Settembre 2008

Protagonisti della globalizzazione

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Il capitalismo capovolto
Mario Deaglio Docente Università di Torino
 
 

 

 

 

Si parla spesso
di variazioni
climatiche epocali,
ma poco del
cambiamento
molto più rapido che si verifica
nell’economia mondiale, sotto
i nostri disattenti occhi.

 

Nelle nostre carte geografiche, l’Europa sta sempre in alto a sinistra, l’India e la Cina sono quindi collocate in basso a destra; in quelle americane, il Continente scoperto da Cristoforo Colombo è fermamente al centro, circondato da due grandi oceani, mentre gli altri Paesi fanno da corona, spesso poco discernibile, sui bordi esterni.
Queste rappresentazioni schematiche, frutto di una lunghissima tradizione, mostrano quanto pregiudizi secolari dei quali non abbiamo coscienza possano pesare sulla nostra concezione del mondo e sul nostro modo di rapportarci alla realtà che ci circonda. Essi sono di ostacolo alla nostra percezione del cambiamento e alimentano un’illusione: disegnando le carte geografiche così come le disegnano oggi, europei e americani inconsciamente danno per indiscutibile una centralità del loro ruolo che oggi, al contrario, non è più scontata.
La difficoltà di rendersi conto del cambiamento è resa ancora maggiore dal flusso costante di notizie nel quale siamo sempre più immersi. La nostra attenzione è ossessivamente portata verso il sensazionale anziché lo strutturale, verso il piccolo fatto di dettaglio anziché verso il cambiamento profondo che non “fa notizia” ma influenzerà gli sviluppi successivi; in altre parole, guardiamo intensamente l’albero e così non ci accorgiamo della foresta, la quale, come nel quinto atto di Macbeth, non sta ferma, ma anzi si sta muovendo e ci sta circondando.
La tesi di questo breve saggio è che si stia verificando un cambiamento rapidissimo nella struttura economica e finanziaria mondiale, rimasta sostanzialmente inalterata per circa sessant’anni, ossia dal secondo dopoguerra. Tra il 2000 e il 2007, l’importanza relativa delle grandi aree del mondo è bruscamente cambiata, il mondo si è come capovolto. Il processo di globalizzazione avrebbe dovuto dar luogo a un’economia mondiale incentrata sugli Stati Uniti, mentre sembra profilarsi un futuro multicentrico.
Si parla spesso delle prossime, grandi variazioni climatiche che, secondo l’opinione prevalente, si verificheranno improvvisamente dopo un lungo periodo preparatorio di piccoli aumenti di temperatura. Montagne di ghiaccio si scioglieranno, il livello del mare si alzerà e ci troveremo di colpo in un mondo diverso. Non sappiamo se questo scenario apocalittico si avvererà per il clima ma, dopo ampi segni premonitori, nel corso degli ultimi tre-quattro anni un cambiamento molto più rapido sta verificandosi nella struttura economica mondiale, sotto i nostri – spesso disattenti – occhi.

Tale mutamento è a un tempo quantitativo e qualitativo, riguarda i Paesi (e i gruppi di Paesi), le imprese, in modo particolare quelle grandi, e i mercati. Per rendersene conto, occorre osservare l’economia su un arco temporale relativamente lungo e integrare l’osservazione macroeconomica con lo studio dei mercati mondiali, a cominciare da quelli finanziari, nonché di imprese e istituzioni finanziarie le cui dimensioni sono talora simili a quelle di Stati medi o medio-grandi.
Il “capovolgimento” si è già verificato, a cavallo del nuovo millennio, nell’industria mondiale, e una sua breve descrizione serve a mettere a fuoco l’argomento. Successivamente, l’attenzione sarà rivolta al rapidissimo e incerto rivolgimento in atto sui mercati finanziari mondiali. Si accennerà alla posizione dell’Italia in questa situazione mobile.

