla Regola dell’economista statunitense John B. Taylor. Ma questa Regola è priva di utilità pratica, se non si specifica in qual modo debbano essere misurati due dei suoi elementi cruciali: il tasso di disoccupazione naturale di medio periodo, verso cui teoricamente tende il tasso di disoccupazione corrente; e poi il tasso naturale d’interesse, che corrisponderebbe al tasso d’interesse osservato se l’economia fosse al suo livello naturale di medio periodo e il tasso d’inflazione (atteso) fosse al livello desiderato. Di conseguenza, è forse impossibile sapere con certezza se una Banca centrale stia o non stia seguendo la sunnominata Regola di Taylor.
A mio parere, la Federal Reserve si sta sbagliando riguardo al tasso di disoccupazione naturale. La Fed sembra convinta che il tasso di disoccupazione di medio periodo sia molto al di sotto del livello attuale del 5,5 per cento. La Regola di Taylor prevederebbe che una Banca centrale reagisca a un aumento tanto marcato del tasso di disoccupazione rispetto al suo livello naturale sul medio periodo con un taglio dei tassi (il tasso d’interesse sui Federal Funds), basandosi sul fatto che il tasso di disoccupazione, quando è così alto, tornerà ciclicamente al suo livello naturale di medio periodo, che rimane immutato; perciò, tagliando i tassi, la Banca centrale evita che la congiuntura negativa raggiunga il suo punto più basso.
Naturalmente, le precedenti riduzioni dei tassi effettuate dalla Fed potrebbero essere state motivate da una sensazione viscerale di un rischio di tracollo delle banche in caso di mancato intervento. Ora, però, sembra che la scelta di mantenere giù i tassi sia fondata sulla sensazione che i tassi bassi servano ad “ammortizzare” l’economia, per evitare guai peggiori, e a ridurre il “rischio estremo” che il tasso di disoccupazione possa giungere a livelli molto più alti, prima di fare dietrofront.
Ma se si crede – come credo io – che a spingere verso l’alto il tasso di disoccupazione sono forze strutturali, e che la maggior parte di esse, se non tutte, non faranno dietrofront e non invertiranno la rotta, allora non è chiaro – quantomeno non per me – quale sia la giustificazione per mantenere i tassi a livelli insolitamente bassi.
Non sto affermando che la Regola di Taylor sbagli, raccomandando di accantonare temporaneamente i timori per la crescita dell’inflazione quando il tasso di disoccupazione sale sensibilmente rispetto al tasso di disoccupazione naturale; sto sostenendo che nel caso odierno l’analisi tayloriana non è applicabile: il tasso di disoccupazione è ancora al di sotto del tasso naturale di medio periodo verso cui il tasso di disoccupazione corrente si presume che tenda.
Può avere senso tollerare un peggioramento delle aspettative sul medio periodo per scongiurare un incremento evitabile della disoccupazione o per accelerarne il decremento. Questa proprietà è uno dei pregi della Regola di Taylor. Ma una cosa è provocare o aggravare un peggioramento dell’inflazione prevista per un certo periodo allo scopo di contenere un incremento della disoccupazione; ben diverso è fare la stessa cosa per rallentare un incremento della disoccupazione che in ogni caso finirà per dispiegarsi in tutta la sua forza. La prima serve a limitare i danni – evitare che la crisi occupazionale tocchi il fondo – mentre la seconda serve unicamente a protrarre un po’ più a lungo una situazione di bassa disoccupazione, prima che il fondo della crisi occupazionale, inevitabilmente, si materializzi. Mi sembra infondata la convinzione della Fed che l’economia riuscirà a riguadagnare in tempi brevi parte della forza perduta, e mi sembra pericoloso decidere sulla base di questa convinzione di tenere bassi i tassi a breve, fintanto che la disoccupazione è alta o sembri destinata a crescere.

