Settembre 2008

Note del padre dell’euro

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Diario cinese
Robert Mundell Premio Nobel per l’Economia
 
 

Il modo migliore per affrontare lo shock competitivo sarà quello di
trasferire in Cina le attività
che prevedono
l’impiego più
intensivo di
manodopera.

 

Ho visitato una fabbrica fuori Chendu, la “Changhong Co”, azienda statale che agli inizi, nel 1958, produceva equipaggiamento militare e ora fabbrica apparecchi elettronici, soprattutto televisori. In soli tre anni ha conquistato il 15 per cento del mercato americano di fascia bassa.
Non solo. Grazie ad accordi tecnologici conclusi con l’olandese Philips e la giapponese Panasonic, adesso la Changhong è per certi versi paragonabile a leader del settore come Samsung o Sony, e produce televisori di grandi dimensioni, compresi quelli a retroproiezione di quarta dimensione, sempre più diffusi.
Gli Stati Uniti accusano l’azienda cinese di dumping, che in termini tecnici significa vendere sottocosto. Non so se questo sia vero. Propendo per il no. Occorre invece considerare che in Cina i costi sono molto bassi, in conseguenza dei bassi livelli salariali combinati a una tecnologia quasi perfetta.
Ho visitato le catene di montaggio della fabbrica, dove lavorano circa 800 dipendenti. Gli operai sono di entrambi i sessi, di un’età compresa tra i 18 e i 50 anni. «Di quanti apparecchi televisivi si occupa un operaio nel corso di una giornata?». Circa 1.500, mi è stato risposto. Ho parlato con diversi operatori della linea di montaggio: un operaio è addetto all’avvitatura di un paio di circuiti, un altro inserisce due o tre spine e cavi, un terzo controlla il funzionamento del telecomando. Non è un lavoro pesante, ma suppongo che, dopo averlo ripetuto 1.500 volte nell’arco di una giornata, possa risultare faticoso. Certamente non si tratta di un’attività più pesante di quella da me svolta in gioventù, quando lavoravo su una “catena verde” in una segheria nella Columbia britannica.

Lo stipendio? Il lavoro viene pagato a pezzo, vale a dire in base al numero di apparecchi prodotti. Ma la paga, a seconda della mansione, non supera i 600-800 yuan (o renminbi) al mese, pari a circa 70-90 dollari. In aggiunta, gli operai ricevono un’indennità mensile per vitto e alloggio, pari a circa 100 yuan, sufficienti a coprire un affitto simbolico e buona parte degli alimenti.
In generale, nella provincia di Sichuan la paga oraria è pari a 4-5 yuan (equivalenti a circa 50 centesimi americani). Ovviamente, nessuna possibile rivalutazione del renminbi avrebbe effetti rilevanti sul costo del lavoro.
Europa, Giappone e Stati Uniti avranno difficoltà ad essere competitivi in settori come quello in cui la manodopera riveste un ruolo importante e la standardizzazione è una procedura corrente. Il Giappone si trova forse nella posizione peggiore, perché non ha (o non vuole avere) disponibilità di manodopera a buon mercato. Grazie all’ingresso di nuove nazioni, l’Europa ha invece una disponibilità di manodopera più economica, mentre gli Stati Uniti potranno sfruttare la costante immigrazione dall’America Latina o da altre aree. Tuttavia, il modo migliore per affrontare lo shock competitivo sarà quello di trasferire in Cina e in altre aree con salari bassi le attività che prevedono l’impiego più intensivo di manodopera e che i lavoratori occidentali, ai quali vengono corrisposti salari elevati, sono restii ad accettare. In questo modo sarà possibile conservare la propria posizione nel settore, mantenendo allo stesso tempo la gestione interna delle operazioni più specializzate e finalizzate a mercati di nicchia, per le quali non serve la produzione di massa.

