E se mancasse
la volontà o la
capacità di farlo? In tal caso
bisognerà forse rassegnarsi a
cambiare binario, e andare avanti con lEuropa a due velocità.
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Nel precedente articolo di questa rubrica ci chiedevamo se questo
2008 sarebbe stato lanno della speranza per lUnione
europea. Era (ed è) un anno bisestile. Dunque, sul calendario
si presentava male. Si presentava però bene alla luce di
alcuni importanti risultati sia dellEuropa politica sia dellEuropa
utile, quella che lavora per migliorare le condizioni di vita dei
cittadini.
Il patto di Schengen era stato appena allargato (da dicembre) ad
altri membri della famiglia comunitaria portando a 25 Paesi (su
un totale di 27) la grande area in cui per i cittadini dellUE
non esistono più frontiere interne e si può viaggiare
da unestremità allaltra senza lobbligo
di esibire passaporti o altri documenti didentità.
Si erano festeggiati, a gennaio, i quindici anni del Mercato Unico
e la grande quantità di benefici che esso ha portato nelle
case di tutti i cittadini dellUnione. «Potrebbe essere
per lEuropa lanno dellentusiasmo», aveva
detto di fronte a questi e altri fatti positivi il
presidente della Commissione europea, Manuel Barroso. Con i tempi
difficili che già allinizio del 2008 correvano in tutto
il mondo, il giudizio a noi era sembrato imprudente. Ci era sembrato
invece realistico prevedere un anno di speranza.
E invece... invece è arrivato il 13 giugno, il venerdì
nero. Una scheggia minuscola dellUnione europea, lIrlanda,
con una popolazione pari a uno scarso uno per cento della popolazione
comunitaria (4 milioni e mezzo di uomini e donne, contro un totale
di 495 milioni), con 860 mila voti ha fermato il processo di ratifica
del Trattato di Lisbona, quindi il salto in avanti che tale Trattato
promette allintegrazione europea.
Seguita in altri Paesi da piccoli e grandi contraccolpi dai
quali taluni uomini di governo europei hanno tratto addirittura
spunto per mettere in discussione lutilità di quella
che, sul piano politico, è stata forse la più grande
impresa umana, cioè la coabitazione e la collaborazione di
27 Paesi in una comunità la scivolata irlandese ha
bruscamente fatto uscire di scena le speranze dinizio anno.
E ha fatto intravedere la disperazione. Proprio così, cari
lettori. Questo 2008, che secondo Manuel Barroso avrebbe potuto
essere lanno dellentusiasmo e secondo la nostra più
prudente previsione si presentava con buone carte per meritarsi
il titolo di anno della speranza, rischia di diventare, per lEuropa,
lanno della disperazione.
Questo disastroso traguardo è però ancora evitabile.
Dato che la tenuta e il progresso dellEuropa restano nellinteresse
di tutti i 27 Paesi dellUnione ci si può ancora permettere
di auspicare che nella parte finale dellanno la saggezza prevalga
e vinca. Per ora i governi dellUnione si sono affidati soprattutto
al generale tempo rinviando al Consiglio europeo di ottobre ogni
decisione su come riparare lo strappo irlandese: con un altro referendum,
come già avvenne nel 2000 dopo il no degli irrequieti cittadini
di questo stesso Paese al Trattato di Nizza o rassegnandosi a scegliere
unEuropa a due velocità e a due settori pressoché
stagni, quello politicamente più coeso e attivo e quello
che vede lUnione come unalleanza essenzialmente economica.
Vedremo. E intanto, poiché altre volte lEuropa è
riuscita ad affrontare e superare gravi crisi (come quando i referendum
francese e olandese nel 2005 affossarono il progetto di Costituzione),
aspettiamo ad arrenderci alla sconfitta. Chissà che ottobre
non riporti la speranza tra i popoli dellUnione. Magari con
il contributo, altre volte decisivo, dellEuropa utile. Alla
quale oltretutto, nonostante lo choc del 13 giugno, sembrano continuare
ad essere interessati gli stessi irlandesi: come inducono a pensare
i seguenti dati riferiti a un sondaggio che è stato promosso
in Irlanda alla fine di giugno, cioè pochi giorni dopo il
referendum. Il sondaggio era costituito da una domanda secca: volete
che il vostro Paese continui a far parte dellUnione europea?
