Si parla spesso
di variazioni
climatiche epocali,
ma poco del
cambiamento
molto più rapido che si verifica
nelleconomia mondiale, sotto
i nostri disattenti occhi.
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Nelle nostre carte geografiche, lEuropa sta sempre in alto
a sinistra, lIndia e la Cina sono quindi collocate in basso
a destra; in quelle americane, il Continente scoperto da Cristoforo
Colombo è fermamente al centro, circondato da due grandi
oceani, mentre gli altri Paesi fanno da corona, spesso poco discernibile,
sui bordi esterni.
Queste rappresentazioni schematiche, frutto di una lunghissima tradizione,
mostrano quanto pregiudizi secolari dei quali non abbiamo coscienza
possano pesare sulla nostra concezione del mondo e sul nostro modo
di rapportarci alla realtà che ci circonda. Essi sono di
ostacolo alla nostra percezione del cambiamento e alimentano unillusione:
disegnando le carte geografiche così come le disegnano oggi,
europei e americani inconsciamente danno per indiscutibile una centralità
del loro ruolo che oggi, al contrario, non è più scontata.
La difficoltà di rendersi conto del cambiamento è
resa ancora maggiore dal flusso costante di notizie nel quale siamo
sempre più immersi. La nostra attenzione è ossessivamente
portata verso il sensazionale anziché lo strutturale, verso
il piccolo fatto di dettaglio anziché verso il cambiamento
profondo che non fa notizia ma influenzerà gli
sviluppi successivi; in altre parole, guardiamo intensamente lalbero
e così non ci accorgiamo della foresta, la quale, come nel
quinto atto di Macbeth, non sta ferma, ma anzi si sta muovendo e
ci sta circondando.
La tesi di questo breve saggio è che si stia verificando
un cambiamento rapidissimo nella struttura economica e finanziaria
mondiale, rimasta sostanzialmente inalterata per circa sessantanni,
ossia dal secondo dopoguerra. Tra il 2000 e il 2007, limportanza
relativa delle grandi aree del mondo è bruscamente cambiata,
il mondo si è come capovolto. Il processo di globalizzazione
avrebbe dovuto dar luogo a uneconomia mondiale incentrata
sugli Stati Uniti, mentre sembra profilarsi un futuro multicentrico.
Si parla spesso delle prossime, grandi variazioni climatiche che,
secondo lopinione prevalente, si verificheranno improvvisamente
dopo un lungo periodo preparatorio di piccoli aumenti di temperatura.
Montagne di ghiaccio si scioglieranno, il livello del mare si alzerà
e ci troveremo di colpo in un mondo diverso. Non sappiamo se questo
scenario apocalittico si avvererà per il clima ma, dopo ampi
segni premonitori, nel corso degli ultimi tre-quattro anni un cambiamento
molto più rapido sta verificandosi nella struttura economica
mondiale, sotto i nostri spesso disattenti occhi.

Tale mutamento è a un tempo quantitativo e qualitativo,
riguarda i Paesi (e i gruppi di Paesi), le imprese, in modo particolare
quelle grandi, e i mercati. Per rendersene conto, occorre osservare
leconomia su un arco temporale relativamente lungo e integrare
losservazione macroeconomica con lo studio dei mercati mondiali,
a cominciare da quelli finanziari, nonché di imprese e istituzioni
finanziarie le cui dimensioni sono talora simili a quelle di Stati
medi o medio-grandi.
Il capovolgimento si è già verificato,
a cavallo del nuovo millennio, nellindustria mondiale, e una
sua breve descrizione serve a mettere a fuoco largomento.
Successivamente, lattenzione sarà rivolta al rapidissimo
e incerto rivolgimento in atto sui mercati finanziari mondiali.
Si accennerà alla posizione dellItalia in questa situazione
mobile.
Il capovolgimento industriale:
non siamo più noi a comandare
Il caso più importante di capovolgimento riguarda la variazione
nel peso delle grandi aree sulla produzione industriale del pianeta;
questa quota era da molto tempo in lentissima, fisiologica diminuzione.
Nella seconda metà degli anni Ottanta era pari al 58 per
cento della produzione industriale mondiale, e si abbassava di circa
un punto percentuale al decennio; negli ultimi anni Novanta questo
ritmo di abbassamento accelera, e nel 1999 la quota risulta pari
al 54 per cento.
