Settembre 2008

Contrappunti finanziari

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La grandeur di Allah tra
Eurabia e sindrome cinese
Antonello Marangiu - Carlo M. Fantini
 
 

 

 

 

Tirannia.
Il petrolio rimarrà ancora con noi
per molti anni,
ma abbiamo tutti
interesse
a renderlo meno fonte di dittatura energetica.

 

Parigi vuol battere Londra nel campo dei sukuk, le obbligazioni islamiche. È cominciata così la corsa per superare i cittadini britannici in un settore nel quale sono sempre stati campioni: gestire il proprio e l’altrui denaro. La Ville Lumière vuole diventare la nuova capitale finanziaria d’Europa, grazie alle banche musulmane. E, a questo fine, ha introdotto alcune misure per rendere il Paese un catalizzatore di fondi a livello globale. Gli oltre sei milioni di islamici che popolano la Francia, rispetto ai “soli” tre milioni del Regno Unito, sembrano dare una sponda migliore per mettere le basi di un nuovo baricentro finanziario mondiale. Così si potrà fare conto sui soldi raccolti e utilizzati secondo le leggi di Allah.
Dovremo abituarci alle regole del riba (il divieto del tasso d’interesse o usura), del gharar (il divieto sull’incertezza degli affari), del maysir (il divieto della speculazione) e di tutte quelle distinzioni fra haram (vietato) e halal (consentito)? Non possiamo ancora dirlo, ma sarà bene prepararsi, visto che con gli attuali prezzi del greggio all’incasso ci sono loro. Noi siamo in fila per pagare.

Che impatto potrà avere una scelta del genere, visto anche il ruolo che Parigi vuole giocare nei nuovi equilibri continentali? Potrebbe essere un cavallo di Troia e la fase finale del grande progetto d’Eurabia ben descritto nel libro di Bat Ye’or, (e avversato con il coltello tra i denti da Oriana Fallaci), oppure una sana iniezione di princìpi etici in un sistema finanziario malato e senza regole? C’è chi considera le banche islamiche un grande bluff e che la proibizione degli interessi sia in realtà limitata al solo divieto d’usura. Vietata dal Corano, ma anche dalla tradizione cristiana. In effetti, nel periodo della Tanzimat, la riorganizzazione, tra il 1836 e il 1876, si importarono nell’Impero Ottomano le istituzioni bancarie di stampo occidentale, nel tentativo di puntellare il gigante con i piedi d’argilla.

Nel 1856 furono autorizzate ad operare le istituzioni bancarie a capitale straniero, legalizzando così il tasso d’interesse. Un divieto spesso eluso anche nel Medioevo. Le strutture, cui la Francia ha spalancato le porte, sono nate invece mezzo secolo fa.
I due “fondatori” si chiamavano Abul A’la Mawdudi, che mosse i primi passi nell’India britannica degli anni Quaranta, e Sayyed Qutb, l’ideologo dei Fratelli Musulmani, morto nelle carceri egiziane. Non essendo pratici di questioni economiche e di fattori come l’inflazione, avevano costruito un sistema che produceva soltanto perdite. Poi la svolta, e la nascita del concetto di compartecipazione.
Nelle banche islamiche creditore e debitore dovrebbero rischiare e guadagnare insieme nella condivisione. Musica per le nostre orecchie, intasate da scandali d’ogni genere, e alla ricerca di un’etica che non sia soltanto enunciata. Però pare che ci sia il trucco e che dunque tassi d’interesse comunque si paghino. Anche scandali e truffe non sono mancati, soprattutto in Egitto, dove l’Arabia Saudita è stata costretta spesso a metter mano al portafoglio per chiudere voragini e per salvare il concetto di banca islamica.
La prima iniziativa con rilievo funzionale viene attribuita all’economista Ahmad al-Najjar, che nel 1963 fondò la Cassa di risparmio di Mitt Ghamr. Ma il progetto di sbarco sul Vecchio Continente dei “broker” del risparmio secondo Corano prosegue da tempo e non mancano iniziative di rilievo, come quella del Robert Schuman center for advanced studies, che sondano il fenomeno, anche analizzando lo stato dell’arte e le prospettive future della finanza e delle attività bancarie, secondo le regole della shari’a. Con previsioni sull’appeal dei servizi di questo tipo, anche in vista dell’eventuale entrata della Turchia nel club di Strasburgo.
Un primo appuntamento di lavoro si è visto lo scorso gennaio a Firenze, dove fra gli altri si sono incontrati esponenti dell’Abi e della Uab (United Arab Banks), insieme con esperti di università inglesi e americane. Nel settembre 2007 proprio Abi e Uab avevano firmato un memorandum di cooperazione.