Il capovolgimento industriale:
non siamo più noi a comandare

Il caso più importante di capovolgimento riguarda la variazione nel peso delle grandi aree sulla produzione industriale del pianeta; questa quota era da molto tempo in lentissima, fisiologica diminuzione.
Nella seconda metà degli anni Ottanta era pari al 58 per cento della produzione industriale mondiale, e si abbassava di circa un punto percentuale al decennio; negli ultimi anni Novanta questo ritmo di abbassamento accelera, e nel 1999 la quota risulta pari al 54 per cento.
Poi, il crollo: in sette anni, ossia dal 1999 al 2006, la quota si riduce di undici punti percentuali, ossia di un quinto, e fa registrare il valore 43,4 per cento. La variazione percentuale della quota sull’anno precedente passa da -0,76 per cento del 1999 a -3,52 per cento nel 2006. Analoghi andamenti “esplosivi” nei primi anni del nuovo millennio si osservano per altri fenomeni economici mondiali, come, ad esempio, l’accumulo di riserve valutarie da parte dei Paesi emergenti.
Non si tratta solo di variazioni quantitative. Si stanno rapidamente modificando procedure, sistemi di controllo, tecnologie, e il senso generale di questo cambiamento è uno solo: non siamo più noi (questo “noi” può essere riferito agli americani o agli europei o a tutti i Paesi ricchi) a comandare.
Chi comanda, allora? In questo momento, probabilmente nessuno: siamo entrati in un’epoca di transizione in cui all’attenuazione (e possibile scomparsa) del primato economico da parte degli Stati Uniti non fa da contrappunto l’emergere di un solo successore alla potenza economica nordamericana – che, peraltro, mantiene posizioni di tutto rispetto – ma piuttosto di una serie di potenze economiche che si bilanciano e controbilanciano in un equilibrio incerto.
La crisi finanziaria mondiale, nata dai mutui subprime e ufficialmente riconosciuta come tale dalla riunione di Tokyo dei ministri economici del G7 dell’8-9 febbraio 2007, rende ancora maggiore l’incertezza. Inizialmente minimizzata, molte volte data per superata, si è rivelata invece indizio di un malessere più generale delle economie più ricche e avanzate, che si sta diffondendo in maniera estremamente rapida all’economia reale, facendosi beffe dei maggiori centri di previsione del mondo, costretti a rivedere affannosamente al ribasso le stime di crescita per il 2008, ancora fresche d’inchiostro, e obbligando i Governi a rivedere e correggere leggi finanziarie appena approvate, sovente con grande fatica.

L’indebolimento del potere finanziario americano

L’analisi, in un contesto globale, della capitalizzazione di mercato, a livello di grandi imprese e di singole piazze finanziarie, consente di determinare l’importanza relativa di queste ultime e apre la via a uno studio del potere economico-finanziario inizialmente sviluppato da economisti, ma sempre più frequentemente portato avanti da politologi. Essa presuppone l’esistenza di un nesso logico del tipo:

- capitalizzazione di mercato delle imprese;
- potere di aggregazione e di iniziativa delle imprese sui mercati finanziari in cui le imprese operano;
- importanza di questi mercati;
- rilevanza economico-finanziaria (potere) dei Paesi nei quali i mercati sono collocati.

Questi nessi logici inducono a studiare le variazioni relative della capitalizzazione di mercato sia a livello aggregato sia a livello delle maggiori imprese quali proxy delle variazioni della rilevanza economico-finanziaria dei singoli Paesi, mercati e imprese.
Va notato che il valore di mercato – espresso in un’unica moneta, cioè in dollari – tiene conto sinteticamente di diverse variabili, quali:

- l’andamento e le prospettive delle singole imprese;
- l’evoluzione nel senso del mercato dei Paesi in cui i centri borsistici sono collocati (in quanto le privatizzazioni e l’offerta di azioni di imprese privatizzate sui mercati aumentano l’importanza delle piazze finanziarie sulle quali le imprese sono quotate) e il potere di attrazione dei capitali da parte di quella piazza finanziaria;
- il cambio della valuta del Paese in cui il mercato è collocato.
Nel complesso, il peso dei singoli Paesi per capitalizzazione di mercato può costituire un buon indicatore quantitativo del soft power nel senso di Nye (2002).
Date queste premesse, le graduatorie delle maggiori imprese in base alla capitalizzazione di mercato si trasformano da una sorta di “campionato” del capitalismo, al quale dedicare poco più di una passeggera curiosità, a importanti strumenti in grado di raccontare qualcosa sul potere nell’economia e sulle sue variazioni.
Purtroppo queste statistiche non sono troppo sistematiche, risentono di problemi di valutazione (si pensi alle operazioni di fusione, agli spin-off, alle variazioni nel valore nominale del capitale, ecc.), né esiste alcuna organizzazione ufficiale che sistematicamente le raccolga; le serie più importanti sono quelle costruite attraverso gli anni dal quotidiano inglese Financial Times, che classifica in base alla capitalizzazione di mercato le 500 maggiori imprese quotate del mondo, e dal settimanale americano Business Week, che classifica le principali 1.200 imprese con criteri analoghi.