Poi, il crollo: in sette anni, ossia dal 1999 al 2006, la quota
si riduce di undici punti percentuali, ossia di un quinto, e fa
registrare il valore 43,4 per cento. La variazione percentuale della
quota sullanno precedente passa da -0,76 per cento del 1999
a -3,52 per cento nel 2006. Analoghi andamenti esplosivi
nei primi anni del nuovo millennio si osservano per altri fenomeni
economici mondiali, come, ad esempio, laccumulo di riserve
valutarie da parte dei Paesi emergenti.
Non si tratta solo di variazioni quantitative. Si stanno rapidamente
modificando procedure, sistemi di controllo, tecnologie, e il senso
generale di questo cambiamento è uno solo: non siamo più
noi (questo noi può essere riferito agli americani
o agli europei o a tutti i Paesi ricchi) a comandare.
Chi comanda, allora? In questo momento, probabilmente nessuno: siamo
entrati in unepoca di transizione in cui allattenuazione
(e possibile scomparsa) del primato economico da parte degli Stati
Uniti non fa da contrappunto lemergere di un solo successore
alla potenza economica nordamericana che, peraltro, mantiene
posizioni di tutto rispetto ma piuttosto di una serie di
potenze economiche che si bilanciano e controbilanciano in un equilibrio
incerto.
La crisi finanziaria mondiale, nata dai mutui subprime e ufficialmente
riconosciuta come tale dalla riunione di Tokyo dei ministri economici
del G7 dell8-9 febbraio 2007, rende ancora maggiore lincertezza.
Inizialmente minimizzata, molte volte data per superata, si è
rivelata invece indizio di un malessere più generale delle
economie più ricche e avanzate, che si sta diffondendo in
maniera estremamente rapida alleconomia reale, facendosi beffe
dei maggiori centri di previsione del mondo, costretti a rivedere
affannosamente al ribasso le stime di crescita per il 2008, ancora
fresche dinchiostro, e obbligando i Governi a rivedere e correggere
leggi finanziarie appena approvate, sovente con grande fatica.
Lindebolimento del potere finanziario americano
Lanalisi, in un contesto globale, della capitalizzazione di
mercato, a livello di grandi imprese e di singole piazze finanziarie,
consente di determinare limportanza relativa di queste ultime
e apre la via a uno studio del potere economico-finanziario inizialmente
sviluppato da economisti, ma sempre più frequentemente portato
avanti da politologi. Essa presuppone lesistenza di un nesso
logico del tipo:
- capitalizzazione di mercato delle imprese;
- potere di aggregazione e di iniziativa delle imprese sui mercati
finanziari in cui le imprese operano;
- importanza di questi mercati;
- rilevanza economico-finanziaria (potere) dei Paesi nei quali i
mercati sono collocati.
Questi nessi logici inducono a studiare le variazioni relative della
capitalizzazione di mercato sia a livello aggregato sia a livello
delle maggiori imprese quali proxy delle variazioni della rilevanza
economico-finanziaria dei singoli Paesi, mercati e imprese.
Va notato che il valore di mercato espresso in ununica
moneta, cioè in dollari tiene conto sinteticamente
di diverse variabili, quali:
- landamento e le prospettive delle singole imprese;
- levoluzione nel senso del mercato dei Paesi in cui i centri
borsistici sono collocati (in quanto le privatizzazioni e lofferta
di azioni di imprese privatizzate sui mercati aumentano limportanza
delle piazze finanziarie sulle quali le imprese sono quotate) e
il potere di attrazione dei capitali da parte di quella piazza finanziaria;
- il cambio della valuta del Paese in cui il mercato è collocato.
Nel complesso, il peso dei singoli Paesi per capitalizzazione di
mercato può costituire un buon indicatore quantitativo del
soft power nel senso di Nye (2002).
Date queste premesse, le graduatorie delle maggiori imprese in base
alla capitalizzazione di mercato si trasformano da una sorta di
campionato del capitalismo, al quale dedicare poco più
di una passeggera curiosità, a importanti strumenti in grado
di raccontare qualcosa sul potere nelleconomia e sulle sue
variazioni.
Purtroppo queste statistiche non sono troppo sistematiche, risentono
di problemi di valutazione (si pensi alle operazioni di fusione,
agli spin-off, alle variazioni nel valore nominale del capitale,
ecc.), né esiste alcuna organizzazione ufficiale che sistematicamente
le raccolga; le serie più importanti sono quelle costruite
attraverso gli anni dal quotidiano inglese Financial Times, che
classifica in base alla capitalizzazione di mercato le 500 maggiori
imprese quotate del mondo, e dal settimanale americano Business
Week, che classifica le principali 1.200 imprese con criteri analoghi.