Ma torniamo sulle sponde della Senna per dare i numeri dell’ultimo progetto. Attualmente, due colossi come Bnp Paribas e Société Générale offrono un servizio ampio, ma non completo, di prodotti finanziari islamici. Ciò che preoccupa è che il Senato francese stia mettendo insieme politici, banchieri e giureconsulti musulmani per discutere come supportare i nuovi modelli di gestione del denaro. È un passo decisivo verso un cambiamento del quadro legislativo e fiscale dello Stato, come ha sottolineato il Financial Times del maggio scorso: una scelta quasi obbligata di un Paese ostaggio della propria comunità musulmana, oppure, secondo la versione ufficiale, un mero calcolo economico. Il fondatore, nel 2004, di Isla Invest, la prima società di consulenza del settore in Francia, Zoubair Ben Terdyet, è convinto che a spingere Parigi verso gli “islamic bond” siano le grandi prospettive di guadagno. Insomma, tutti alla ricerca del profitto moralmente corretto, nella speranza che rimanga qualcosa dell’Europa, oltre la carta moneta, se Dio vuole.

La crescita delle banche islamiche, che sono solo una parte della finanza araba, è stata del 20 per cento all’anno dal Duemila. Le attività consolidate secondo le leggi di Allah ammonterebbero a circa 500 miliardi di dollari (stime di Moodys). Anche in Inghilterra si è cercato di adeguare la legislazione per favorirne la crescita. Ad esempio, la Islamic Bank of Britain continua a svilupparsi nonostante la crisi delle concorrenti “laiche”, terremotate dai ninja loan ovvero subprime e prodotti collaterali e derivati. Con sede a Birmingham, ha visto i suoi clienti crescere del 38 per cento nel 2007.
I depositi si sono incrementati del 61 per cento in valore, fino a un ammontare di 135 milioni di sterline, circa 170 milioni di euro. Numeri ancora modesti, rispetto ai colossi del denaro, ma che sembrerebbero immuni dalle perdite che stanno dissanguando altri protagonisti del settore. Un fenomeno che non riguarderebbe solo la finanza islamica, ma più in generale le banche degli Stati del Golfo.
Nella classifica dei cosiddetti writedowns – le perdite legate ai subprime – solo la Gulf International Bank raggiungerebbe quota un miliardo di dollari, seguita molto da lontano dal gruppo formato dalla Gulf Investment Corporation e dall’Arab Banking Corporation, con poco più di 200 milioni di dollari, poi scemando verso perdite sempre minori, fino alla Saudi Investment Bank, con solo poche decine di milioni di buco. Una tendenza che farebbe pensare più a oculate scelte strategiche che all’obbedienza teologica.
Ma dove finisce la gran parte dei soldi arabi? Negli anni Settanta ci furono due grandi shock petroliferi. Il primo, provocato dalla guerra arabo-israeliana del Kippur, quadruplicò in quattro mesi il prezzo del barile. Il secondo, provocato dalla rivoluzione iraniana del 1979, ebbe per l’economia occidentale conseguenze ancora più negative. Nei mesi seguenti gli europei e gli americani furono costretti a rivedere i propri bilanci, a calcolare l’impatto dell’aumento dei prezzi sulle rispettive economie e a predisporre piani energetici. I più lungimiranti decisero che occorreva ricorrere a fonti alternative, e la Francia, in particolare, mise in cantiere un ambizioso programma per la costruzione di centrali nucleari.
Cominciò allora un dibattito, nel corso del quale l’Occidente parlò soprattutto di se stesso e si occupò poco di un altro problema al quale avrebbe dovuto dedicare maggiore attenzione. L’aumento del prezzo del petrolio ci avrebbe reso più poveri, ma avrebbe enormemente arricchito i Paesi fornitori. Che uso avrebbero fatto delle loro nuove straordinarie ricchezze? Oggi sappiamo che i petrodollari furono investiti principalmente in acquisto di armi e in operazioni immobiliari o finanziarie, ma anche per finalità religiose. L’Arabia Saudita, per esempio, ha ritenuto di dover giustificare il proprio ruolo di fornitore dell’Occidente finanziando la fornitura di scuole islamiche dalle quali sono usciti negli anni seguenti i quadri dei movimenti islamici, soprattutto in Afghanistan e in Pakistan, e la costruzione di moschee grandiose sia in territori musulmani che nel campo degli “infedeli”, Roma inclusa. Prima di essere colti nuovamente di sorpresa, dovremmo chiederci quale uso i Paesi fornitori faranno delle loro nuove ricchezze.
I Paesi più piccoli e meno assillati dal problema del proprio sviluppo stanno facendo acquisti di partecipazioni importanti sulle maggiori Borse del mondo. Qualche esempio: dopo avere inutilmente tentato l’acquisto della società che gestisce alcuni fra i maggiori porti degli Stati Uniti, Dubai ha comperato il 20 per cento del Nasdaq, il 28 per cento del London Stock Exchange e un glorioso transatlantico britannico (Queen Elizabeth II), destinandolo a diventare un albergo sulle coste del Golfo Persico.
