Settembre 2008

Quarto capitalismo

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I miracoli
delle imprese normali
S.B.
 
 

 

 

 

L’industria
italiana più vitale è un’industria
“minore” che fa
i miracoli tutti
i giorni: non
perché non sappia far di meglio, ma perché nel nostro Paese è proprio impossibile fare altro.

 

Mentre prosegue – serrato – il dibattito per cercare di capire se il nostro Paese sia, oppure no, un cadavere che galleggia, si scopre che il saldo import-export dell’industria manifatturiera lo scorso anno è cresciuto molto più del Prodotto interno lordo e di qualsiasi altra cosa in Italia. E, se si va a scavare ancora più in profondità, si vede che una parte cospicua di questo saldo viene dalle aziende del cosiddetto “Quarto Capitalismo”, quelle cioè che stanno sotto i 500 dipendenti (ma sopra i 20), e comunque sotto i 2 miliardi di fatturato. E ancora, se uno va a verificare che cosa fanno queste imprese (4.400 in tutto), si accorge che non fanno (in massima parte) niente di straordinario. Fanno né più né meno le cose che vediamo tutti i giorni intorno a noi: scarpe, sedie, divani, lampade, tavoli, eccetera.
Le aziende del Quarto Capitalismo italiano, dunque, non sono una sorta di Silicon Valley variamente distribuita sul territorio. Magari fosse così. Tutt’altro. Si tratta di aziende normali che fanno cose normali, impiegando una tecnologia assolutamente normale. Eppure, nonostante i tempi, riescono a far crescere il saldo dell’export anche in anni difficili.
Vien da chiedersi, ovviamente, come facciano ad essere tanto brave. E qui ci sono almeno un paio di risposte. La prima è che si tratta di imprese di solito a proprietà familiare, e nelle quali comunque il processo decisionale è velocissimo (errori compresi). In altri termini, pochissima burocrazia e massima flessibilità. In conclusione, un’enorme capacità di “stare sul mercato”. La seconda risposta è che si tratta di aziende che hanno deciso di stare nella parte alta del mercato. Magari fanno solo scarpe, ma cercano di fare quelle più belle. E lo stesso accade per quelli che invece fanno “solo” sedie. La loro forza, insomma, consiste nel fare cose eccellenti, che in altri posti è molto difficile produrre.
Chiarito questo, viene da chiedersi perché il Quarto Capitalismo italiano (che è fatto da gente indubbiamente intelligente e dotata) sia costretto, in un certo senso, a battersi dentro una striscia di terra così sottile (cose comuni, ma più belle di tutte le altre) e non possa invece esprimersi su tecnologie di avanguardia che lo metterebbero almeno un po’ al riparo dalla concorrenza di Paesi più a buon mercato. E qui si arriva alle critiche che in questi ultimi tempi sono piovute sull’Italia. La verità, molto semplice, è che per fare “altre cose” (quelle tecnologicamente avanzate) serve un “contorno” di qualità: scuole, prima di tutto, e poi infrastrutture e servizi. Ma aggiungeremmo anche una burocrazia meno ottusa e meno ossessivamente presente.

Una volta un vecchio signore, che poi ha fatto una grande carriera in politica, ci spiegava che i tedeschi hanno tre aziende chimiche fra le prime al mondo, e noi neanche una, soltanto perché loro avevano una certa università. La stessa cosa si può dire per la Silicon Valley, circondata da università scientifiche fra le migliori del pianeta, e da un insieme di “soggetti” pubblici che spendono moltissimo in ricerca e comunque in attività scientifiche d’avanguardia, dal Jet Propulsion Lab al Livermore Lab (Il Jet Propulsion Laboratory del California Institute of Technology sviluppa, progetta e costruisce le sonde spaziali senza equipaggio della NASA. Il Lawrence Livermore National Laboratory, sempre in California, promuove lo sviluppo e l’innovazione delle riserve nucleari attraverso la scienza e l’ingegneria, eseguendo ricerche avanzate nel campo dell’energia della biomedicina e delle scienze ambientali, N.d.R.).
Tutto questo da noi non c’è. Se si percorre l’asse Milano-Venezia (dove nasce il 65 per cento delle nuove imprese del Quarto Capitalismo) si scopre che non esiste assolutamente nulla. Anzi, il progetto del celebre raddoppio della Milano-Bergamo (pochi chilometri di autostrada, in pianura, e senza gallerie) va avanti da non si sa più da quanti anni.
In buona sostanza, il Quarto Capitalismo “normale” (che fa cose normali con tecnologie normali) non è una scelta: in gran parte è una strada obbligata. È, forse, l’unica cosa che quegli imprenditori potevano fare da soli, visto che non hanno quel contorno che è necessario per far crescere un certo tipo di industria e di competenze. A riflettere bene, la stessa cosa si potrebbe dire per gli stilisti italiani (da Armani a Versace, da Valentino a Prada). Molti dei quali hanno cominciato a fare le loro cose belle (le più belle del mondo) addirittura nei bui anni Settanta, quando l’Italia stava andando a rotoli, (e in parte c’è andata, perché partì proprio allora l’esplosione del debito pubblico).
In conclusione, se si guarda oggi all’industria italiana più vitale (il Quarto Capitalismo, appunto), si vede un’industria “minore” (che fa i miracoli tutti i giorni) che è così non perché non sappia far di meglio, ma perché nel nostro Paese è proprio impossibile fare altro.

