Settembre 2008

L’europa utile

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Dalla speranza
alla disperazione?
Mario Pinzauti
 
 

 

 

 

E se mancasse
la volontà o la
capacità di farlo? In tal caso
bisognerà forse rassegnarsi a
cambiare binario, e andare avanti con l’Europa a due velocità.

 

Nel precedente articolo di questa rubrica ci chiedevamo se questo 2008 sarebbe stato l’anno della speranza per l’Unione europea. Era (ed è) un anno bisestile. Dunque, sul calendario si presentava male. Si presentava però bene alla luce di alcuni importanti risultati sia dell’Europa politica sia dell’Europa utile, quella che lavora per migliorare le condizioni di vita dei cittadini.
Il patto di Schengen era stato appena allargato (da dicembre) ad altri membri della famiglia comunitaria portando a 25 Paesi (su un totale di 27) la grande area in cui per i cittadini dell’UE non esistono più frontiere interne e si può viaggiare da un’estremità all’altra senza l’obbligo di esibire passaporti o altri documenti d’identità. Si erano festeggiati, a gennaio, i quindici anni del Mercato Unico e la grande quantità di benefici che esso ha portato nelle case di tutti i cittadini dell’Unione. «Potrebbe essere per l’Europa l’anno dell’entusiasmo», aveva detto – di fronte a questi e altri fatti positivi – il presidente della Commissione europea, Manuel Barroso. Con i tempi difficili che già all’inizio del 2008 correvano in tutto il mondo, il giudizio a noi era sembrato imprudente. Ci era sembrato invece realistico prevedere un anno di speranza.
E invece... invece è arrivato il 13 giugno, il venerdì nero. Una scheggia minuscola dell’Unione europea, l’Irlanda, con una popolazione pari a uno scarso uno per cento della popolazione comunitaria (4 milioni e mezzo di uomini e donne, contro un totale di 495 milioni), con 860 mila voti ha fermato il processo di ratifica del Trattato di Lisbona, quindi il salto in avanti che tale Trattato promette all’integrazione europea.
Seguita in altri Paesi da piccoli e grandi contraccolpi – dai quali taluni uomini di governo europei hanno tratto addirittura spunto per mettere in discussione l’utilità di quella che, sul piano politico, è stata forse la più grande impresa umana, cioè la coabitazione e la collaborazione di 27 Paesi in una comunità – la scivolata irlandese ha bruscamente fatto uscire di scena le speranze d’inizio anno. E ha fatto intravedere la disperazione. Proprio così, cari lettori. Questo 2008, che secondo Manuel Barroso avrebbe potuto essere l’anno dell’entusiasmo e secondo la nostra più prudente previsione si presentava con buone carte per meritarsi il titolo di anno della speranza, rischia di diventare, per l’Europa, l’anno della disperazione.

Questo disastroso traguardo è però ancora evitabile. Dato che la tenuta e il progresso dell’Europa restano nell’interesse di tutti i 27 Paesi dell’Unione ci si può ancora permettere di auspicare che nella parte finale dell’anno la saggezza prevalga e vinca. Per ora i governi dell’Unione si sono affidati soprattutto al generale tempo rinviando al Consiglio europeo di ottobre ogni decisione su come riparare lo strappo irlandese: con un altro referendum, come già avvenne nel 2000 dopo il no degli irrequieti cittadini di questo stesso Paese al Trattato di Nizza o rassegnandosi a scegliere un’Europa a due velocità e a due settori pressoché stagni, quello politicamente più coeso e attivo e quello che vede l’Unione come un’alleanza essenzialmente economica.