L’analisi di “Financial Times” 500

Si è scelto di operare sui dati del Financial Times e di concentrare l’attenzione su avvenimenti recentissimi, ossia sul periodo giugno 2005-giugno 2007, con dati provvisori che consentono di spingere l’analisi fino al settembre 2007. Si tratta, peraltro, di un periodo denso di mutamenti importanti, nel quale la crisi finanziaria originata dai mutui subprime ha dato le sue prime manifestazioni.
Va inoltre ricordato che le prime 500 imprese incidono per circa la metà sulla capitalizzazione totale delle Borse mondiali, secondo i dati di Bloomberg, e che le prime 10-15 imprese incidono per quasi il 10 per cento sulla capitalizzazione totale. Se si eccettua l’ulteriore proposizione che il potere finanziario di iniziative e di aggregazione vari in maniera più che proporzionale alla capitalizzazione di Borsa, si giunge alla conclusione che è particolarmente importante analizzare i cambiamenti nelle prime posizioni di questo lungo elenco.
Una prima, sommaria analisi dei risultati, suddivisi per Paese, rende possibile giungere a quattro importanti conclusioni.
1) Si è verificato un forte allargamento del mercato. Nel 2005, le imprese esaminate provenivano da 32 Paesi, nel 2007 i Paesi erano saliti a 37. Il tasso di rinnovamento della lista è di poco inferiore al 20 per cento nel periodo considerato, il che indica un rinnovamento piuttosto rapido.

2) Si è verificato un forte aumento dei valori monetari. La valutazione complessiva cresce del 41 per cento in dollari; questo riflette sia la robusta crescita in termini reali (il Prodotto lordo mondiale sale del 4,5-5 per cento all’anno) sia l’altrettanto robusta caduta del dollaro.
3) Le grandi imprese americane hanno subìto una rapida perdita di importanza quanto meno di tipo quantitativo: il valore di quelle che sono presenti nella lista risulta accresciuto appena dell’1,2 per cento. Questo fa sì che, in termini di euro, la salita dei valori americani in questo periodo sia stata più che controbilanciata dalla discesa del valore del dollaro.
4) Sono comparse sul mercato molte nuove grandi imprese non statunitensi, in parte a seguito di privatizzazioni, spesso parziali, nei Paesi emergenti, mentre sono uscite molte imprese statunitensi. Nella classifica si constata una diminuzione netta delle imprese degli Stati Uniti pari a 35 unità, ossia al 16 per cento delle imprese non solo di Paesi emergenti, ma anche di Paesi avanzati.

Del poco invidiabile primato dell’Italia in questa classifica si parlerà più avanti. A questo punto è sufficiente sottolineare che queste variazioni, che vanno confortate da altri dati, mostrano – sia pure in maniera imperfetta – la diversa “vitalità” del capitalismo finanziario nei vari Paesi, con risultati ampiamente divergenti in Europa. Assai più rilevante di quella dell’Italia – che pure ha una perdita netta pari a un terzo delle proprie imprese presenti nella lista – in questo contesto, appare la posizione degli Stati Uniti, un Paese per il quale la riduzione relativa è inferiore, ma la riduzione assoluta decisamente superiore.
Se ne dovrebbe dedurre che il mercato azionario americano è oggi meno “vitale”; il che coincide con le numerose lamentele sulla difficoltà e sul costo della presenza su quel mercato a seguito delle disposizioni sulla trasparenza della legge Sarbanes-Oxley. Proprio questa maggiore difficoltà a quotarsi e a operare negli Stati Uniti ha indotto le Borse americane a cercare alleanze all’estero.
Conclusioni dell’analisi delle variazioni: su una capitalizzazione aggiuntiva delle prime 500 società pari a quasi 8.000 miliardi di dollari (ossia più di cinque volte il Prodotto lordo italiano), l’aumento complessivo di valore delle imprese americane presenti in Financial Times Global 500 è pari a poco più di 1.000 miliardi. L’aumento di valore delle imprese cinesi (Hong Kong inclusa) è pressoché identico; e l’aumento di valore delle imprese di quella che viene spesso chiamata “Asia emergente” supera l’aumento di valore delle imprese americane.