Bene, la stragrande maggioranza degli interpellati, l80%,
compresa dunque buona parte di coloro che al referendum aveva votato
no, ha risposto con il sì.

Questo fatto a prima vista solo a prima vista, però
assolutamente inspiegabile è forse lelemento
su cui, nel Consiglio europeo di ottobre, e possibilmente anche
prima, i governanti dellUnione dovrebbero riflettere di più.
Perché esso probabilmente non denuncia un diffuso grado di
follia o almeno dincoerenza tra gli irlandesi. Con quasi certezza,
invece, contribuisce, se lo si sa leggere, a far capire che lEuropa,
in Irlanda, è meno, molto meno impopolare di quanto il risultato
del referendum del 13 giugno abbia fatto credere. Se è così,
la caduta nel precipizio della disperazione può essere evitata.
A condizione di riuscire a trovare la non facile soluzione giusta.
Ha già provato a farlo almeno uno dei ventisette capi di
Stato e di governo che compongono il Consiglio europeo. È
il presidente francese Nicolas Sarkozy, il quale già al Consiglio
europeo del 19 giugno aveva detto: «Molti cittadini non comprendono
come stiamo costruendo lEuropa».
Il referendum irlandese (e prima ancora evidentemente quelli francese
e olandese del 2005) pongono dunque il problema di una più
chiara e convincente comunicazione. Come risolverlo? Anzitutto,
secondo noi, mettendo in bella mostra i risultati dellEuropa
utile, quella che da oltre mezzo secolo è al lavoro per portare
benessere nelle case dei cittadini europei.
Detto questo e con profonda convinzione ci troviamo
però davanti a un interrogativo: se questo è vero,
come senzaltro è vero, come si spiega che due no allEuropa
(quello del 2000 al Trattato di Nizza e quello del 13 giugno di
questanno al Trattato di Lisbona) siano venuti dal Paese in
cui i risultati dellEuropa utile hanno raggiunto livelli senza
pari, da record, e sono sotto gli occhi di tutti i cittadini, sia
irlandesi che del resto dellUnione europea?
Nel diciannovesimo secolo lIrlanda era uno dei Paesi più
poveri dEuropa. Quando, tra il 1845 e il 1849, la peronospora
colpì la coltivazione delle patate, distruggendo completamente
il raccolto del 1846 e gran parte di quello del 1848, migliaia di
persone morirono di fame e un milione e cinquecentomila emigrarono
oltreoceano, negli Stati Uniti e nel Canada, facendo scendere di
una quantità calcolata tra il 25 e il 30 per cento il numero
complessivo degli abitanti dellIrlanda.
Questa tragedia, entrata nella storia del Paese e del mondo con
il titolo di The Great Famine, la Grande Fame, non si
ripeté più nelle stesse dimensioni. E tuttavia la
povertà restò di casa a lungo in Irlanda. Cera
ancora quando nel 1973 il Paese entrò nella Comunità
europea assieme alla Gran Bretagna e alla Danimarca. Il reddito
pro capite era tra i più bassi dEuropa, la disoccupazione
altissima.