Un fondo sovrano dello stesso Paese ha acquistato il 3,1 per cento dell’Eads, il costruttore di Airbus. Il Qatar ha rilevato un altro 20 per cento della Borsa inglese. L’Arabia Saudita compra armi e realizza importanti operazioni finanziarie, ma sembra decisa a fare investimenti considerevoli nelle infrastrutture necessarie all’economia nazionale. Ancora più interessante è forse il fatto che gli Stati del petrolio facciano acquisti in altri Paesi del Vicino e Medio Oriente, e che parte della ricchezza sia destinata a restare nella stessa regione.
Ma anche i ricchi hanno i loro grattacapi. I Paesi produttori, infatti, osservano con occhio preoccupato l’andamento del mercato. Debbono spendere 130 miliardi di dollari nei prossimi 5 anni per essere in grado di produrre 5 milioni di barili di greggio al giorno in più (Cina e India, insieme con altri Paesi in forte sviluppo, sono affamate di materie energetiche). Incassano dollari in un momento in cui la moneta americana si deprezza, e gli aumenti del costo del barile non solo non compensano sempre le scivolate del dollaro, ma inducono i Paesi consumatori a ridurre le importazioni di greggio e ad imporre al proprio interno politiche di austerità. Constatano che lo stesso aumento del prezzo del greggio ha risvegliato l’interesse per le energie alternative. E si chiedono quali effetti questi fattori avranno sulla futura domanda di petrolio.
Nulla di nuovo. Il caro-greggio suscita sempre reazioni che finiscono per provocare, prima o poi, un fenomeno di segno opposto. Secondo alcuni osservatori, occorrerebbe aiutare i produttori a sviluppare altri settori economici. E non hanno torto. Esiste una tirannia del petrolio che pesa, al tempo stesso, anche se in forma diversa, su produttori e consumatori. Il petrolio rimarrà ancora con noi per molti anni, ma abbiamo tutti interesse a renderlo meno fonte di dittatura energetica.
Paesi produttori di petrolio e grandi nazioni stataliste sono dunque a caccia di prede, approfittando degli eccessi e delle bolle speculative che da tempo caratterizzano Stati Uniti e Gran Bretagna. Sarebbe opportuno meditare con maggiore attenzione anche sugli acquisti della Cina, ma pure della Russia e del Giappone, di “Treasury bills” (Bot americani) e valutare con minore leggerezza le incursioni di Dubai e Qatar, di cui abbiamo detto appena sopra. La penetrazione di società dipendenti da governi esteri in gangli rilevanti dell’economia anglosassone non è cosa di poco conto: potrebbe influenzare e distorcere i mercati internazionali e le politiche di quei Paesi e dei loro alleati.
Abbiamo ricordato l’acquisto di una quota Nasdaq da parte della Borsa di Dubai e quello di una quota London Stock Exchange da parte della Qatar Investment Authority. Ebbene, il London Stock Exchange, che si fonde con il listino italiano, ha un rilievo internazionale notevole, nonostante il valore residuale dell’economia britannica e della sterlina, e potrebbe essere controllato da società dipendenti da Stati arabi. Questi, insieme al Nasdaq sconfitto a Londra, sono all’attacco delle Borse scandinave. Si tratta, forse, di investimenti solo finanziari, ma resta un legittimo sospetto, visto che i prezzi pagati sono realisticamente eccessivi e fuori mercato.
La Cina ha investito circa 1.500 miliardi di dollari nel debito pubblico statunitense, e soltanto nel 2007 si è assicurata oltre 600 miliardi di Treasury bills, con una crescita esponenziale, senza dubbio allarmante. I cinesi tengono in piedi la politica economico-monetaria americana, che viaggia sul ciglio del burrone, abusando di droghe e trascurando i fondamentali. La decisione del presidente della Federal Reserve di ridurre i tassi ha provocato la caduta del dollaro su tutte le valute mondiali, non su quella cinese. Almeno per ora, Pechino difende i suoi investimenti, per garantire vantaggi commerciali spesso indebiti alle sue merci, distorcendo la concorrenza; ma c’è da chiedersi che cosa potrebbe accadere qualora approfittassero dell’arma potente di cui dispongono, per imporre pretese e ambizioni di grande portata. Non sempre è agevole usare la forza delle armi per contrastare le armi della finanza, come sanno bene gli anglosassoni.
In conclusione: gli investimenti sul listino inglese di Dubai e Qatar, forse non convergenti, hanno risvolti geopolitici meno inquietanti, per quanto siano indicativi di una tendenza da non sottovalutare: alcuni Paesi dell’Occidente capitalistico spendono molto più di quanto producono, non risparmiano e inducono i loro cittadini a vivere come cicale dissipatrici, confidando con avventatezza sulla bontà di formiche straniere che li foraggiano con i loro risparmi. Le formiche si faranno sempre beffe di cicale che cantano l’estate incuranti dell’inverno, come ci hanno insegnato Esopo e Jean de la Fontaine. Imprese cinesi, russe, arabe agiscono sul mercato, ma non sempre rispettano le regole, e possono essere indotte a rispettarle come variabile dipendente dalle strategie politiche (o addirittura religioso-politiche) dei loro Stati.

 

   
   
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