La geografia finanziaria che si evince è dunque nettamente diversa da quella alla quale siamo abituati da decenni. All’aumento complessivo della capitalizzazione di mercato delle grandi imprese contribuiscono più gli europei che gli americani (i quali scontano fortemente la perdita di valore del dollaro e i già citati vincoli della legge Sarbanes-Oxley); la posizione, particolarmente rilevante, di Londra, è riportata separatamente da quella delle grandi piazze europee in quanto il mercato britannico, forte della sua riconquistata posizione centrale – anche grazie all’opera d’intermediazione dei capitali arabi – contribuisce per l’11,5 per cento, ossia poco meno degli Stati Uniti, all’incremento complessivo.
E soprattutto appare importante la presenza del “blocco asiatico”, costituito da Cina (con Hong Kong), India e Corea, che contribuisce per il 16,4 per cento all’aumento complessivo, così come sulla scena finanziaria mondiale appare in forte posizione la Russia, mentre Australia e Canada, con la loro forte incidenza nei settori delle materie prime, acquistano un’importanza particolare.

La variazione della capitalizzazione di mercato delle grandi banche

Un’attenzione speciale va riservata al settore bancario, e in particolare alle grandi banche, per la loro funzione d’intermediazione che di fatto assegna loro compiti istituzionali. Il cambiamento qui è stato rapidissimo: l’indebolimento della capitalizzazione di mercato delle grandi banche americane si è manifestato dal giugno al settembre 2007, quando le prime conseguenze della crisi finanziaria cominciarono a diventare evidenti e condussero successivamente a importanti iniezioni di capitale non americano nei principali istituti bancari degli Stati Uniti e a un rapido e imponente ricambio dei vertici.
Se consideriamo il valore di mercato delle prime dieci banche quotate nel mondo, vediamo che gli istituti bancari anglosassoni (Usa + UK) occupavano i primi sei posti della graduatoria mondiale nel marzo del 2005; soltanto i primi tre posti nel giugno del 2007; e nel settembre dello stesso anno avevano dovuto cedere il primato a una banca cinese. La politica di (parziale) privatizzazione dei grandi istituti bancari di quel Paese ha fortemente modificato il quadro finanziario mondiale. La conclusione è rafforzata se si guarda anche alle assicurazioni: l’irrompere degli istituti assicurativi cinesi si è accompagnato alla debolezza di quelli americani, anch’essi toccati da vicissitudini finanziarie.
La variazione nel valore di mercato di banche e assicurazioni può modificare in maniera sostanziale il quadro generale dei flussi finanziari. Esso è strettamente collegato alle variazioni dell’importanza relativa delle principali piazze finanziarie mondiali, che esaminiamo qui di seguito.

