Lindustria
italiana più vitale è unindustria
minore che fa
i miracoli tutti
i giorni: non
perché non sappia far di meglio, ma perché nel nostro
Paese è proprio impossibile fare altro.
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Mentre prosegue serrato il dibattito per cercare
di capire se il nostro Paese sia, oppure no, un cadavere che galleggia,
si scopre che il saldo import-export dellindustria manifatturiera
lo scorso anno è cresciuto molto più del Prodotto
interno lordo e di qualsiasi altra cosa in Italia. E, se si va a
scavare ancora più in profondità, si vede che una
parte cospicua di questo saldo viene dalle aziende del cosiddetto
Quarto Capitalismo, quelle cioè che stanno sotto
i 500 dipendenti (ma sopra i 20), e comunque sotto i 2 miliardi
di fatturato. E ancora, se uno va a verificare che cosa fanno queste
imprese (4.400 in tutto), si accorge che non fanno (in massima parte)
niente di straordinario. Fanno né più né meno
le cose che vediamo tutti i giorni intorno a noi: scarpe, sedie,
divani, lampade, tavoli, eccetera.
Le aziende del Quarto Capitalismo italiano, dunque, non sono una
sorta di Silicon Valley variamente distribuita sul territorio. Magari
fosse così. Tuttaltro. Si tratta di aziende normali
che fanno cose normali, impiegando una tecnologia assolutamente
normale. Eppure, nonostante i tempi, riescono a far crescere il
saldo dellexport anche in anni difficili.
Vien da chiedersi, ovviamente, come facciano ad essere tanto brave.
E qui ci sono almeno un paio di risposte. La prima è che
si tratta di imprese di solito a proprietà familiare, e nelle
quali comunque il processo decisionale è velocissimo (errori
compresi). In altri termini, pochissima burocrazia e massima flessibilità.
In conclusione, unenorme capacità di stare sul
mercato. La seconda risposta è che si tratta di aziende
che hanno deciso di stare nella parte alta del mercato. Magari fanno
solo scarpe, ma cercano di fare quelle più belle. E lo stesso
accade per quelli che invece fanno solo sedie. La loro
forza, insomma, consiste nel fare cose eccellenti, che in altri
posti è molto difficile produrre.
Chiarito questo, viene da chiedersi perché il Quarto Capitalismo
italiano (che è fatto da gente indubbiamente intelligente
e dotata) sia costretto, in un certo senso, a battersi dentro una
striscia di terra così sottile (cose comuni, ma più
belle di tutte le altre) e non possa invece esprimersi su tecnologie
di avanguardia che lo metterebbero almeno un po al riparo
dalla concorrenza di Paesi più a buon mercato. E qui si arriva
alle critiche che in questi ultimi tempi sono piovute sullItalia.
La verità, molto semplice, è che per fare altre
cose (quelle tecnologicamente avanzate) serve un contorno
di qualità: scuole, prima di tutto, e poi infrastrutture
e servizi. Ma aggiungeremmo anche una burocrazia meno ottusa e meno
ossessivamente presente.
Una volta un vecchio signore, che poi ha fatto una grande carriera
in politica, ci spiegava che i tedeschi hanno tre aziende chimiche
fra le prime al mondo, e noi neanche una, soltanto perché
loro avevano una certa università. La stessa cosa si può
dire per la Silicon Valley, circondata da università scientifiche
fra le migliori del pianeta, e da un insieme di soggetti
pubblici che spendono moltissimo in ricerca e comunque in attività
scientifiche davanguardia, dal Jet Propulsion Lab al Livermore
Lab (Il Jet Propulsion Laboratory del California Institute of Technology
sviluppa, progetta e costruisce le sonde spaziali senza equipaggio
della NASA. Il Lawrence Livermore National Laboratory, sempre in
California, promuove lo sviluppo e linnovazione delle riserve
nucleari attraverso la scienza e lingegneria, eseguendo ricerche
avanzate nel campo dellenergia della biomedicina e delle scienze
ambientali, N.d.R.).
Tutto questo da noi non cè. Se si percorre lasse
Milano-Venezia (dove nasce il 65 per cento delle nuove imprese del
Quarto Capitalismo) si scopre che non esiste assolutamente nulla.
Anzi, il progetto del celebre raddoppio della Milano-Bergamo (pochi
chilometri di autostrada, in pianura, e senza gallerie) va avanti
da non si sa più da quanti anni.
In buona sostanza, il Quarto Capitalismo normale (che
fa cose normali con tecnologie normali) non è una scelta:
in gran parte è una strada obbligata. È, forse, lunica
cosa che quegli imprenditori potevano fare da soli, visto che non
hanno quel contorno che è necessario per far crescere un
certo tipo di industria e di competenze. A riflettere bene, la stessa
cosa si potrebbe dire per gli stilisti italiani (da Armani a Versace,
da Valentino a Prada). Molti dei quali hanno cominciato a fare le
loro cose belle (le più belle del mondo) addirittura nei
bui anni Settanta, quando lItalia stava andando a rotoli,
(e in parte cè andata, perché partì proprio
allora lesplosione del debito pubblico).
