Settembre 2008

Ricordando la storia degli ottomani

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Un monito
per gli Stati Uniti
Mabel  
 
 

 

 

 

Questa volta
i creditori
comprano azioni bancarie,
non azioni del
Canale di Suez,
e di conseguenza
il potere si sposta decisamente da Occidente verso Oriente.

 

Ci sarà un momento in cui gli storici si accorgeranno, magari sorprendendosi, che il decennio attuale ricorda molto da vicino un altro analogo periodo, appartenente sempre agli anni della seconda metà di un secolo, anche se non di quello appena trascorso, ma del XIX. Un secolo che non era coinvolto in crisi petrolifere, in svalutazioni della divisa americana, in guerre lontane e senza soluzioni di continuità per il controllo delle materie prime, e in altri accidenti nostri contemporanei. Parliamo del 1870.
Tanto per dire, a distanza di circa centoquarant’anni le analogie potrebbero anche non apparire ovvie. In quell’anno i leader conservatori, come Benjamin Disraeli, primo ministro britannico, erano benvoluti; i prezzi erano abbastanza bassi dopo la crisi finanziaria del 1873, e le immense pianure statunitensi venivano “redente”, dissodate per lo sviluppo delle attività agricole. Era un periodo di stabilità monetaria, con tutti i Paesi che seguivano l’esempio della Gran Bretagna, agganciando la propria valuta alle riserve auree possedute.
Eppure, a riflettere più in profondità, ci si accorge che stiamo attraversando una stagione di spostamento globale nell’equilibrio del potere, davvero molto simile a quanto si verificò proprio nel 1870. Questa è la storia di un grande Impero – affermatosi in tre Continenti per settecento anni – che ad un certo punto tentò di far fronte alla crisi del debito estero, praticamente svendendo tutti i propri averi agli investitori stranieri. Nel 1870 fu l’Impero Ottomano ad affrontare questa crisi. Ai nostri giorni, tocca agli USA.

In seguito alla guerra di Crimea, il Sultano e Califfo di Costantinopoli e il suo vassallo d’Egitto, un khedivè, iniziarono ad accumulare un ingentissimo debito, sia interno sia estero. Tra il 1855 e il 1875, il debito ottomano aumentò di ventotto volte. Per quanto riguarda la percentuale delle spese, gli interessi e gli ammortamenti passarono dal 15 per cento nel 1860 al 50 per cento nel 1875. In Egitto la situazione venutasi a creare era analoga: tra il 1862 e il 1876 il debito pubblico totale lievitò da 3,3 milioni a 76 milioni di sterline inglesi. Il bilancio del 1876 rivelò che il debito aveva già superato la metà della spesa.

I prestiti erano stati richiesti per ragioni militari e per esigenze economiche: per sostenere la posizione militare ottomana sia durante che dopo la guerra di Crimea e per finanziare la costruzione di canali e di ferrovie, (per le strade ferrate operarono soprattutto i tedeschi e gli italiani), compreso il Canale di Suez, inaugurato nel 1869, e per il varo (ad opera dell’Inghilterra) di navi corazzate che nessun equipaggio turco era in grado di governare.

Ma ingenti somme di denaro vennero sperperate per uno sfrenato consumismo: ne sono ancora oggi un esempio il lussuoso Palazzo Dolmabahçe a Istanbul, voluto dal Sultano Abdul Mejid (con un salone di cinquecento metri, contenente gli specchi più grandi del mondo), e la straordinaria prima mondiale dell’Aida al Teatro dell’Opera del Cairo nel 1871. Sulla scia della crisi finanziaria che colpì nel 1873 la Borsa europea e quella americana, il terremoto finanziario nel Vicino Oriente fu semplicemente e drammaticamente inevitabile. Sicché, nell’ottobre del 1875 il Governo ottomano fu costretto a dichiarare bancarotta.
La crisi ebbe sul piano strettamente finanziario due distinte conseguenze: la vendita delle azioni del Canale di Suez del khedivè al Governo inglese, (4 milioni di sterline inglesi anticipati a Disraeli dai Rothschild), e l’ipoteca su alcune tasse dell’Impero Ottomano, stabilita con il sostegno dell’Amministrazione Internazionale del Debito Pubblico Ottomano, che rappresentava gli obbligazionisti europei.
Il problema fu che la crisi del debito rese necessaria la vendita o il trasferimento delle entrate del Vicino Oriente all’Europa.
È fuor di dubbio che la crisi del debito negli Stati Uniti si è sviluppata in maniera del tutto diversa. Il deficit estero è cresciuto in modo estremamente rapido come conseguenza degli indebitamenti del Governo americano e delle famiglie statunitensi. Non è il settore pubblico ad essere inadempiente, ma lo sono coloro i quali richiedono dei prestiti senza fornire le dovute garanzie (gli ormai celeberrimi “mutui subprime”).