Lanalisi di Financial Times 500
Si è scelto di operare sui dati del Financial Times e di
concentrare lattenzione su avvenimenti recentissimi, ossia
sul periodo giugno 2005-giugno 2007, con dati provvisori che consentono
di spingere lanalisi fino al settembre 2007. Si tratta, peraltro,
di un periodo denso di mutamenti importanti, nel quale la crisi
finanziaria originata dai mutui subprime ha dato le sue prime manifestazioni.
Va inoltre ricordato che le prime 500 imprese incidono per circa
la metà sulla capitalizzazione totale delle Borse mondiali,
secondo i dati di Bloomberg, e che le prime 10-15 imprese incidono
per quasi il 10 per cento sulla capitalizzazione totale. Se si eccettua
lulteriore proposizione che il potere finanziario di iniziative
e di aggregazione vari in maniera più che proporzionale alla
capitalizzazione di Borsa, si giunge alla conclusione che è
particolarmente importante analizzare i cambiamenti nelle prime
posizioni di questo lungo elenco.
Una prima, sommaria analisi dei risultati, suddivisi per Paese,
rende possibile giungere a quattro importanti conclusioni.
1) Si è verificato un forte allargamento del mercato. Nel
2005, le imprese esaminate provenivano da 32 Paesi, nel 2007 i Paesi
erano saliti a 37. Il tasso di rinnovamento della lista è
di poco inferiore al 20 per cento nel periodo considerato, il che
indica un rinnovamento piuttosto rapido.

2) Si è verificato un forte aumento dei valori monetari.
La valutazione complessiva cresce del 41 per cento in dollari; questo
riflette sia la robusta crescita in termini reali (il Prodotto lordo
mondiale sale del 4,5-5 per cento allanno) sia laltrettanto
robusta caduta del dollaro.
3) Le grandi imprese americane hanno subìto una rapida perdita
di importanza quanto meno di tipo quantitativo: il valore di quelle
che sono presenti nella lista risulta accresciuto appena dell1,2
per cento. Questo fa sì che, in termini di euro, la salita
dei valori americani in questo periodo sia stata più che
controbilanciata dalla discesa del valore del dollaro.
4) Sono comparse sul mercato molte nuove grandi imprese non statunitensi,
in parte a seguito di privatizzazioni, spesso parziali, nei Paesi
emergenti, mentre sono uscite molte imprese statunitensi. Nella
classifica si constata una diminuzione netta delle imprese degli
Stati Uniti pari a 35 unità, ossia al 16 per cento delle
imprese non solo di Paesi emergenti, ma anche di Paesi avanzati.
Del poco invidiabile primato dellItalia in questa classifica
si parlerà più avanti. A questo punto è sufficiente
sottolineare che queste variazioni, che vanno confortate da altri
dati, mostrano sia pure in maniera imperfetta la diversa
vitalità del capitalismo finanziario nei vari
Paesi, con risultati ampiamente divergenti in Europa. Assai più
rilevante di quella dellItalia che pure ha una perdita
netta pari a un terzo delle proprie imprese presenti nella lista
in questo contesto, appare la posizione degli Stati Uniti,
un Paese per il quale la riduzione relativa è inferiore,
ma la riduzione assoluta decisamente superiore.
Se ne dovrebbe dedurre che il mercato azionario americano è
oggi meno vitale; il che coincide con le numerose lamentele
sulla difficoltà e sul costo della presenza su quel mercato
a seguito delle disposizioni sulla trasparenza della legge Sarbanes-Oxley.
Proprio questa maggiore difficoltà a quotarsi e a operare
negli Stati Uniti ha indotto le Borse americane a cercare alleanze
allestero.
Conclusioni dellanalisi delle variazioni: su una capitalizzazione
aggiuntiva delle prime 500 società pari a quasi 8.000 miliardi
di dollari (ossia più di cinque volte il Prodotto lordo italiano),
laumento complessivo di valore delle imprese americane presenti
in Financial Times Global 500 è pari a poco più di
1.000 miliardi. Laumento di valore delle imprese cinesi (Hong
Kong inclusa) è pressoché identico; e laumento
di valore delle imprese di quella che viene spesso chiamata Asia
emergente supera laumento di valore delle imprese americane.
