Settembre 2008

Dollaro sulla via del tramonto?

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Un biglietto per il mondo
Alberto Berardi Fattori  
 
 

 

 

 

Scioccante vedere oggi il dollaro
imbarcare acqua, speronato dall’euro, dalla sterlina, dal
franco svizzero, persino dall’umile dollaro canadese, considerati poco più di tagliandi
per il gioco del
Monopoli.

 

Dollaro. La parola ha il suono dei talleri d’argento boemo ai quali deve il nome. Evoca sogni di ricchezza, ma soprattutto di sicurezza, di forza, di egemonia, come una nave inaffondabile tra la flotta di barchette e navigli monetari sballottati dai marosi delle periodiche tempeste valutarie.
Vederlo oggi imbarcare acqua speronato dall’euro, dalla sterlina, dal franco svizzero, persino dall’umile dollaro canadese, che gli statunitensi avevano sempre considerato come tagliandi per il gioco del Monopoli, è molto più che un problema finanziario o una questione di commerci e di scambi internazionali. È lo shock di scoprire che una supremazia in apparenza inattaccabile, espressione e strumento nello stesso tempo della supremazia dell’America sul mondo, sta rischiando di colare a picco.
Il dollaro è stato per oltre settant’anni molto più di uno strumento valutario, di una moneta-rifugio o di una riserva custodita nei forzieri delle nazioni, o nei conti numerati dei despoti e dei trafficanti: è stata la bandiera che i marines e i fanti sbarcati nelle isole del Pacifico e sulle spiagge della Normandia piantarono, anche acquistandola con le loro vite, sul mondo.
Agli elettori americani che guidano Chevrolet e Ford, che fanno acquisti negli hangar commerciali della più grande catena di discount al mondo, la Wal-Mart Stores, che mangia carne macellata in Nebraska, patate raccolte nell’Idaho e indossa camicie cucite in Cina pagate pochi centesimi all’ora, l’affondamento del dollaro interessa ben poco. È l’America della “costa blu” e della “riva sinistra”, delle sponde oceaniche dove milioni di Sans Papier sudano sangue per mandare a casa dollari con i quali si compra sempre meno; è l’America dove si calzano scarpe italiane, si guidano auto tedesche e si sogna la vacanza in Toscana; eccola, questa America, dove l’anemia della valuta statunitense pesa.

E qualcuno insinua, come il finanziere James Cramer, conduttore di uno show in Borsa, che al Presidente non dispiaccia molto punire gli snob che comunque non voterebbero mai per i repubblicani o far calare il valore delle rimesse di quegli emigrati che in California votano per i democratici. Ma né a Manhattan né a Omaha, né a San Francisco né a Cincinnati, né a Los Angeles né a San Diego, ci sono quei segnali di panico che avrebbero travolto l’Italia, se avesse visto la vecchia lira affondare.
Sono i centri-studi, gli osservatori che cercano di guardare oltre l’orizzonte dei soliti cicli di boom and crash, come quelli che stanno squassando il mercato degli immobili e dei mutui, quelli che annusano il cambio epocale di clima. «Ormai il mondo ha due monete di riferimento, l’euro e il dollaro», avvertiva già nel 2003 il Cato Institute di Washington, e solo perché la Cina, che insieme con il Giappone possiede la massima quantità di cambiali del Tesoro americano nelle proprie riserve, puntella ancora la valuta Usa, il “Signore onnipotente” non tracolla.

Ma l’universo statico dei cambi, costruito a Bretton Woods sopra l’egemonia politica, militare e culturale degli Stati Uniti dominanti, è divenuto una galassia fluida, un sistema con due soli. Almeno finora. Almeno finché la Cina non deciderà di calare il proprio asso, cioè lo yuan-renminbi, e di commerciare utilizzando la propria moneta.