Nelle presenti circostanze mi piacerebbe vedere la Fed iniziare ad alzare il tasso d’interesse reale atteso a breve termine fino a raggiungere, e alla fine superare, il tasso d’inflazione atteso.
A prescindere da quale siano la politica monetaria e la politica di bilancio migliore nella situazione attuale, quel che è certo è che fissarsi sulla politica monetaria e di bilancio ha tolto a tutti qualsiasi incentivo a pensare “fuori dagli schemi”. Chi ti starebbe a sentire? Ma idee valide per iniziative nuove sarebbero estremamente preziose.
Una delle prospettive per le economie occidentali sul medio termine – fino al prossimo boom – è un mercato del lavoro fiacco: in America, un tasso di disoccupazione che fluttuerà tra il 5 e il 6 per cento e percentuali di disoccupati molto alte fra i maschi ispanici e afro-americani, una fascia di popolazione duramente colpita dalla fine del boom delle costruzioni. Questo dovrà essere uno dei principali problemi da affrontare negli States, proprio come continua ad essere motivo di preoccupazione in diversi Paesi dell’Europa occidentale.
Da circa un decennio sostengo l’opportunità di un meccanismo di sussidi per i lavori a basso salario, da versare ai datori di lavoro di aziende al di sopra di certe dimensioni e graduati in base al tasso salariale. Un programma del genere servirebbe a tirar su i salari e l’occupazione tra i lavoratori appartenenti a gruppi svantaggiati, favorendo una maggiore inclusione economica e progressi nel campo dell’integrazione sociale. È il momento giusto per un’iniziativa del genere.
Un’altra prospettiva economica è l’assenza di ondate d’innovazione, a meno che non inizi a svilupparsene una entro breve tempo. L’economia americana, e anche le economie europee, hanno un gran bisogno di rivedere la propria struttura istituzionale in un’ottica di maggiore dinamismo: il settore finanziario non sembra molto orientato all’innovazione; la gestione d’impresa e le pratiche manageriali sembrano necessitare di un’approfondita analisi e riorganizzazione. In Europa c’è un’altra necessità: liberalizzare il mercato del lavoro; lo Stato dovrebbe sollevare i datori di lavoro dall’onere delle liquidazioni per fine lavoro, accollandoselo al posto loro. L’Occidente deve recuperare lo spirito dell’esplorazione, della scoperta, della risoluzione dei problemi, dello sviluppo di talenti (per usare un’espressione di Rawls) e dell’espansione delle capacità di lavoro (per usare un’espressione di Sen). Se questo programma venisse messo in pratica, potremmo assistere a una riedizione di quell’epoca d’innovazione che l’Italia, la Germania e la Francia conobbero (insieme agli Stati Uniti e alla Gran Bretagna) negli ultimi decenni del XIX secolo.

Le questioni che gravitano oggi attorno al capitalismo riguardano l’ampio spettro delle conseguenze del suo alto dinamismo. Il maggior beneficio di un’economia innovativa è comunemente considerato essere un più alto livello di produttività e, quindi, in generale, più ore lavorate e una migliore qualità della vita.
C’è una grande verità, in questa considerazione, a dispetto di tutti i distinguo che si possano fare. Una gran parte dell’impressionante crescita della produttività cui il mondo ha assistito dagli anni Venti ad oggi può essere ricondotta ai nuovi prodotti commerciali e alle nuove strategie d’impresa sviluppate e lanciate in economie che, tanto o poco, potevano essere considerate relativamente capitalistiche. Lungo la strada c’è stato da fare anche per gli ingegneri, ma il processo è stato guidato da imprenditori.
C’è tuttavia almeno un distinguo al quale occorre dare risposta. Non è che la produttività sia finalmente arrivata al punto al quale, dopo un secolo e mezzo di rapida crescita, avere ancora un altro anno di crescita sarebbe di valore trascurabile? D.H. Lawrence, scrivendo di Benjamin Franklin, parlava della «missione che non finisce mai» dell’America. Quale che sia la risposta, tuttavia, è importante notare che gli avanzamenti in produttività, che generalmente fanno crescere i salari, danno la possibilità a persone a basso salario di evitare lavori tediosi, usuranti o pericolosi, per svolgere un lavoro più interessante e formativo. Certo, i livelli di produttività in Paesi relativamente piccoli dovranno sempre di più alle innovazioni sviluppate altrove che a quelle che è stato possibile sviluppare colà.