Vedremo. E intanto, poiché altre volte l’Europa è riuscita ad affrontare e superare gravi crisi (come quando i referendum francese e olandese nel 2005 affossarono il progetto di Costituzione), aspettiamo ad arrenderci alla sconfitta. Chissà che ottobre non riporti la speranza tra i popoli dell’Unione. Magari con il contributo, altre volte decisivo, dell’Europa utile. Alla quale oltretutto, nonostante lo choc del 13 giugno, sembrano continuare ad essere interessati gli stessi irlandesi: come inducono a pensare i seguenti dati riferiti a un sondaggio che è stato promosso in Irlanda alla fine di giugno, cioè pochi giorni dopo il referendum. Il sondaggio era costituito da una domanda secca: volete che il vostro Paese continui a far parte dell’Unione europea? Bene, la stragrande maggioranza degli interpellati, l’80%, compresa dunque buona parte di coloro che al referendum aveva votato no, ha risposto con il sì.

Questo fatto a prima vista – solo a prima vista, però – assolutamente inspiegabile è forse l’elemento su cui, nel Consiglio europeo di ottobre, e possibilmente anche prima, i governanti dell’Unione dovrebbero riflettere di più. Perché esso probabilmente non denuncia un diffuso grado di follia o almeno d’incoerenza tra gli irlandesi. Con quasi certezza, invece, contribuisce, se lo si sa leggere, a far capire che l’Europa, in Irlanda, è meno, molto meno impopolare di quanto il risultato del referendum del 13 giugno abbia fatto credere. Se è così, la caduta nel precipizio della disperazione può essere evitata. A condizione di riuscire a trovare la non facile soluzione giusta.
Ha già provato a farlo almeno uno dei ventisette capi di Stato e di governo che compongono il Consiglio europeo. È il presidente francese Nicolas Sarkozy, il quale già al Consiglio europeo del 19 giugno aveva detto: «Molti cittadini non comprendono come stiamo costruendo l’Europa».
Il referendum irlandese (e prima ancora evidentemente quelli francese e olandese del 2005) pongono dunque il problema di una più chiara e convincente comunicazione. Come risolverlo? Anzitutto, secondo noi, mettendo in bella mostra i risultati dell’Europa utile, quella che da oltre mezzo secolo è al lavoro per portare benessere nelle case dei cittadini europei.
Detto questo – e con profonda convinzione – ci troviamo però davanti a un interrogativo: se questo è vero, come senz’altro è vero, come si spiega che due no all’Europa (quello del 2000 al Trattato di Nizza e quello del 13 giugno di quest’anno al Trattato di Lisbona) siano venuti dal Paese in cui i risultati dell’Europa utile hanno raggiunto livelli senza pari, da record, e sono sotto gli occhi di tutti i cittadini, sia irlandesi che del resto dell’Unione europea?