La geografia finanziaria che si evince è dunque nettamente
diversa da quella alla quale siamo abituati da decenni. Allaumento
complessivo della capitalizzazione di mercato delle grandi imprese
contribuiscono più gli europei che gli americani (i quali
scontano fortemente la perdita di valore del dollaro e i già
citati vincoli della legge Sarbanes-Oxley); la posizione, particolarmente
rilevante, di Londra, è riportata separatamente da quella
delle grandi piazze europee in quanto il mercato britannico, forte
della sua riconquistata posizione centrale anche grazie allopera
dintermediazione dei capitali arabi contribuisce per
l11,5 per cento, ossia poco meno degli Stati Uniti, allincremento
complessivo.
E soprattutto appare importante la presenza del blocco asiatico,
costituito da Cina (con Hong Kong), India e Corea, che contribuisce
per il 16,4 per cento allaumento complessivo, così
come sulla scena finanziaria mondiale appare in forte posizione
la Russia, mentre Australia e Canada, con la loro forte incidenza
nei settori delle materie prime, acquistano unimportanza particolare.
La variazione della capitalizzazione di mercato delle grandi banche
Unattenzione speciale va riservata al settore bancario, e
in particolare alle grandi banche, per la loro funzione dintermediazione
che di fatto assegna loro compiti istituzionali. Il cambiamento
qui è stato rapidissimo: lindebolimento della capitalizzazione
di mercato delle grandi banche americane si è manifestato
dal giugno al settembre 2007, quando le prime conseguenze della
crisi finanziaria cominciarono a diventare evidenti e condussero
successivamente a importanti iniezioni di capitale non americano
nei principali istituti bancari degli Stati Uniti e a un rapido
e imponente ricambio dei vertici.
Se consideriamo il valore di mercato delle prime dieci banche quotate
nel mondo, vediamo che gli istituti bancari anglosassoni (Usa +
UK) occupavano i primi sei posti della graduatoria mondiale nel
marzo del 2005; soltanto i primi tre posti nel giugno del 2007;
e nel settembre dello stesso anno avevano dovuto cedere il primato
a una banca cinese. La politica di (parziale) privatizzazione dei
grandi istituti bancari di quel Paese ha fortemente modificato il
quadro finanziario mondiale. La conclusione è rafforzata
se si guarda anche alle assicurazioni: lirrompere degli istituti
assicurativi cinesi si è accompagnato alla debolezza di quelli
americani, anchessi toccati da vicissitudini finanziarie.
La variazione nel valore di mercato di banche e assicurazioni può
modificare in maniera sostanziale il quadro generale dei flussi
finanziari. Esso è strettamente collegato alle variazioni
dellimportanza relativa delle principali piazze finanziarie
mondiali, che esaminiamo qui di seguito.
La rapida variazione dei pesi delle Borse
Non sorprenderà certo, a questo punto, che lanalisi
del peso delle singole Borse o piazze finanziarie conferma il quadro
di indebolimento della supremazia americana finora delineato. Negli
anni Novanta, la capitalizzazione di mercato delle piazze americane
oscillava attorno al 50-55 per cento del totale mondiale; successivamente,
la perdita di valore del dollaro e i lunghi periodi di stagnazione
o quasi-stagnazione dei listini americani, in un panorama di forte
crescita dei mercati emergenti, hanno alterato fortemente il quadro
e hanno portato, nei primi anni del nuovo millennio, la quota americana
a ridursi di circa dieci punti percentuali.
Su questa situazione di declino strutturale si innestano i cambiamenti
degli ultimi mesi. In questo caso, è stato possibile, sulla
base dei dati di Bloomberg, estendere losservazione fino a
tutto gennaio 2008.
Risultati: nel febbraio 2007, la quota americana era ormai ridotta
al 35 per cento della capitalizzazione mondiale, ossia sostanzialmente
in linea con la quota del Prodotto lordo degli Usa sulla produzione
mondiale. Vi è però una rapidissima riduzione tra
il febbraio e il dicembre 2007, quando la quota stessa scende addirittura
sotto il 30 per cento; nel gennaio 2008, anche a seguito delle vigorose
misure per sostenere leconomia (forte riduzione del costo
del lavoro e consistenti sgravi fiscali), si osserva un rimbalzo
che riporta la quota americana al livello del 30 per cento. Mutamenti
così importanti in un tempo così ristretto sono piuttosto
eccezionali, ma si inquadrano in un panorama mondiale in cui il
mutamento dei pesi delle Borse è estremamente rilevante.