Leggere le analisi di Bankitalia sul commercio estero italiano degli ultimi anni, e i recenti dati Istat della bilancia commerciale, stimola una riflessione di fondo: la posizione internazionale dei nostri prodotti ha senza dubbio elementi di debolezza, ma anche estese aree di forza; e dunque, guardando avanti, lo sviluppo della nostra economia può certamente richiedere interventi di difesa del nostro mercato domestico, ma il successo verrà da un’energica politica di espansione delle esportazioni italiane.

La principale novità sottolineata dai dati di indagine è che la posizione internazionale dell’Italia dell’ultimo decennio risulta meno negativa di quanto non si sia fino ad oggi pensato. Con i vecchi dati, tra il 1996 e il 2007, le esportazioni italiane sembravano essere cresciute di un magrissimo 13 per cento, mentre in realtà la crescita è stata tripla (38 per cento); la quota italiana del mercato mondiale si è sicuramente ridotta, ma del 38 e non del 47 per cento.
I dati di bilancia commerciale più recenti indicano poi aree di evidente forza: tutti i settori del made in Italy, a partire da gennaio 2008, hanno avuto saldi positivi, dal tessile-abbigliamento al mobilio, ma un saldo positivo significativo vi è stato anche per la meccanica. Considerando i dati mensili degli ultimi anni, emerge poi un andamento altalenante, con le importazioni che si impennano per effetto dei prezzi del petrolio e delle materie prime, e pochi mesi dopo le esportazioni dei prodotti italiani, che contengono petrolio e materie prime, a loro volta aumentano, riuscendo bene o male a difendere le proprie posizioni sui mercati mondiali e superando anche l’ostacolo creato dalla forza dell’euro, che passa di record in record sul dollaro.

Tutto bene, dunque? Certamente no, perché nel medio periodo la nostra quota di mercato mondiale si è contratta, ma questa contrazione dipende da fattori sui quali le nostre istituzioni possono sicuramente incidere.
Il primo è la capacità di marketing del nostro sistema-Paese, palesemente inadeguata quando si tratta di aggredire commercialmente mercati grandi e complessi. Prendiamo l’India, che nel 2005 ha importato circa 1,8 miliardi di dollari di prodotti italiani, ma più di 4 miliardi dalla Francia e dalla Germania, e addirittura 4,6 miliardi dal Belgio. E la Cina? 27 miliardi di euro di importazioni nel 2006 dalla Germania, 8 dalla Francia e 5 dall’Italia. Non solo. Tra il 2000 e il 2006 le esportazioni tedesche in Cina sono triplicate, quelle francesi quasi triplicate, le nostre appena raddoppiate.
Potremmo fare altri esempi, ma è evidente che questi numeri indicano gravi carenze nel nostro sistema-Paese, quando questo deve guidare le imprese italiane, per lo più medie e piccole, verso lidi distanti.
Ma naturalmente la competitività dipende anche dai prezzi, e questi da due aspetti strutturali sui quali la nostra politica economica non è stata in grado di incidere adeguatamente: un alto costo del lavoro e una bassa produttività.
I dati del problema sono ben noti: il costo del lavoro elevato riflette in larga misura il livello degli oneri fiscali e sociali, a carico di imprese e dipendenti: anche queste sono variabili sulle quali certamente si può fare molto, e in tempi brevi, ove esista la volontà politica di agire. La bassa produttività riflette poi vari fattori, i principali dei quali sono la scarsa efficienza di molti servizi e l’inadeguatezza del nostro sistema formativo. Qui gli interventi determinano effetti solo nel tempo, ma quale migliore occasione per dedicarvisi con un progetto generale condiviso?
In ultima analisi, difendere la nostra economia può rendere necessarie energiche azioni a difesa del nostro mercato interno contro altrui politiche di dumping; ma anche sui mercati globali la miglior difesa è l’attacco, da condurre rinsaldando la competitività delle nostre imprese sui mercati esteri, e aiutandole concretamente, come fanno con sicura efficacia molti altri Paesi, ad aggredirli.

 

   
   
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