Nel diciannovesimo secolo l’Irlanda era uno dei Paesi più poveri d’Europa. Quando, tra il 1845 e il 1849, la peronospora colpì la coltivazione delle patate, distruggendo completamente il raccolto del 1846 e gran parte di quello del 1848, migliaia di persone morirono di fame e un milione e cinquecentomila emigrarono oltreoceano, negli Stati Uniti e nel Canada, facendo scendere di una quantità calcolata tra il 25 e il 30 per cento il numero complessivo degli abitanti dell’Irlanda.
Questa tragedia, entrata nella storia del Paese e del mondo con il titolo di “The Great Famine”, la Grande Fame, non si ripeté più nelle stesse dimensioni. E tuttavia la povertà restò di casa a lungo in Irlanda. C’era ancora quando nel 1973 il Paese entrò nella Comunità europea assieme alla Gran Bretagna e alla Danimarca. Il reddito pro capite era tra i più bassi d’Europa, la disoccupazione altissima.
Trentacinque anni dopo l’Irlanda è economicamente e socialmente irriconoscibile. Dati resi noti alla fine di giugno di quest’anno (qualche giorno dopo il referendum!) le hanno confermato la posizione di Paese con un reddito pro capite tra i più alti dell’Unione. Esattamente con 45 mila euro per abitante essa, nella famiglia comunitaria, è seconda, preceduta solo dal Lussemburgo. Supera perciò Germania, Francia, Gran Bretagna, Belgio, Olanda e tutti gli altri membri della famiglia comunitaria (compresa l’Italia). L’anno scorso, nel 2007, quanto a reddito medio pro capite l’Irlanda ha battuto perfino gli Stati Uniti. E ha sorpassato la ricca America, dove a metà Ottocento trovarono rifugio masse sterminate di irlandesi affamati, anche nelle esportazioni. E con un dato strepitoso. Le odierne esportazioni irlandesi moltiplicano di sette volte pro capite quelle degli Stati Uniti.
Negli ultimi decenni la crescita del Prodotto Interno Lordo dell’Irlanda è stata ed è ancora tra le più rapide e spettacolari d’Europa e del mondo: +10% annuo nel periodo 1995-2000, +7% dal 2000 al 2004, successivamente a livelli più contenuti ma ancora notevoli (nel 2007 è stata del 5,3%). Si tenga presente che ancora nel 1992 il PIL irlandese era inferiore del 20% alla media europea. La disoccupazione, che nel 1991 coinvolgeva il 20% della forza lavoro, nel 2002 era precipitata al 4%. Ora è leggermente risalita – al 5% – ma resta tra le più basse dell’Unione europea e permette all’Irlanda di importare mano d’opera da altri Paesi. Il 9% della popolazione attiva di questo Paese oggi è costituito infatti da lavoratori stranieri.
«Tuttavia i soldi europei non costituivano un buon motivo per votare sì al Trattato di Lisbona»: lo ha detto, all’indomani del referendum, il professor Michel Marsh, docente al Trinity College di Dublino. Non gli si può dare completamente torto. O meglio: non è solo merito dell’Europa il miracolo dell’Irlanda, l’acrobatico salto che ha dato la possibilità a questo piccolo Paese di passare dalla miseria alla ricchezza, dall’economia contadina a quella post-industriale e, come sintetizza uno slogan, “Dalla patata al computer”, permettendole di autoproclamarsi – e senza che il resto del mondo possa aver niente da obiettare – “Tigre celtica”.