Di questa rivoluzione, che sta portando a conseguenze forse inevitabili, quel che accadde nel 1971, quando l’America fu costretta ad abbandonare la parità fra dollaro e oro per impedire il saccheggio dei lingotti di Fort Knox compiuto soprattutto dalla Banque de France, la gente sa poco o nulla. I grandi media popolari, e anche i giornali più autorevoli, ignorano il fatto che il dollaro americano si sia dimezzato di valore rispetto all’euro nell’arco di cinque anni, da quando cioè bastavano 75 centesimi di dollaro per comperare un euro. E lo stesso universo di Internet dorme al cospetto del colossale debito statunitense, ai miliardi di buoni del Tesoro accatastati nelle casseforti di Pechino e di Tokyo, al rischio d’inflazione che sempre la svalutazione della propria moneta comporta.
Tutto questo è stato definito l’autismo valutario di una nazione abituata a considerare appunto “Dio” la propria moneta, che resiste anche alle voci terrificanti di un possibile passaggio in massa dei produttori di greggio dal dollaro all’euro; o alle non più tanto velate minacce dei cinesi, che meditano di passare dal dollaro alla valuta europea come principale strumento di riserva. Nel clima di persistente autoreferenzialità che continua a dominare negli Stati Uniti, ipotizzata dalle sirene del “nuovo secolo americano”, non si alza una voce autorevole, né alla Federal Reserve né al Tesoro, che inviti a riflettere su quale fondamentale ruolo abbiano giocato il dollaro, la sua centralità assoluta, il suo essere il denaro del commercio, delle riserve, dell’ultimo rifugio, nel creare il secolo americano vero, il Ventesimo. La fissazione della forza militare ha fatto dimenticare che, senza l’egemonia culturale e l’egemonia finanziaria, le armi da sole non bastano a sostenere un Impero, neanche se lo si ritiene un Impero del Bene.
È stato ricordato che è necessario tirar giù dagli scaffali Hemingway e Fitzgerald per ricordare che cosa fu ai suoi bei tempi il dollaro. Bisogna leggere un brano di Festa mobile, e un altro di The Sun Also Rises (Fiesta, nella celebre traduzione einaudiana), e poi un altro di Tenera è la notte o di Babilonia rivisitata. Ed ecco affiorare, in pochi capoversi, la grandezza della moneta americana, e il suo favoloso potere d’acquisto.

Negli anni immediatamente successivi alla Prima guerra mondiale, Hemingway vive a Parigi, insieme con la prima moglie, Hadley. Dagli Usa riceve la piccola pensione che lo Stato assicura ai reduci (Ernest è stato autista di ambulanze sul fronte italiano, con esperienze che gli ispireranno Addio alle armi), e dal Canada gli pervengono i magri compensi che il “Toronto Star” gli paga, in dollari americani, per i suoi articoli. Eppure vive come un re. Nel 1920 un dollaro vale infatti 15 franchi, nel ‘23 ne vale quasi 17, nel ‘24 supera i 19. E con diciannove franchi – come emerge dalle pagine di Festa mobile – si possono avere moltissime cose: un pranzo alla Closerie des Lilas, vari bicchieri di Bordeaux e di Sancerre, altrettante tazze di café-crème, persino un viaggio ogni tanto fino in Andalusia, a pescar trote dalle parti di Ronda.
Stessa storia quando giungono nella capitale francese Harry e Mary Crosby, Scott e Zelda Fitzgerald, e tutte le altre celebri coppie americane di quegli anni: grandi alberghi, fiumi di champagne, notti di follie. A New York, i guadagni che Fitzgerald ha ricavato con Di qua dal paradiso e con Belli e dannati, e i generosi compensi che le riviste americane gli passano per i racconti non basterebbero a garantirgli una vita così dorata. Ma a Parigi, quando si cambia un traveller’s cheque, si esce da qualsiasi banca con le tasche colme di franchi.
Non si tratta soltanto di costoro. A godere del dollaro pesante fu l’intera “lost generation”, da Pound a Dos Passos, da Anderson a Ford Madox Ford, tutti nella capitale francese, tutti senza grandi mezzi, ma tutti tenuti a galla da un cambio tanto propizio da sembrare miracoloso. E a dir la verità, senza il dollaro a diciannove franchi non ci sarebbe stata la “lost generation”, non ci sarebbero stati gli “expatriates” americani sulle rive della Senna, Gertrude Stein non avrebbe mai potuto parlare di «una generazione perduta».