Di fatto, la maggior parte delle economie continentali, incluse le più grandi, si è accontentata di veleggiare sottovento ad alcune altre economie che invece fanno la parte del leone, nelle innovazioni del mondo. Il rimpianto economista di Harvard, Zvi Griliches, ha commentato con approvazione che, così facendo, gli europei dimostrano di essere «davvero svegli».
Io ho una prospettiva differente. Da una parte, è un buon affare essere una forza innovativa nell’economia globale. La globalizzazione ha diminuito l’importanza della scala così come della distanza. Nella minuscola Danimarca il mondo è subito a portata di mano: essa può aprire gli occhi sui mercati degli Stati Uniti, dell’Unione europea, e ovunque. L’Islanda è entrata nel settore bancario e biogenetico europeo. La Francia fa tutto questo da lungo tempo – e potrebbe farlo ancora di più. Gli Stati Uniti sono evidentemente di già nel business dell’innovazione globale.
Voglio anche enfatizzare però quello che tra i benefici del dinamismo mi sembra essere il più importante. Istituzionalizzare un alto livello di dinamismo, così che l’economia sia infiammata dalle nuove idee degli imprenditori, serve anche a trasformare il posto di lavoro, nelle imprese che sviluppano innovazione e anche nelle imprese che, per esteso, hanno a che fare con le innovazioni. Le sfide che sorgono dallo sviluppare una nuova idea e nel garantire la sua buona ricezione da parte del mercato danno alla forza-lavoro elevati livelli di stimolazione mentale, la capacità di risolvere problemi, e dunque conferiscono al singolo lavoratore un senso d’impegno e di crescita personale. Ricordate che un individuo che lavori da solo non può facilmente creare il continuo flusso di nuove sfide. Serve un villaggio! O preferibilmente un’intera società.

L’idea che la gente abbia bisogno di sviluppo intellettuale e capacità di risolvere problemi ebbe origine in Europa: tornano alla mente Aristotele, che scrive dello «sviluppo dei talenti», quindi il rinascimentale Benvenuto Cellini che si illumina per i traguardi raggiunti, e il grande Cervantes che evoca vitalità e cambiamento. Nel XX secolo, Alfred Marshall ha osservato che il lavoro è nei pensieri del lavoratore per la maggior parte del giorno. E Gunnar Myrdal nel 1933 scrisse che presto sarebbe venuto il tempo in cui più soddisfazione sarebbe arrivata dal lavoro che dal consumo.
Questa visione, talvolta chiamata vitalismo, è ora fortemente associata con la scuola del pragmatismo filosofico fondata dall’americano William James, alla quale appartenevano Henri Bergson in Francia e John Dewey negli Stati Uniti.
Lo psicologo americano Abraham Maslow ha parlato di realizzazione di sé – così come John Rawls utilizza il termine autorealizzazione – per riferirsi all’emergente capacità di dominare un mestiere da parte di una persona, svelando pian piano il proprio obiettivo. L’applicazione americana di questa prospettiva aristotelica è la tesi secondo cui la maggior parte dell’autorealizzazione nelle nostre società, se non tutta, può venire soltanto dalla carriera. Oggi non possiamo partire alla volta dei mulini a vento, ma possiamo intraprendere le sfide di una carriera. Se una carriera ricca di sfide non è la migliore speranza per l’autorealizzazione, che cosa può esserlo? Persino per essere una buona madre, aiuta il fatto di avere esperienza di un lavoro fuori casa.
Quindi, un alto dinamismo tende a portare una prosperità economica pervasiva all’economia, costruendo su aumenti della produttività e su tutto questo processo di autorealizzazione. È vero, si tratta di un processo che può non raggiungere il suo picco ogni mese o anno. Esattamente come l’artista non crea tutto il tempo, ma semmai in alcuni determinati episodi e “stacchi”, così l’economia dinamica ha una volatilità ad alta frequenza e può attraversare ampie turbolenze. Forse però questa volatilità non è solamente normale, ma fa bene anche alla creatività.

 

   
   
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