Trentacinque anni dopo lIrlanda è economicamente e
socialmente irriconoscibile. Dati resi noti alla fine di giugno
di questanno (qualche giorno dopo il referendum!) le hanno
confermato la posizione di Paese con un reddito pro capite tra i
più alti dellUnione. Esattamente con 45 mila euro per
abitante essa, nella famiglia comunitaria, è seconda, preceduta
solo dal Lussemburgo. Supera perciò Germania, Francia, Gran
Bretagna, Belgio, Olanda e tutti gli altri membri della famiglia
comunitaria (compresa lItalia). Lanno scorso, nel 2007,
quanto a reddito medio pro capite lIrlanda ha battuto perfino
gli Stati Uniti. E ha sorpassato la ricca America, dove a metà
Ottocento trovarono rifugio masse sterminate di irlandesi affamati,
anche nelle esportazioni. E con un dato strepitoso. Le odierne esportazioni
irlandesi moltiplicano di sette volte pro capite quelle degli Stati
Uniti.
Negli ultimi decenni la crescita del Prodotto Interno Lordo dellIrlanda
è stata ed è ancora tra le più rapide e spettacolari
dEuropa e del mondo: +10% annuo nel periodo 1995-2000, +7%
dal 2000 al 2004, successivamente a livelli più contenuti
ma ancora notevoli (nel 2007 è stata del 5,3%). Si tenga
presente che ancora nel 1992 il PIL irlandese era inferiore del
20% alla media europea. La disoccupazione, che nel 1991 coinvolgeva
il 20% della forza lavoro, nel 2002 era precipitata al 4%. Ora è
leggermente risalita al 5% ma resta tra le più
basse dellUnione europea e permette allIrlanda di importare
mano dopera da altri Paesi. Il 9% della popolazione attiva
di questo Paese oggi è costituito infatti da lavoratori stranieri.
«Tuttavia i soldi europei non costituivano un buon motivo
per votare sì al Trattato di Lisbona»: lo ha detto,
allindomani del referendum, il professor Michel Marsh, docente
al Trinity College di Dublino. Non gli si può dare completamente
torto. O meglio: non è solo merito dellEuropa il miracolo
dellIrlanda, lacrobatico salto che ha dato la possibilità
a questo piccolo Paese di passare dalla miseria alla ricchezza,
dalleconomia contadina a quella post-industriale e, come sintetizza
uno slogan, Dalla patata al computer, permettendole
di autoproclamarsi e senza che il resto del mondo possa aver
niente da obiettare Tigre celtica.
Ma lEuropa centra. Eccome. Dai fondi strutturali e dai
fondi di coesione (questi ultimi destinati ai Paesi in cui il reddito
pro capite è nettamente inferiore alla media dellUnione)
sono entrati nelle casse irlandesi 55 miliardi di euro: una somma
che appare enorme se si considerano le dimensioni del Paese e il
numero dei suoi abitanti.
Certo, questa somma è stata spesa bene, nel migliore dei
modi. Nel 1982 le forze politiche che erano al governo e quelle
dellopposizione hanno sottoscritto il cosiddetto piano
di risanamento e insieme si sono messe al lavoro per portare
lIrlanda dal passato al futuro delleconomia, non solo
creando da zero unindustria, ma basandola prevalentemente
sulle nuove tecnologie. Mentre al Paese si chiedeva di sopportare
un periodo di austerità, si è adottata unintelligente
politica fiscale con tasse molto basse che per le imprese potevano
arrivare allo zero per cento: con il risultato, tra laltro,
di attrarre da tutto il mondo un gran numero di investitori.
Oggi sul fazzoletto di terra che è lIrlanda operano
le filiali di 1.200 imprese americane, tra laltro quelle dei
maggiori colossi dellinformatica: da Microsoft alla IBM, alla
Apple, alla Rank e alla Xerox. Molte, quanto a investitori, sono
state e sono anche le presenze provenienti da altri Paesi, Italia
compresa. E così, grazie anche naturalmente al contributo
delle sue imprese nazionali, lIrlanda è diventata il
Paese dalleconomia più globalizzata del mondo, quello
che riesce ad esportare, con grandi benefici economici, la gran
parte dei suoi prodotti (l85%!) e, per quanto riguarda il
software e i servizi, addirittura ha la leadership mondiale delle
esportazioni pro capite, cioè proporzionalmente al numero
dei suoi abitanti.
