Settembre 2008

Controcanto

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Mini-dollaro. Super-euro
Emanuele D’Arconte  
 
 

 

 

 

 

 

Nei prossimi anni, la crescita della economia cinese porterà a un
graduale
allontanamento dal dollaro, come valuta di riserva
su scala mondiale.

 

Chi può farlo in virtù della propria valenza professionale, in qualunque parte del mondo, chiede di essere retribuito in euro: «Perché nessuno sa quanto scenderà ancora il dollaro». Del resto, riuscire a prevedere come oscillerà la valuta nel medio periodo è facile come prevedere il tempo. Parafrasando Chance, il surreale protagonista del film Oltre il giardino, nel lungo termine è certo che l’autunno cederà il passo all’inverno.
Insomma, con i tempi che corrono è quasi certo che il dollaro debole di oggi diventerà ancora più debole nell’immediato futuro. Il fenomeno, del resto, ha origini quasi antiche. Il Fondo monetario internazionale (Fmi) venne istituito nel luglio 1944, dopo la Conferenza di Bretton Woods. Gli Stati Uniti avevano adottato un sistema basato sulla convertibilità del dollaro in oro (stimato 35 dollari l’oncia) e altri Paesi avevano agganciato le valute non all’oro, ma al dollaro americano. Il compito principale di questo sistema era garantire la stabilità del tasso di cambio.
Poi questo sistema iniziò a precipitare. Erano gli anni Sessanta. Prima la Gran Bretagna fu costretta a svalutare più volte la sterlina. Successivamente, il deficit di bilancio cronico degli Stati Uniti, verificatosi durante la guerra in Vietnam, e i programmi di welfare costrinsero il presidente Nixon a chiudere la “Gold Window” il 15 agosto 1971, proprio per frenare l’assalto speculativo al dollaro.
Cadde allora l’ultimo punto fermo per il sistema dei tassi di cambio fissi, la convertibilità della divisa americana in oro a un prezzo garantito. Fin dal 1971, insomma, il mondo vive con un sistema inconvertibile, nel quale il prezzo di una valuta rispetto a un’altra dipende dalle previsioni d’inflazione, dai tassi d’interesse, dalle bilance commerciali e da molti altri fattori.

Quando la Federal Reserve cercò bruscamente di porre un freno all’andamento monetario nei primi anni Ottanta per ridurre il tasso d’inflazione a due cifre che affliggeva gli Stati Uniti, il dollaro diventò il re delle valute: raggiunse la parità con la sterlina, venne scambiato a 4 marchi tedeschi e a 360 yen giapponesi.

Oggi, 37 anni dopo, la situazione è capovolta. Alla fine del 2007 una sterlina valeva più di 2 dollari, servivano 113 yen per acquistare 1 dollaro, e l’euro raggiungeva picchi storici. Secondo i docenti dei più importanti dipartimenti di economia americani, la discesa è tutt’altro che finita: il dollaro calerà ancora di un 10-20 per cento.
Anche rispetto ad altre valute, sempre durante lo scorso anno, il dollaro non è andato meglio: ha subìto cali intorno al 16 per cento nei confronti del real brasiliano, al 17 per cento nei confronti del dollaro canadese, al 10 per cento nei confronti dei pesos colombiano e uruguaiano, al 10 per cento e oltre nei confronti delle valute di altri otto Paesi: Australia, India, Filippine, Thailandia, Norvegia, Polonia, Slovacchia e Turchia. Trend, questo, proseguito fino alla metà del 2008. Il denaro, destinato agli investimenti, che affluisce in molti di questi Paesi ha esercitato una pressione al rialzo sulle loro valute, determinando inflazione.
Dal momento che la Cina mantiene il controllo dei movimenti di capitale, Pechino è riuscita a mantenere la rivalutazione dello yuan-renminbi ben al di sotto del 4 per cento. Questa evoluzione monetaria rappresenta la brusca inversione di tendenza come conseguenza della crisi finanziaria del 1997. Durante il vertice dei ministri delle Finanze del G-7 dell’autunno dello scorso anno, non venne rilasciata alcuna dichiarazione. Venne invece criticata la Cina per la sua decisione di mantenere basso il valore della sua valuta. Nessuno è riuscito a convincere Pechino a rivalutare la sua moneta un po’ più velocemente.
La Cina, però, non ha taciuto sul problema della propria moneta. In una replica ai ministri del G-7, Zhou Xiaochuan, Governatore della Banca centrale cinese, ha sostenuto che il valore dello yuan-renminbi viene sempre più determinato dalle forze di mercato (parole in codice, per far capire in qualche modo che si tratta di una lenta rivalutazione), e che la Cina intende «rendere la propria moneta completamente convertibile sulla bilancia dei movimenti di capitali»: in futuro, ma non nell’immediato, ha detto inoltre Zhou, l’intera comunità a livello mondiale deve fare la propria parte nel ridurre gli squilibri. E questa è stata la frase in codice per dire che gli Stati Uniti devono ridurre i loro deficit della bilancia commerciale e il disavanzo di bilancio per sostenere il dollaro.
Finora le economie europee sono riuscite in qualche modo a far fronte al dollaro debole, ma è diffusa la preoccupazione che un tasso tra 1,70 e 1,80 dollari possa far affluire in Europa quantità ancora maggiori di prodotti cinesi a basso costo, danneggiando le esportazioni e la crescita dell’Unione europea.