In conclusione, se si guarda oggi allindustria italiana più
vitale (il Quarto Capitalismo, appunto), si vede unindustria
minore (che fa i miracoli tutti i giorni) che è
così non perché non sappia far di meglio, ma perché
nel nostro Paese è proprio impossibile fare altro.
Leggere le analisi di Bankitalia sul commercio estero italiano degli
ultimi anni, e i recenti dati Istat della bilancia commerciale,
stimola una riflessione di fondo: la posizione internazionale dei
nostri prodotti ha senza dubbio elementi di debolezza, ma anche
estese aree di forza; e dunque, guardando avanti, lo sviluppo della
nostra economia può certamente richiedere interventi di difesa
del nostro mercato domestico, ma il successo verrà da unenergica
politica di espansione delle esportazioni italiane.

La principale novità sottolineata dai dati di indagine è
che la posizione internazionale dellItalia dellultimo
decennio risulta meno negativa di quanto non si sia fino ad oggi
pensato. Con i vecchi dati, tra il 1996 e il 2007, le esportazioni
italiane sembravano essere cresciute di un magrissimo 13 per cento,
mentre in realtà la crescita è stata tripla (38 per
cento); la quota italiana del mercato mondiale si è sicuramente
ridotta, ma del 38 e non del 47 per cento.
I dati di bilancia commerciale più recenti indicano poi aree
di evidente forza: tutti i settori del made in Italy, a partire
da gennaio 2008, hanno avuto saldi positivi, dal tessile-abbigliamento
al mobilio, ma un saldo positivo significativo vi è stato
anche per la meccanica. Considerando i dati mensili degli ultimi
anni, emerge poi un andamento altalenante, con le importazioni che
si impennano per effetto dei prezzi del petrolio e delle materie
prime, e pochi mesi dopo le esportazioni dei prodotti italiani,
che contengono petrolio e materie prime, a loro volta aumentano,
riuscendo bene o male a difendere le proprie posizioni sui mercati
mondiali e superando anche lostacolo creato dalla forza delleuro,
che passa di record in record sul dollaro.
Tutto bene, dunque? Certamente no, perché nel medio periodo
la nostra quota di mercato mondiale si è contratta, ma questa
contrazione dipende da fattori sui quali le nostre istituzioni possono
sicuramente incidere.
Il primo è la capacità di marketing del nostro sistema-Paese,
palesemente inadeguata quando si tratta di aggredire commercialmente
mercati grandi e complessi. Prendiamo lIndia, che nel 2005
ha importato circa 1,8 miliardi di dollari di prodotti italiani,
ma più di 4 miliardi dalla Francia e dalla Germania, e addirittura
4,6 miliardi dal Belgio. E la Cina? 27 miliardi di euro di importazioni
nel 2006 dalla Germania, 8 dalla Francia e 5 dallItalia. Non
solo. Tra il 2000 e il 2006 le esportazioni tedesche in Cina sono
triplicate, quelle francesi quasi triplicate, le nostre appena raddoppiate.
Potremmo fare altri esempi, ma è evidente che questi numeri
indicano gravi carenze nel nostro sistema-Paese, quando questo deve
guidare le imprese italiane, per lo più medie e piccole,
verso lidi distanti.
Ma naturalmente la competitività dipende anche dai prezzi,
e questi da due aspetti strutturali sui quali la nostra politica
economica non è stata in grado di incidere adeguatamente:
un alto costo del lavoro e una bassa produttività.
I dati del problema sono ben noti: il costo del lavoro elevato riflette
in larga misura il livello degli oneri fiscali e sociali, a carico
di imprese e dipendenti: anche queste sono variabili sulle quali
certamente si può fare molto, e in tempi brevi, ove esista
la volontà politica di agire. La bassa produttività
riflette poi vari fattori, i principali dei quali sono la scarsa
efficienza di molti servizi e linadeguatezza del nostro sistema
formativo. Qui gli interventi determinano effetti solo nel tempo,
ma quale migliore occasione per dedicarvisi con un progetto generale
condiviso?
In ultima analisi, difendere la nostra economia può rendere
necessarie energiche azioni a difesa del nostro mercato interno
contro altrui politiche di dumping; ma anche sui mercati globali
la miglior difesa è lattacco, da condurre rinsaldando
la competitività delle nostre imprese sui mercati esteri,
e aiutandole concretamente, come fanno con sicura efficacia molti
altri Paesi, ad aggredirli.
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