Sono risultati raggiunti in trentacinque anni, attraverso periodi
di crescita a velocità supersonica (come nel decennio tra
il 1993 e il 2003, quello del cosiddetto boom irlandese),
alternati a momenti di sviluppo più contenuto e tuttavia
con un bilancio finale che ha meritato allIrlanda lattenzione
e lammirazione dellEuropa e di tutto il mondo, facendo
addirittura sì che questo Paese diventasse per qualcuno,
in Europa e in altri continenti, una sorta di terra promessa. Abbiamo
già segnalato che grazie a una forte immigrazione il numero
di lavoratori stranieri ha raggiunto, in questo Paese, il nove per
cento del totale della popolazione attiva. E cè un
altro dato che dice molto. Da lontani continenti ogni settimana
rientrano in Irlanda mille discendenti di coloro che centosessantanni
fa fuggirono la Grande fame provocata dalla peronospora
della patata.
Cè quanto basta, forse di più, perché
ogni irlandese, guardandosi allo specchio ogni mattina per radersi
o pettinarsi si complimenti con se stesso, si dica che lui e i suoi
compatrioti sono stati e continuano ad essere tanto bravi. Ma cè
anche quanto basta, forse di più, perché egli riconosca
che lEuropa lha aiutato ad esserlo e che senza quellaiuto
i risultati messi oggi in vetrina con tanto orgoglio non ci sarebbero
stati, o sarebbero arrivati con tempi più lunghi o in misura
inferiore a quella che oggi, a ragione, egli e i suoi compatrioti
possono vantare. La parte più sostanziosa dei fondi comunitari
cinquanta miliardi di euro è arrivata allIrlanda
tra il 73 e il 93. E nel 93 è iniziato
il miracolo economico irlandese, con un aumento del
PIL del 10% per cento annuo. Non può essere stata una fortuita
coincidenza. Votando a stragrande maggioranza, nel sondaggio di
fine giugno, per la permanenza del loro Paese nellUnione europea,
gli stessi irlandesi hanno dimostrato di averlo capito. Perché,
allora, hanno respinto il Trattato di Lisbona?
A giudizio di alcuni analisti, essi hanno dato credito a notizie
assolutamente infondate e diffuse da una ristrettissima minoranza
della classe politica (solo tre parlamentari erano apertamente per
il no!) secondo le quali lapplicazione
del Trattato sarebbe seguita da un aumento delle tasse in tutta
lUnione. Secondo altre fonti, essi hanno temuto che alcune
novità introdotte dal Trattato di Lisbona, tra laltro
la riduzione del numero dei membri della Commissione e di quello
dei parlamentari europei, avrebbero potuto sminuire il peso politico
dellIrlanda e di altri piccoli Paesi nellUnione europea.
Dovrebbe dunque essere stato, anzi sicuramente è un problema
di inadeguata comunicazione tra lEuropa e i suoi cittadini.
Non su quanto lUnione ha fatto o sta facendo. Ma su quanto
essa farà o si presume che potrebbe fare con
o senza Lisbona. Su questo problema bisognerà che i governi
dellUnione e le istituzioni europee si impegnino presto, meglio
da subito, a fare luce più chiara e convincente per gli irlandesi
e per i dubbiosi o scettici di altri Paesi: se possibile, entro
ottobre o subito dopo.
E se mancasse la volontà o la capacità di farlo? In
tal caso bisognerà forse rassegnarsi a cambiare binario,
a decidere di andare avanti con lEuropa a due velocità.
La quale potrebbe alla fine rivelarsi la scelta più utile
per tutti, comunque una tragedia per nessuno. Induce già
da ora a sperarlo il fatto che lEuropa non si è fermata
né politicamente né economicamente dopo lincidente
irlandese. Come confermano ladesione alla moneta unica della
Slovacchia, che da gennaio sarà il sedicesimo membro delleurozona,
e il mancato congelamento del progetto per lingresso della
Croazia nella famiglia comunitaria.
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