La debolezza della valuta americana non è il risultato di vicende recenti. Le basi sono state gettate nel corso di un lungo periodo. Gli Stati Uniti – com’è stato ricordato più volte – hanno vissuto al di sopra delle loro possibilità per lunghi anni. Il debito pubblico federale è di 5 trilioni di dollari, laddove la partecipazione estera a questo debito raggiunge il 50 per cento. Il deficit americano delle partite correnti, cioè la bilancia del commercio di beni e servizi, si avvicina pericolosamente ai 1.000 miliardi di dollari l’anno. Il consumo interno statunitense non è di gran lunga in linea con gli investimenti interni. Gli stranieri posseggono una fetta sempre più grande dell’economia degli Stati Uniti e del debito del loro governo, ma temono le conseguenze della costante crescita di queste quote, viste soprattutto le perdite associate alla caduta della moneta.

Gli sviluppi recenti hanno aggravato le tendenze nel lungo periodo. L’economia americana ha rallentato, mentre l’economia dell’area dell’euro si è risollevata, anche se di poco. La crescita nei Paesi in via di sviluppo è decisamente più forte che negli Stati Uniti, e di conseguenza questi Paesi attirano crescenti quote di investimenti globali. Dopo la crisi dei mutui subprime, negli Usa si sta insinuando la paura che l’economia americana possa rallentare addirittura fino a registrare una lunga recessione, il che rende gli investimenti nell’economia d’oltreoceano meno interessanti. La Fed ha ridotto i tassi d’interesse, diminuendo al tempo stesso il rendimento delle attività finanziarie americane. E sono possibili ulteriori riduzioni. Banche centrali estere e fondi patrimoniali che hanno accumulato trilioni di dollari stanno iniziando a diversificare partecipazioni e investimenti in un paniere valutario. Accumulando più fondi, la diversificazione potrebbe accelerare.
È molto probabile che i tentativi congiunti per sostenere il dollaro falliscano. I deficit gemelli (disavanzo pubblico e disavanzo della bilancia delle partite correnti) hanno creato squilibri globali impossibili da sostenere ancora a lungo. A meno che gli americani non riducano i consumi e aumentino i risparmi, cosa alla quale sono stati sempre restii, il dollaro dovrà calare ancora per eliminare questi squilibri.
La grande speranza in questo disordine è che la Cina trasformi la sua economia orientata all’esportazione in un’economia incentrata sul consumo interno, creando in questo modo mercati più ampi per beni e servizi americani ed europei. Tutto ciò contribuirebbe a ridurre il deficit della bilancia commerciale degli Stati Uniti, aiutando così il dollaro.

Ma la speranza sembra mal riposta. Un dollaro più debole potrebbe migliorare leggermente il deficit commerciale degli Usa nei prossimi mesi, ma non potrà porre rimedio alla sua causa principale. La maggior parte del deficit commerciale americano tra il 2004 e il 2006 era da imputarsi ai prezzi petroliferi troppo alti. Dato che la domanda globale di prodotti petroliferi supera l’offerta globale, i prezzi del barile resteranno elevati, anzi oscilleranno, ma verso picchi alti: così gli Stati Uniti continueranno ad accumulare deficit commerciale.
In assenza di una massiccia nuova produzione di energia, di un’elevata imposta sul petrolio importato o di qualche sistema di razionamento per ridurre il consumo (che i politici statunitensi non intendono imporre), il deficit commerciale resterà alto e il dollaro rimarrà sotto pressione.
Ogni aumento del prezzo del greggio prelude a un dollaro più debole. È improbabile infine che il fenomeno di una Cina (di un’India, di una Corea del Sud, di un Brasile…) in ascesa riesca ad evitare ulteriori discese del dollaro. Negli anni a venire, la crescita dell’economia cinese porterà a un graduale allontanamento dal dollaro, come valuta di riserva su scala mondiale. L’aggregato monetario M2 cinese si è raddoppiato ogni quattro anni, a partire dal 1978, ed è probabile che la rincorsa continui per tutto il prossimo decennio.
Entro il 2020, o forse anche prima, lo yuan-renminbi diventerà una moneta completamente convertibile, e fornirà ad altri Paesi asiatici un’alternativa al dollaro. E dal momento che i Paesi asiatici dipenderanno in misura sempre maggiore dal commercio con la Cina e da quello continentale, piuttosto che dal commercio con gli Stati Uniti, il dollaro subirà ulteriori pressioni.
Insomma, a meno che il governo americano non faccia sul serio per quanto concerne la riduzione dei suoi deficit di bilancio e delle partite correnti, il che significa ridurre drasticamente l’importazione di petrolio, le prospettive per il dollaro appaiono quantomeno incerte. E se il dollaro continua a indebolirsi, l’euro in costante apprezzamento diventerà la più grave questione economica del Vecchio Continente.

 

   
   
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