Terminata la visita allo stabilimento, ho avuto un incontro con Ni Runfeng, l’amministratore delegato del gruppo: un cinquantenne dinamico e sicuro di sé, che in Cina è diventato una sorta di eroe grazie al suo successo industriale. Runfeng ha chiesto la mia opinione sulla rivalutazione del renminbi. Ho risposto che la Cina dovrebbe opporsi a una rivalutazione, che provocherebbe gravi danni all’economia. Allo stesso tempo – ho aggiunto – sarebbe possibile e auspicabile dimostrare comprensione per i timori delle altre nazioni e adottare alcuni provvedimenti che semplificherebbero il problema, compresa l’assegnazione agli Stati Uniti del compito di approvvigionatore della Cina in alcuni settori, con l’acquisto di aerei Boeing, motori General Electric e altri prodotti.

Runfeng si è dichiarato d’accordo, affermando che il deficit del saldo commerciale bilaterale con gli Stati Uniti è un riferimento insufficiente per attuare una politica del tasso di cambio. Il top manager ha fatto notare un particolare: quando nazioni come la Corea e il Giappone, che in passato esportavano direttamente negli Stati Uniti, inviano merci in Cina perché vengano assemblate, quindi esportate dalla Cina agli Usa, i deficit degli Stati Uniti con Corea e Giappone diminuiscono, mentre quelli con la Cina aumentano per una somma pari all’importo totale delle esportazioni dalla Cina, e non soltanto del valore aggiunto cinese.
Mi sono dichiarato assolutamente concorde con lui sull’argomento, esprimendo sconcerto per il fatto che la comunità finanziaria internazionale adotti le proprie risoluzioni concentrandosi sui saldi bilaterali e senza prendere in considerazione il forte deficit cinese con i Paesi del Sud-Est asiatico.
Tuttavia, la manifattura cinese è forte non soltanto nella produzione che comporta un impiego intensivo di manodopera. Il settore dell’acciaio richiede un ricorso importante al capitale e la Cina è il maggior produttore mondiale di acciaio.

Ho visitato la Wisco, la principale acciaieria cinese (una decina di milioni di tonnellate l’anno), situata appena fuori Wuhan, la città più grande della Cina centrale. Lo stabilimento è lungo oltre un chilometro. Mi è stato riferito che i macchinari sono stati prodotti in Germania o costruiti in conformità a specifiche tedesche, e che si tratta dell’acciaieria più moderna esistente al mondo. Ho notato un numero sorprendentemente scarso di operai, sebbene sia stato informato che nello stabilimento lavorano circa 200 persone. In compenso, gli stipendi mensili ammontano a una somma equivalente a 150-200 dollari, quindi sono molto più alti rispetto a quelli degli operai che lavorano nella fabbrica per la produzione di televisori, dove il ricorso alla manodopera è intensivo.

Paradossalmente, anche se l’Italia rischia di subire dalla concorrenza cinese danni maggiori rispetto ad altre nazioni europee, molti imprenditori italiani sarebbero meglio preparati a trarre profitto dai particolari vantaggi comparati della Cina. In tutto il Paese ho notato una vasta diffusione di prodotti made in Italy.
Forse si tratta di articoli italiani duplicati in fabbriche cinesi. Anche se sembra che il governo cinese stia adottando misure energiche per la lotta alla contraffazione dei marchi esteri, l’abitudine è talmente diffusa che sarebbe ingenuo aspettarsi una soluzione del problema in tempi brevi. Qualunque sia la situazione, sarebbe meglio che i prodotti italiani venissero fabbricati legalmente da affiliati italiani, piuttosto che copiati in modo del tutto illegale. In Cina, l’Italia gode di notevole stima, e il suo buon nome ha una risonanza particolare nel settore dell’abbigliamento, della moda, dei tessuti, delle automobili di piccola cilindrata, oltre che dei ciclomotori e delle Vespe a bassa emissione, ideali per il mercato cinese.
Mi sorprende che in Cina la Fiat abbia un profilo così basso rispetto a General Motors, Hyundai, Toyota, Volkswagen, Audi, Ford. Ritengo che per gli italiani sia giunto il momento di accettare la realtà odierna di una Cina che registra lo sviluppo più rapido dell’economia mondiale.

 

   
   
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