La rapida variazione dei pesi delle Borse

Non sorprenderà certo, a questo punto, che l’analisi del peso delle singole Borse o piazze finanziarie conferma il quadro di indebolimento della supremazia americana finora delineato. Negli anni Novanta, la capitalizzazione di mercato delle piazze americane oscillava attorno al 50-55 per cento del totale mondiale; successivamente, la perdita di valore del dollaro e i lunghi periodi di stagnazione o quasi-stagnazione dei listini americani, in un panorama di forte crescita dei mercati emergenti, hanno alterato fortemente il quadro e hanno portato, nei primi anni del nuovo millennio, la quota americana a ridursi di circa dieci punti percentuali.
Su questa situazione di declino strutturale si innestano i cambiamenti degli ultimi mesi. In questo caso, è stato possibile, sulla base dei dati di Bloomberg, estendere l’osservazione fino a tutto gennaio 2008.
Risultati: nel febbraio 2007, la quota americana era ormai ridotta al 35 per cento della capitalizzazione mondiale, ossia sostanzialmente in linea con la quota del Prodotto lordo degli Usa sulla produzione mondiale. Vi è però una rapidissima riduzione tra il febbraio e il dicembre 2007, quando la quota stessa scende addirittura sotto il 30 per cento; nel gennaio 2008, anche a seguito delle vigorose misure per sostenere l’economia (forte riduzione del costo del lavoro e consistenti sgravi fiscali), si osserva un rimbalzo che riporta la quota americana al livello del 30 per cento. Mutamenti così importanti in un tempo così ristretto sono piuttosto eccezionali, ma si inquadrano in un panorama mondiale in cui il mutamento dei pesi delle Borse è estremamente rilevante.
Secondo gli stessi dati Bloomberg, la capitalizzazione del mercato azionario cinese era pari al 2,9 per cento della capitalizzazione mondiale nel febbraio 2007, e al 7,2 per cento nel gennaio 2008. Questo rifletteva direttamente la grande avanzata dei mercati “interni” cinesi di Shenzen e Shanghai, il cui volume di contrattazioni rivaleggia ormai con le principali piazze europee, a seguito dell’ondata cinese di privatizzazioni. Nel frattempo, però, era aumentato fortemente anche il mercato indiano (dall’1,6 al 2,7 per cento della capitalizzazione mondiale), mentre aumenti ragguardevoli di quota venivano conseguiti dai mercati brasiliano, messicano e coreano, nonché dal mercato australiano.
Nel gennaio 2008, la quota della capitalizzazione dei mercati borsistici globali, complessivamente realizzata dai Paesi emergenti (compresi Russia e Hong Kong) superava il 20 per cento della capitalizzazione globale; un anno prima si collocava a poco più del 12 per cento rispetto all’anno precedente. Oltre che agli Stati Uniti, le quote di mercato così guadagnate erano tolte agli altri Paesi avanzati, con una vistosa perdita anche per il Giappone.
In maniera meno facilmente misurabile, ma pur sempre molto concreta, si avverte una maggiore autonomia delle piazze finanziarie emergenti rispetto alle piazze americane ed europee: per quanto ancora in fasce, un grande mercato finanziario come quello cinese ha relativamente poco bisogno dell’intermediazione di Wall Street. Perché il risparmio cinese deve essere investito in titoli del debito pubblico americano e solo successivamente trovare la via dell’investimento in Cina? Questo tipo di domanda comincia ad essere posto in maniera sempre più frequente, con l’aumento del know how finanziario che rende le nuove piazze in grado di compiere operazioni sempre più complesse e di offrire esse stesse nuovi prodotti, un tempo prerogativa gelosa delle piazze dei Paesi ricchi.

La posizione dell’Italia

Qual è, in tutto questo sommovimento, la posizione dell’Italia? Purtroppo, l’analisi dei mercati finanziari conferma la diagnosi, sempre più frequente, di uno specifico indebolimento italiano all’interno di un più generale – e più blando – indebolimento europeo; si osservano, infatti, una perdita di quota più marcata di quella degli altri Paesi e l’abbandono di posizioni di prima fila.
La quota dell’Italia sulla capitalizzazione di Borsa delle grandi società è diminuita in maniera relativamente marcata, passando dal 2,6 al 2,1 per cento, con un calo prossimo al 20 per cento. Si verifica qui un ennesimo caso di “sorpasso spagnolo”, in quanto il Paese iberico sale di quota dall’1,9 al 2,3 per cento, ma gli altri Paesi europei registrano tutti (al marzo 2007, e quindi prima della crisi finanziaria) un aumento o una stabilità di quota.
Per quel che riguarda le imprese italiane incluse nella classifica internazionale, si tratta di una presenza sparuta, e per di più la “pattuglia” delle nostre imprese inserite tra le 500 maggiori per capitalizzazione subisce una forte decurtazione, e non è una consolazione apprendere che almeno in parte tale decurtazione è il risultato di fusioni: le fusioni sono state un fatto caratterizzante di questa stagione del capitalismo, ma gli altri Paesi sono stati in grado non solo di operare fusioni ma anche di far crescere nuove imprese.
Infine, esaminiamo l’andamento della quota di capitalizzazione di mercato di alcuni importanti Paesi europei nel periodo che va da febbraio 2007 a gennaio 2008: la sola Germania (Paese in cui la capitalizzazione di Borsa è inferiore a quella di molte altre economie moderne, per la forte presenza – come in Italia – di imprese familiari e partecipazioni pubbliche) mantiene all’incirca invariata la propria quota.
L’Italia mostra una tendenza a scivolare che purtroppo è messa in luce da molte altre statistiche. Non ci rimane che sperare che questa lunghissima scivolata abbia fine, piuttosto prima che poi.

 

   
   
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