La festa mobile durò parecchi anni. Ancora nella seconda metà dei Venti, quando se ne erano già andati Hemingway, Fitzgerald e molti altri scrittori americani, dagli Stati Uniti continuavano ad approdare a Parigi coppie celebri e aspiranti artisti. Era in genere gente ricca (e basterebbe pensare al Maugham de Il filo del rasoio) che non abitava a Montparnasse ma all’Avenue Foch, resa ancora più ricca e prodiga proprio dalla potenza del dollaro. Poi, all’improvviso, sopraggiunse il terremoto del ‘29: il crollo di Wall Street trascinò nel gorgo anche il valore del dollaro, la vita a Parigi si fece costosa, e gli “expatriates”, salvo Henry Miller, che viveva con molto poco, scomparvero.
Ma si trattò di un allontanamento temporaneo, perché il legame dollaro-Parigi-letteratura si riprodusse, senza variazioni degne di nota, alla fine del Secondo conflitto mondiale. A partire dal ‘48-‘49, dal momento che il dollaro aveva ritrovato la sua imbattibile forza, mentre il franco della Quarta Repubblica zoppicava vistosamente, la capitale francese si affollò di nuovo di scrittori americani, titolari di piccole rendite in valuta statunitense. Punto di ritrovo, questa volta, Saint Germani-de-Prés, dove andarono ad abitare William Styron, James Jones, Richard Wright, James Baldwin, William Gardner Smith… Più in là, dalle parti del boulevard Saint Michel, alcuni anni dopo si attestarono William Burroughs e Allen Ginsberg.

Oggi il dollaro sbanda pericolosamente, sembra un ferito che si stia lentamente ma inesorabilmente dissanguando. Ma allora metteva il vento nelle vele persino della letteratura. E non era soltanto questione di scrittori americani a Parigi. Dagli anni Cinquanta sino alla fine dei Novanta, il biglietto verde è stato un passe-partout per ogni tipo di viaggio in ogni angolo del mondo. È stato un talismano per chi doveva muoversi con una maggiore sicurezza personale nell’Asia, in Africa, nel Vicino, Medio ed Estremo Oriente, nella vecchia Urss e nei Paesi satelliti, dove si poteva essere fermati alla dogana con un pretesto qualsiasi (macchina fotografica con scatti su presunti obiettivi militari, traffici di diamanti, possesso di sostanze stupefacenti, provenienza da Paesi con scarsa igiene e dunque necessità di quarantena) e altri fantasiosi ricatti, che venivano superati senza eccezione, ovunque, facendo scivolare un biglietto da 20 dollari nelle mani della guardia di frontiera. È stato un talismano per ottenere una colazione in camera a Mosca; per farsi dare sigarette americane a Bucarest o un vino discreto a Baghdad o una camera decente in un albergo a Varsavia; o per far trasmettere per telefono un servizio registrato a Delhi o al Cairo o a Dacca o a Pechino o a Islamabad o a Bangkok; per girare in taxi dopo le 20 a Tripoli o per bere un whisky dry in Kuwait...
Oggi che il dollaro “cede, retrocede e periclita” può venire in mente un’ultima immagine di quella che fu la sua leggendaria potenza: le processioni nei paesi del nostro Sud, trenta o quarant’anni fa, quando le Madonne procedevano portate a spalla, e sulle loro vesti si appuntavano – oltre alle nostre lire e alle monete europee – anche i biglietti verdi dei devoti emigrati oltreoceano: anime lontane, che volevano rivendicare radici, fede, e segni della propria fortuna.