Al modo del 1870, tuttavia, il risultato di questa crisi è la cessione dei beni e dei guadagni ai creditori stranieri. Questa volta, però, i creditori comprano azioni bancarie, non azioni del Canale di Suez. E di conseguenza, il potere si sposta decisamente da Occidente verso Oriente.
Dal settembre dell’anno scorso, i Fondi Sovrani Mediorientali hanno messo a segno una serie di investimenti in quattro grandi banche statunitensi: la Bear Stearns, la Citigroup, la Morgan Stanley e la Merrill Lynch (il 10% di Morgan Stanley e di Citigroup sono nelle mani rispettivamente degli investitori cinesi e mediorientali, mentre la Citicorp, una delle banche più grandi del mondo, per salvarsi dal ciclone “subprime”, ha dovuto bussare alle porte dell’Abu Dhabi Investment Authority, il Fondo Sovrano più ricco del pianeta, N.d.R.).


Molti analisti hanno colto con evidente favore questo salvataggio globale: meglio rastrellare capitale estero, piuttosto che ridurre il proprio bilancio, limitando i prestiti. Tuttavia, è necessario riconoscere che queste “iniezioni di capitale” rappresentano un vero e proprio trasferimento delle entrate dalle istituzioni finanziarie americane nelle mani di Governi stranieri. E questo si verifica proprio nel momento in cui il divario tra i redditi occidentali e quelli orientali si riduce ad una velocità senza precedenti. In altri termini, come nel 1870, mutano gli equilibri del potere finanziario. Allora lo spostamento andava dagli antichi Imperi orientali (non soltanto quello Ottomano, ma anche quello Cinese e quello Persiano) all’Europa occidentale; oggi va dagli Stati Uniti d’America – e da altri centri finanziari occidentali – alle autocrazie del Vicino Oriente e dell’Asia orientale. Ai tempi di Disraeli e della potenza imperiale britannica, la crisi del debito ebbe implicazioni sia politiche che finanziarie, lasciando prevedere una riduzione dei guadagni ma anche della sovranità dei debitori.
Nel caso dell’Egitto (prima area a reclamare e ad ottenere una sovranità autonoma dall’Impero Ottomano, ancorché formalmente legata al Sultano e Califfo di Costantinopoli), quello che era iniziato con la vendita dei beni proseguì con la costituzione di una Commissione estera per gestire il debito pubblico, poi con l’instaurazione di un “Governo internazionale”, e infine con l’intervento militare inglese (all’inizio della Prima guerra mondiale) che trasformò il Paese, insieme con il Sudan “anglo-egiziano”, in una colonia a tutti gli effetti. Nel caso della Turchia, alla crisi del debito seguirono l’abdicazione del Sultano e l’intervento militare russo, che inflisse il colpo decisivo alla posizione ottomana nei Balcani. Occorre vedere quanto tempo ci vorrà perché all’attuale spostamento del potere segua uno geo-politico a favore dei nuovi Imperi dell’Est, che fondano la loro potenza soprattutto sulle risorse energetiche e sulle esportazioni.
In ogni caso, si può dire che l’analogia storica non è di buon auspicio per la rete quasi imperiale di basi e di alleanze di cui gli Stati Uniti d’America dispongono nel Vicino e Medio Oriente e in Asia. Prima o poi non sarà più sufficiente vendere le azioni. La storia ci insegna che gli Imperi debitori saranno costretti a fare ben altro, per soddisfare quelli creditori.

 

   
   
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