Ma l’Europa c’entra. Eccome. Dai fondi strutturali e dai fondi di coesione (questi ultimi destinati ai Paesi in cui il reddito pro capite è nettamente inferiore alla media dell’Unione) sono entrati nelle casse irlandesi 55 miliardi di euro: una somma che appare enorme se si considerano le dimensioni del Paese e il numero dei suoi abitanti.
Certo, questa somma è stata spesa bene, nel migliore dei modi. Nel 1982 le forze politiche che erano al governo e quelle dell’opposizione hanno sottoscritto il cosiddetto “piano di risanamento” e insieme si sono messe al lavoro per portare l’Irlanda dal passato al futuro dell’economia, non solo creando da zero un’industria, ma basandola prevalentemente sulle nuove tecnologie. Mentre al Paese si chiedeva di sopportare un periodo di austerità, si è adottata un’intelligente politica fiscale con tasse molto basse che per le imprese potevano arrivare allo zero per cento: con il risultato, tra l’altro, di attrarre da tutto il mondo un gran numero di investitori.
Oggi sul fazzoletto di terra che è l’Irlanda operano le filiali di 1.200 imprese americane, tra l’altro quelle dei maggiori colossi dell’informatica: da Microsoft alla IBM, alla Apple, alla Rank e alla Xerox. Molte, quanto a investitori, sono state e sono anche le presenze provenienti da altri Paesi, Italia compresa. E così, grazie anche naturalmente al contributo delle sue imprese nazionali, l’Irlanda è diventata il Paese dall’economia più globalizzata del mondo, quello che riesce ad esportare, con grandi benefici economici, la gran parte dei suoi prodotti (l’85%!) e, per quanto riguarda il software e i servizi, addirittura ha la leadership mondiale delle esportazioni pro capite, cioè proporzionalmente al numero dei suoi abitanti.
Sono risultati raggiunti in trentacinque anni, attraverso periodi di crescita a velocità supersonica (come nel decennio tra il 1993 e il 2003, quello del cosiddetto “boom irlandese”), alternati a momenti di sviluppo più contenuto e tuttavia con un bilancio finale che ha meritato all’Irlanda l’attenzione e l’ammirazione dell’Europa e di tutto il mondo, facendo addirittura sì che questo Paese diventasse per qualcuno, in Europa e in altri continenti, una sorta di terra promessa. Abbiamo già segnalato che grazie a una forte immigrazione il numero di lavoratori stranieri ha raggiunto, in questo Paese, il nove per cento del totale della popolazione attiva. E c’è un altro dato che dice molto. Da lontani continenti ogni settimana rientrano in Irlanda mille discendenti di coloro che centosessant’anni fa fuggirono la “Grande fame” provocata dalla peronospora della patata.
C’è quanto basta, forse di più, perché ogni irlandese, guardandosi allo specchio ogni mattina per radersi o pettinarsi si complimenti con se stesso, si dica che lui e i suoi compatrioti sono stati e continuano ad essere tanto bravi. Ma c’è anche quanto basta, forse di più, perché egli riconosca che l’Europa l’ha aiutato ad esserlo e che senza quell’aiuto i risultati messi oggi in vetrina con tanto orgoglio non ci sarebbero stati, o sarebbero arrivati con tempi più lunghi o in misura inferiore a quella che oggi, a ragione, egli e i suoi compatrioti possono vantare. La parte più sostanziosa dei fondi comunitari – cinquanta miliardi di euro – è arrivata all’Irlanda tra il ‘73 e il ‘93. E nel ‘93 è iniziato il “miracolo economico” irlandese, con un aumento del PIL del 10% per cento annuo. Non può essere stata una fortuita coincidenza. Votando a stragrande maggioranza, nel sondaggio di fine giugno, per la permanenza del loro Paese nell’Unione europea, gli stessi irlandesi hanno dimostrato di averlo capito. Perché, allora, hanno respinto il Trattato di Lisbona?

A giudizio di alcuni analisti, essi hanno dato credito a notizie – assolutamente infondate e diffuse da una ristrettissima minoranza della classe politica (solo tre parlamentari erano apertamente per il “no”!) – secondo le quali l’applicazione del Trattato sarebbe seguita da un aumento delle tasse in tutta l’Unione. Secondo altre fonti, essi hanno temuto che alcune novità introdotte dal Trattato di Lisbona, tra l’altro la riduzione del numero dei membri della Commissione e di quello dei parlamentari europei, avrebbero potuto sminuire il peso politico dell’Irlanda e di altri piccoli Paesi nell’Unione europea. Dovrebbe dunque essere stato, anzi sicuramente è un problema di inadeguata comunicazione tra l’Europa e i suoi cittadini. Non su quanto l’Unione ha fatto o sta facendo. Ma su quanto essa farà – o si presume che potrebbe fare – con o senza Lisbona. Su questo problema bisognerà che i governi dell’Unione e le istituzioni europee si impegnino presto, meglio da subito, a fare luce più chiara e convincente per gli irlandesi e per i dubbiosi o scettici di altri Paesi: se possibile, entro ottobre o subito dopo.
E se mancasse la volontà o la capacità di farlo? In tal caso bisognerà forse rassegnarsi a cambiare binario, a decidere di andare avanti con l’Europa a due velocità. La quale potrebbe alla fine rivelarsi la scelta più utile per tutti, comunque una tragedia per nessuno. Induce già da ora a sperarlo il fatto che l’Europa non si è fermata né politicamente né economicamente dopo l’incidente irlandese. Come confermano l’adesione alla moneta unica della Slovacchia, che da gennaio sarà il sedicesimo membro dell’eurozona, e il mancato congelamento del progetto per l’ingresso della Croazia nella famiglia comunitaria.

 

   
   
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