Chi ha fatto, negli anni scorsi, una scommessa rialzista sull’oro e sulle materie prime, oggi può solo esser felice. Il valore del metallo giallo è salito oltre misura, superando addirittura la soglia dei 1.000 dollari l’oncia. Nel 2001 valeva attorno ai 300 dollari, e dopo l’11 settembre delle Twin Towers l’intera comunità degli analisti finanziari riteneva il prezzo già spropositato. Alle grandi banche l’oro non piace, si sottrae alle manipolazioni, e di conseguenza viene derubricato a bene-rifugio. Tuttavia, chi ne avesse acquistato all’inizio degli anni Duemila, oggi vedrebbe sostanzialmente triplicato il valore investito.
Il barile del petrolio e le materie prime sono spinti al rialzo, determinato anche dalla caduta del biglietto verde. Un analogo trend si è avuto per gli immobili, ma c’è una differenza, e non da poco: per gli immobili si era in una bolla scatenata dalla politica monetaria della Federal Reserve. Ad un certo punto, la crisi subprime ha rotto gli equilibri. Ma che i prezzi fossero artificialmente troppo alti era evidente. E non solo in centro, a Manhattan.
L’oro è diverso: perché si è apprezzato andando controvento. Si è apprezzato sostanzialmente in virtù della politica della Fed: ha detto agli osservatori di mercato, prima di qualsiasi altro indicatore, che c’era troppa moneta in giro. Quando la moneta è troppa, come del resto qualsiasi altro bene, perde valore. L’oro ce lo ha detto e ce lo continua a dire, anche se Ben Bernanke nega e continua a tagliare i tassi. Intanto, stime di buona fonte suggeriscono che l’inflazione americana veleggi intorno al 7 per cento.

La crescita è pressoché ferma. Non siamo certo alla stagnazione, ma a una vera e propria recessione, in base all’analisi della maggioranza degli economisti interpellati: siamo in una crisi analoga a quella degli anni Settanta. Quella crisi fu generata dall’abbandono anche formale della convertibilità aurea (il “Gold Exchange Standard”), con conseguenti spinte inflazionistiche, alle quali si sommava a livello internazionale una situazione geopoliticamente turbolenta (nel Medio Oriente).

È evidente che il clima odierno ci ricorda da vicino l’inizio degli anni Settanta. Ora come allora, la Cina è in una fase di grandi mutazioni, (ricordiamo che l’inizio del processo di liberalizzazione, voluto da Deng, è del 1978). Ora come allora, il Medio Oriente può tornare ad essere una polveriera, dalla quale dipendiamo fortemente per via del petrolio (che, come l’oro e le altre commodities, vede il proprio prezzo impennarsi). Ora come allora, la Banca centrale americana è andata avanti (e purtroppo va avanti) iniettando liquidità nell’economia, sia in maniera diretta sia indiretta (per esempio, con spettacolari, e illiberali, salvataggi di grandi istituzioni finanziarie, come è avvenuto in queste ultime settimane quando è intervenuta a soccorso di Fannie Mae, Freddie Mac e Aig).
Che cosa c’è di diverso? Alcune novità interessanti e importanti. C’è l’euro, che sarà pure gestito con tigna teutonica dalla Banca centrale europea, ma rispetto al quale il vincolo di contenere l’inflazione potrà certo danneggiare le imprese esportatrici, ma salva il valore del denaro e i risparmi di noi tutti. C’è che l’economia americana resta l’ombelico del mondo, ma i Paesi emergenti non sono più una novità: quanto, piuttosto, una quotidiana conferma, e un grande mercato bisognoso di merci, di servizi e di infrastrutture.
C’è che la ricchezza del mondo è cresciuta, e sono non pochi gli operatori di peso che sono pronti a subentrare nel capitale delle istituzioni finanziarie che traballano, quando il gioco si farà duro davvero e partirà un chiaro segnale circa l’opportunità di fare profitto. C’è che sono cambiati i modi e i tempi dell’intervento pubblico: e per tutto il male che si possa pensare dei fondi sovrani, senza alcun dubbio è preferibile uno Stato che si comporta da grande investitore a uno Stato che si comporta da piccolo imprenditore.
In ultima analisi, la crisi c’è e deve esserci: perché quando i banchieri centrali sbagliano, il conto inevitabilmente lo paghiamo tutti. Ci sono pure elementi nuovi, però, che rendono difficile fare previsioni. Quel che è chiaro è che un’economia con i fondamentali comunque solidi, come quella americana, pagherà dazio, ma poi tornerà a crescere. E il dollaro potrà risalire sul trono.

 

   
   
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