Secondo gli stessi dati Bloomberg, la capitalizzazione del mercato
azionario cinese era pari al 2,9 per cento della capitalizzazione
mondiale nel febbraio 2007, e al 7,2 per cento nel gennaio 2008.
Questo rifletteva direttamente la grande avanzata dei mercati interni
cinesi di Shenzen e Shanghai, il cui volume di contrattazioni rivaleggia
ormai con le principali piazze europee, a seguito dellondata
cinese di privatizzazioni. Nel frattempo, però, era aumentato
fortemente anche il mercato indiano (dall1,6 al 2,7 per cento
della capitalizzazione mondiale), mentre aumenti ragguardevoli di
quota venivano conseguiti dai mercati brasiliano, messicano e coreano,
nonché dal mercato australiano.
Nel gennaio 2008, la quota della capitalizzazione dei mercati borsistici
globali, complessivamente realizzata dai Paesi emergenti (compresi
Russia e Hong Kong) superava il 20 per cento della capitalizzazione
globale; un anno prima si collocava a poco più del 12 per
cento rispetto allanno precedente. Oltre che agli Stati Uniti,
le quote di mercato così guadagnate erano tolte agli altri
Paesi avanzati, con una vistosa perdita anche per il Giappone.
In maniera meno facilmente misurabile, ma pur sempre molto concreta,
si avverte una maggiore autonomia delle piazze finanziarie emergenti
rispetto alle piazze americane ed europee: per quanto ancora in
fasce, un grande mercato finanziario come quello cinese ha relativamente
poco bisogno dellintermediazione di Wall Street. Perché
il risparmio cinese deve essere investito in titoli del debito pubblico
americano e solo successivamente trovare la via dellinvestimento
in Cina? Questo tipo di domanda comincia ad essere posto in maniera
sempre più frequente, con laumento del know how finanziario
che rende le nuove piazze in grado di compiere operazioni sempre
più complesse e di offrire esse stesse nuovi prodotti, un
tempo prerogativa gelosa delle piazze dei Paesi ricchi.
La posizione dellItalia
Qual è, in tutto questo sommovimento, la posizione dellItalia?
Purtroppo, lanalisi dei mercati finanziari conferma la diagnosi,
sempre più frequente, di uno specifico indebolimento italiano
allinterno di un più generale e più blando
indebolimento europeo; si osservano, infatti, una perdita
di quota più marcata di quella degli altri Paesi e labbandono
di posizioni di prima fila.
La quota dellItalia sulla capitalizzazione di Borsa delle
grandi società è diminuita in maniera relativamente
marcata, passando dal 2,6 al 2,1 per cento, con un calo prossimo
al 20 per cento. Si verifica qui un ennesimo caso di sorpasso
spagnolo, in quanto il Paese iberico sale di quota dall1,9
al 2,3 per cento, ma gli altri Paesi europei registrano tutti (al
marzo 2007, e quindi prima della crisi finanziaria) un aumento o
una stabilità di quota.
Per quel che riguarda le imprese italiane incluse nella classifica
internazionale, si tratta di una presenza sparuta, e per di più
la pattuglia delle nostre imprese inserite tra le 500
maggiori per capitalizzazione subisce una forte decurtazione, e
non è una consolazione apprendere che almeno in parte tale
decurtazione è il risultato di fusioni: le fusioni sono state
un fatto caratterizzante di questa stagione del capitalismo, ma
gli altri Paesi sono stati in grado non solo di operare fusioni
ma anche di far crescere nuove imprese.
Infine, esaminiamo landamento della quota di capitalizzazione
di mercato di alcuni importanti Paesi europei nel periodo che va
da febbraio 2007 a gennaio 2008: la sola Germania (Paese in cui
la capitalizzazione di Borsa è inferiore a quella di molte
altre economie moderne, per la forte presenza come in Italia
di imprese familiari e partecipazioni pubbliche) mantiene
allincirca invariata la propria quota.
LItalia mostra una tendenza a scivolare che purtroppo è
messa in luce da molte altre statistiche. Non ci rimane che sperare
che questa lunghissima scivolata abbia fine, piuttosto prima che
poi.
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